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Densità e Sostenibilità Urbana e Territoriale: intervista a Paolo La Greca, presidente CeNSU

Quali azioni prioritarie dobbiamo mettere in pratica, a partire da ora, per un futuro sostenibile del nostro territorio e delle nostre città?

Lo scorso 03 maggio si è tenuto a Napoli il Simposio Internazionale CeNSU, Centro Nazionale di Studi Urbanistici. Al centro del convegno il tema “Densità e Sostenibilità”. Attraverso numerose sessioni di approfondimento si è indagato sul concetto di Densità in rapporto al Consumo di Suolo, ai Servizi Ecosistemici, alle Infrastrutture Verdi, alla Resilienza Urbana, allo Spazio Pubblico, alla Progettazione Ambientale.

Data l'importanza dei temi trattati nel corso del Simposio organizzato dal CeNSU, INGENIO ha intervistato il presidente Paolo La Greca.


Intervista a Paolo La Greca sul tema della sostenibilità urbana e territoriale in rapporto alla densità edilizia

Presidente La Greca, lo scorso 03 maggio a Napoli si è tenuto il Simposio Internazionale CeNSU. Al centro del convegno il tema “Densità e Sostenibilità”, un tema sviluppato in una serie di sessioni di approfondimento che hanno visto il concetto di Densità in rapporto al Consumo di Suolo, ai Servizi Ecosistemici, alle Infrastrutture Verdi, alla Resilienza Urbana, allo Spazio Pubblico, alla Progettazione Ambientale. Cosa è emerso dal vostro tavolo di confronto e quali azioni prioritarie dobbiamo mettere in pratica, a partire da ora, per un futuro sostenibile del nostro territorio e delle nostre città?

Paolo La Greca

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L’incontro di Napoli, intenso e molto partecipato, è stato un confronto rilevante suggerito dall’attualità, mai sopita, dal tema della sostenibilità urbana e territoriale e della specifica sua declinazione in rapporto alla questione dell’alta densità edilizia.

A partire dagli anni settanta del secolo scorso, le relazioni fra ambiente, processi di sviluppo e trasformazioni territoriali sono state oggetto di un ripensamento radicale con l’elaborazione del rapporto Meadows suoi “limiti della crescita”, anticipato dalle azioni pioniere di Aurelio Peccei del Club di Roma, che pose l’attenzione mondiale sul problema epocale della finitezza delle risorse sottendendo la necessità di definire uno sviluppo compatibile con queste. La vasta eco a livello mondiale si tradusse nel famoso rapporto sul “Nostro Futuro Comune” che, nel 1987, introdusse, per la prima volta, il concetto di sviluppo sostenibile come: «uno sviluppo che soddisfi i bisogni del presente senza compromettere la possibilità delle generazioni future di soddisfare i propri».

La condivisione planetaria del concetto di sviluppo sostenibile ha due corollari. Da una parte il concetto di etica intergenerazionale – statuendo che non devono essere precluse alle generazioni future le stesse opportunità di cui gode la nostra – e dall’altra la necessità indifferibile della riduzione dello spreco di risorse prima fra tutte quella del suolo.

Da ultimo l’Agenda 2030 – emanata dalle Nazioni Unite nel settembre del 2015 – delinea concretamente la strategia, promossa dall’ONU, per conseguire la vision mirata a “Trasformare il nostro mondo” nella direzione della sostenibilità e dell’etica intergenerazionale sottesa dall’idea fondante dello sviluppo sostenibile. L’allarme sullo stato del pianeta e la consapevolezza dei rischi concreti per l’umanità, perfino la sua stessa intera sopravvivenza, devono tradursi in percorsi di cambiamento da attuare, a più livelli in tutti gli ambiti di azione della politica, della società, dell’economia e dell’ambiente in una stretta interrelazione tra loro. L’Agenda 2030 affida il difficile compito di rendere attuabile questa “visione” ai 17 “Sustainable Development Goals” (SDGs). Si tratta di obiettivi che impegnano i Paesi delle Nazioni Uniti in una costante azione soggetta a monitoraggio e verifiche periodiche.

Fra questi SDGs assume particolare significato, nella prospettiva urbanistica, l’undicesimo obiettivo che impone di “rendere le città e gli insediamenti umani inclusivi, sicuri, duraturi e sostenibili”. Quest’ambizioso obiettivo impegna le città entro il 2030 a conseguire una serie di “targets” che sottendono precise traiettorie di trasformazione e rigenerazione urbana.

