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Tecnica urbanistica: quattro criteri di buon senso

Approfondimento di Ermete Dalprato

 

L’urbanistica è materia complessa (ma cos’è poi l’urbanistica ?) di cui molti parlano e che sta vivendo un periodo di oggettivo “empasse” (usiamo un termine estero che meglio rende il momento di smarrimento).

Della legge di riforma dei principi - preannunciata come urgente alla fine del secolo scorso (!) - nessuno parla più dopo che ben due proposte si sono arenate in Parlamento e intanto si tira a campare con quello che c’è a livello nazionale (la vecchia e gloriosa legge n. 1150/42 più o meno rivisitata) e con qualche tentativo di innovazione di qualche legge regionale.

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Ciononostante i piani urbanistici si fanno e le tecniche di redazione si sono via via articolate rendendo sempre più complicata l’interpretazione normativa. Senza entrare nel dibattito (al momento a dire il vero abbastanza fiacco) dei massimi sistemi, vale comunque la pena dare alcuni suggerimenti pratici, validi - si ritiene - per tutte le stagioni che potrebbero quindi essere assunti a “criteri” di pianificazione perché tesi ad una maggiore intelligibilità dei piani.

Che potremmo declinare così:

  • Non riportare nell’articolato normativo testi di legge o provvedimenti di altri organi deliberanti: richiamarli semplicemente;
  • Non inventare nuove definizioni tecniche o procedure abilitative non previste per legge: il legislatore statale sta già facendo uno sforzo ciclopico per uniformarle a livello nazionale;
  • Non scambiare l’articolato normativo per una gara oratoria o un manifesto politico: limitarsi a dare precetti sintetici e comprensibili in gergo;
  • Non rincorrere l’illusione di poter disegnare il piano su una cartografia derivante dall’unificazione di cartografie di origine diversa (per esempio catastale e aerofotogrammetrica) perché la loro sovrapposizione sarà sempre una pericolosa contaminazione: scegliere una sola cartografia consapevoli dei limiti e dei pregi e a quelli adeguare la normativa.

Come si vede nulla di eclatante ma se vogliamo di buon senso; che, come tali, non dovrebbero neppure essere richiamati ma di cui pare essersi persa la consapevolezza. Vediamo perché.

Punto 1: richiamare la legge, non riscriverla

La legge, si sa, prevale di per sé, non c’è bisogno di riscriverla (e così tutte le norme sovraordinate di decreto o di strumento urbanistico sovraordinato). E allora non si capisce perché sia invalsa l’abitudine di riportarne testualmente i brani nelle norme di piano quasi a significare che se non sono riscritte non si applichino.

E non mi si dica che lo si fa per meglio aiutare il lettore rammentandogli che quella norma esiste. Per questo basterebbe richiamarla senza riscriverla.
Riscrivendola invece si corre il rischio di trascriverla male, magari con errori di stampa anche banali – quale lo spostamento di una virgola – che ne possono alterare il significato (non è così improbabile, anzi è già successo).

In ogni caso si appesantisce il testo da leggere e si induce nel lettore una divagazione superflua rispetto al contenuto specifico dell’articolo che si sta esaminando.

Per di più ci si espone al fondato rischio che la norma riscritta venga nel tempo modificata dal Legislatore (o dal normatore della disposizione sovraordinata) che costringerebbe ad una immediata rettifica della norma di piano. Ma la rettifica deve passare delle approvazioni degli Organi che ne hanno dato la prima approvazione ….. con un estenuante e inutile iter procedimentale che, nella migliore dalle ipotesi, non sarà mai tempestivo. Per cui non lo si fa quasi mai.

Ne consegue che, nel lettore:

  • o si induce imbarazzo interpretativo e lo si costringe all’autoaggiornamento sull’intervenuta modifica;
  • o, peggio, si induce in errore dandogli la falsa certezza che il testo sia quello riportato e non sia stato nel frattempo modificato.

Riportiamoci allora alla vecchia formula di richiamo aggiungendo “e s. m. e i.” (e sue modifiche e integrazioni) che pare una formula burocratica e che, invece, contiene in sé il concetto “dinamico” del costante automatico aggiornamento all’attualità.

Punto 2: le definizioni urbanistiche attuali bastano e avanzano

Da sempre il pianificatore è mosso dalla smania di lasciare un “segno” del proprio operato inventando modalità di intervento nuove e originali. A volte funzionali a strategie della pianificazione, a volte (più spesso) no. Una (forse) comprensibile forma di protagonismo.

Tanto nuove, originali e diverse da luogo a luogo, da piano a piano che già nel lontano 1978 il Legislatore ha sentito la necessità di porre un freno intervenendo con una norma (di legge) che unificasse a livello nazionale queste modalità.

Lo ha fatto con l’articolo 31 della legge n. 457/78 chiamando tali modalità esecutive “categorie di intervento” e imponendole valide su tutto il territorio nazionale!

Poiché però non era sicuro che sarebbe stato ascoltato dai pianificatori e, in ogni caso, per non dover attendere i tempi di adeguamento degli strumenti urbanistici vigenti, ha reso la norma immediatamente cogente imponendo (testualmente) che: “le norme del presente articolo prevalgono sulle disposizioni degli strumenti urbanistici generali e dei regolamenti edilizi”. Chiaro, tassativo, inequivocabile.