I fattori presupposti dell’obbiettivo 11 muovono dal dato che già oggi metà dell’umanità, 3,5 miliardi di persone, vive in città e che nel 2030 salirà a quasi il 60% della popolazione mondiale. Se le città occupano solamente il 3% della superficie terrestre, tuttavia esse sono responsabili del 60-80% del consumo energetico e del 75% delle emissioni di carbonio

La rapida urbanizzazione esercita pressione sulle forniture di acqua dolce, sulle fognature, sull’ambiente e sulla salute pubblica.

Ma l’aspetto singolare, e per certi versi sorprendente, che ci ha indotto a promuovere il nostro articolato confronto è la tesi, peraltro già nota in ambito disciplinare, che l’alta densità delle città può portare efficienza se accompagnata dallo sviluppo tecnologico, riducendo il consumo di risorse e di energia e la considerevole riduzione dei fattori inquinanti, primo fra tutti quello delle emissioni di CO2. Si tratta di un approccio che, per certi versi, rappresenta un deciso ripensamento rispetto alle pratiche dello sprawl che ha caratterizzato la forma di crescita prevalente per le città del XX secolo e la cifra comune alle espansioni periferiche di gran parte delle città italiane. Questa crescita è stata fondata sulla fiducia illimitata per il trasporto affidato all’automobile privata, invasiva e fra le principali cause dell’inquinamento da combustibili fossili, con le gravi ripercussioni sulla vivibilità delle città nell’era dei cambiamenti climatici. Il trasporto pubblico di massa, in particolare quello su ferro, le nuove forme di mobilità dolce affidato a sistemi smart, il futuro già presente, per l’accessibilità alle e nelle aree urbane ha bisogno di maggiori concentrazioni e densità più elevate per migliorare le prestazioni.


Il 30 aprile 2019 è stato pubblicato in Gazzetta Ufficiale il Decreto Crescita. Rispetto alla prima versione che voleva la modifica del d.m. 1444/68 nel “Decreto Crescita” sotto il titolo “semplificazioni in materia di edilizia privata” oggi troviamo la modifica del datato decreto ministeriale all’articolo 5 del “decreto sblocca cantieri” sotto il titolo “Norme in materia di Rigenerazione Urbana”. Appare evidente che la finalità della norma ha una valenza maggiore in termini urbanistici più che meramente edilizi. Cosa ne pensa il CenSU a riguardo?

Paolo La Greca

Dobbiamo ricordare che l’Art. 2-bis. – “Deroghe in materia di limiti di distanza tra fabbricati”, era stato introdotto dall'art. 30, comma 1, lettera a della legge n. 98 del 2013, il cosiddetto “Decreto del Fare”, era già orientato a consentire alle Regioni di derogare alcune delle disposizioni previste dal DM 1444/68.

La significativa modifica introdotta dall’art. 5 del DL n.32/2019 ne ha ulteriormente enfatizzato il contenuto. Di fatto si è demandato a ciascuna regione il difficile e importante compito di legiferare sugli Standard introducendo espressamente “disposizioni derogatorie” al DM 1444/68 e, in particolare, “disposizioni sugli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali”.

Il fine che la norma modificativa si propone è chiaramente enunciato nel primo comma dell’art. 5 del citato DL 32/2019: “concorrere a indurre una drastica riduzione del consumo di suolo e a favorire la rigenerazione del patrimonio edilizio esistente, a incentivare la razionalizzazione di detto patrimonio edilizio, nonché a promuovere e agevolare la riqualificazione di aree urbane degradate con presenza di funzioni eterogenee e tessuti edilizi disorganici o incompiuti, nonché di edifici a destinazione non residenziale dismessi o in via di dismissione, ovvero da rilocalizzare, tenuto conto anche della necessità di favorire lo sviluppo dell’efficienza energetica e delle fonti rinnovabili e di assicurare il miglioramento e l’adeguamento sismico del patrimonio edilizio esistente, anche con interventi di demolizione e ricostruzione”.

Con la semplice sostituzione di due locuzioni: «introducono» in luogo di «possono prevedere» e «nonché» in luogo di «e possono dettare», è stato reso obbligatorio alle regioni di dover emanare, con proprie leggi e regolamenti, disposizioni derogatorie al DM 1444/68, uno dei fondamentali dell’urbanistica italiana. Si tratta di legiferare, è opportuno ricordare, su disposizioni in merito agli spazi da destinare agli insediamenti residenziali, a quelli produttivi, a quelli riservati alle attività collettive, al verde e ai parcheggi, nell’ambito della definizione o revisione di strumenti urbanistici comunque funzionali a un assetto complessivo e unitario o di specifiche aree territoriali.