Da quella data in poi è cominciata un’opera di codificazione unitaria poi proseguita con il DPR 380/01 (articolo 3) e, più recentemente ancora, con l’Atto di Intesa del 20 ottobre 2016 e con la Tabella Allegato A al d.lgs 222/2016 (e, ancora col Glossario del d.m. 2.03.2018). Le “definizioni” dunque ci sono e ci paiono esaustive (anzi cominciano ad essere anche troppe e a scoordinarsi tra loro), certamente sufficienti a descrivere la totalità degli interventi possibili.

Nonostante questo sforzo del Legislatore abbia messo a disposizione del pianificatore una casistica ben dettagliata di definizioni “unitarie” ancora si assiste al tentativo di alcuni piani di ulteriormente dettagliare e/o introdurre nuove definizioni di opere che non trovano riscontro nella legislazione nazionale. Complice anche (oggi) il principio di legislazione concorrente delle regioni che nel 1978 non operava nella materia edilizia. Creando sconcerto e difficoltà interpretative, anzi introducendo quel “localismo” normativo che il Legislatore nazionale ancora tenderebbe ad evitare.

Peraltro il più delle volte inutile perché, diciamoci la verità, queste “invenzioni” locali quasi mai rispondono ad una vera esigenza di diversificazione di catalogazione funzionale alla pianificazione. Più spesso sono esercizi di virtuosismo (sempre all’insegna del “lasciare un segno” personalizzato).

Punto 3: il linguaggio urbanistico deve essere linguaggio tecnico

Le norme degli strumenti urbanistici si dividono (concettualmente) in Indirizzi, Direttive e Prescrizioni. Le norme di piano comunale sono prescrizioni. (Prevalentemente, se non proprio esclusivamente).

Gli indirizzi e le direttive sono invece caratteristica degli strumenti sovracomunali. Che, appunto, devono lasciare spazio alle norme comunali di come tradurli in puntuali precetti.

Se gli indirizzi e le direttive (proprio perché nome che tendono a promuovere) sono necessariamente scritte in forma discorsiva per indicare gli obiettivi, le norme di piano che di quegli indirizzi e direttive sono la traduzione operativa devono essere concise, tassative ed espresse in modalità tecnica. E non lasciare dubbi interpretativi.

Già diceva Pitagora che anche la musica è esprimibile in numeri. Le norme di piano non sono neppure musica.
Allora non c’è bisogno di farne esercizi letterari riportandone nei singoli articoli la finalità come purtroppo si vede fare in molti piani di ultima generazione.

Per le finalità c’è già la Relazione Generale (che pure è un allegato al piano) che deve illustrare gli obiettivi e le modalità di raggiungimento che il piano mette in atto per raggiungerle.

Descrizioni superflue appesantiscono la lettura e distraggono il lettore (o, forse, sono anche indice di scasa chiarezza tecnica di come operare). Più si scrive più ci si confonde e ci si espone ad interpretazioni “personalizzate”.

Il linguaggio tecnico si esprime per parametri numerici. Il linguaggio urbanistico, in quanto linguaggio tecnico, si deve esprimere per parametri numerici, per definizioni unitarie e destinazioni d’uso.

Punto 4: qualsiasi rappresentazione grafica non potrà mai prescindere dalla verifica in sito

La terra è tonda! E qualsiasi sua rappresentazione piana è affetta da approssimazioni (inevitabili). Facciamocene una ragione. Ma le approssimazioni dipendono dalla tecnica di riporto sul piano e dagli obiettivi che la carta si pone di meglio rappresentare. (Ancora gli obiettivi! Sono loro alla base del metodo. Si rammenti che, sempre, il metodo non è asettico: risponde all’obiettivo. E varia in funzione di esso).

Una carta catastale o una aerofotogrammetrica nascono con finalità e metodologia di rilevo assolutamente diverse e resteranno depositarie di informazioni destinate a fini diversi.

Saranno tra loro assimilabili; mai sovrapponibili. Con le potenti tecniche dell’informatica moderna ci siamo però illusi di poterlo fare e “sulla carta” (tirando un po’ di qua un po’ di la) riusciamo anche a farlo.

Che quello che ne esce sia l’esatta rappresentazione della realtà è tutto da dimostrare. Anzi: è dimostrato il contrario. Il risultato infatti è il frutto di molteplici approssimazioni (prima fra tutte l’adeguamento delle scale in quanto ogni cartografia è originariamente affetta da errori sistematici di rilievo che si trascinano amplificati dall’errore umano di lettura ad ogni modifica di scala).

La ricerca della rappresentazione “reale” del suolo (al fine anche di stabilire in modo esatto e univoco l’applicazione dei parametri edificatori) è una legittima aspirazione del pianificatore cui “devono” tendere la tavole di piano, con la consapevolezza però che non la raggiungeranno mai a meno di intrinseche approssimazioni.

Che si cercherà di migliorare al massimo senza mai raggiungere la perfezione. Cerchiamo allora di non complicare la lettura delle grafie di piano con la sovrapposizione di cartografie diverse attribuendo loro un’illusoria, irragiungibile, fideistica certificazione di “realtà”.

La “realtà” non potrà mai ritrovarsi se non sul campo. Siano le norme di piano a definirne le modalità.


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Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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