Anche i due nuovi commi (1-bis e 1-ter) sono finalizzati a orientare i comuni nella definizione di limiti di densità edilizia, altezza e distanza dei fabbricati negli ambiti urbani consolidati del proprio territorio e rivedere per gli interventi di demolizione e ricostruzione la questione delle distanze minime riferendole al rispetto di quelle preesistenti e assicurando la coincidenza dell’area di sedime e del volume dell’edificio ricostruito con quello demolito, nei limiti dell’altezza massima di quest’ultimo.


Il D.M. 1444/68 ha già compiuto 50 anni. Rispetto al passato il governo del territorio è cambiato profondamente, le priorità di intervento e le tutele sono altre. Quanto ancora si dovrà aspettare per una vera e propria riforma della normativa Urbanistica Italiana?

Paolo La Greca

Come ho appena detto si tratta di un problema di estrema rilevanza poiché, come ben noto, il governo del territorio rientra nell’ambito della legislazione concorrente e, quindi, spetta allo Stato solo definire i principi generali dei quali, tuttavia, è sempre difficile definire i confini. La legislazione statale di riferimento, prima fra tutte il DM 1444 sugli Standard, è precedente alla devoluzione nata con il decentramento susseguente all’istituzione delle regioni negli anni’70 del secolo scorso. Quella norma era informata dalle necessità di dare ordine  alla città che “cresceva”, spesso in maniera tumultuosa, a seguito del forte inurbamento che aveva caratterizzato quella fase del Paese ma, soprattutto,  garantire una dotazione base di spazi pubblici inalienabili per tutti i cittadini insediati o da insediare.

Oggi il tema guida della trasformazione delle città è la rigenerazione resiliente delle sue parti consolidate. Si tratta di “costruire sul costruito”: una pratica che impone nuove regole sugli spazi comuni, sulle distanze, sulle volumetrie e sulle altezze ammissibili negli interventi. Solo un progetto, attento e consapevole dei risultati che deve conseguire, può suggerire le soluzioni più adeguate.

I temi emergenti in materia di sostenibilità urbana che, come ho ricordato, sono stati definiti con piena operatività dai SDGs, enfatizzano, ad esempio, il legame  tra il clima locale, la struttura urbana e l’effetto isola di calore. Per orientare le trasformazioni del territorio mediante interventi di indirizzo molto possono fare degli standard urbanistici prestazionali, dei piani attuativi e dei regolamenti edilizi innovativi che favoriscano materiali e geometrie ottimali, ma, ancor più, che valorizzino il ruolo strategico del verde urbano, per altro considerato proprio dallo specifico obiettivo 11.7 dell’Agenda ONU: ‹By2030, provide universal access to safe, inclusive and accessible, green and public spaces, in particular for women and children, older persons and persons with disabilities›.

Le cause che generano le isole di calore urbane sono dei fattori puntuali (come ad esempio grandi superfici pavimentate) relazionati direttamente con fattori sistemici estesi (come la dispersione notturna del calore assorbito dai tessuti urbani periferici, o l’inquinamento prodotto dalle aree produttive, sempre in periferia). Questa pluralità di cause obbliga a studiare l’isola di calore a diversi livelli, sia orizzontale che verticale. Il verde deve diventare sistema, con dignità almeno pari a quella delle altre infrastrutture.

Abbiamo recentemente rilevato con Leone e Musco che il verde-infrastruttura è fattore metabolico, fegato e polmoni della città, per cui è da superare il concetto di semplice fattore di amenità, luogo di svago romantico, ieri lusso per poche realtà urbane, oggi contentino per ambientalisti, che spesso si trasforma in maquillage. Questo perché il verde influenza numerosi e fondamentali processi: incrementa la permeabilità idrologica e l’evapotraspirazione, riducendo il rischio idraulico e abbassando la temperatura in caso di picco di calore, cosa che porta a ridurre i consumi energetici e, quindi, le emissioni di CO2.

La progettazione di infrastrutture verdi urbane, così intesa, diventa un volano per adattare i sistemi urbani e territoriali ai cambiamenti climatici.

Alle azioni nel dominio pubblico, tuttavia, va affiancata una corretta gestione degli spazi aperti privati che svolge un ruolo determinante sulla presenza e sull’intensità dell’isola di calore urbana. Nelle nostre città una porzione importante di territorio non coperto da edifici risponde a un regime di proprietà privata che spesso raggiungono 1/3 delle superfici urbane. Anche in quest’ottica, però, una semplice soluzione tecnica (aumento della superficie verde e aumento della riflettanza delle superfici impermeabili) deve trovare una valida giustificazione di tipo gestionale e legislativo, e la risposta deve necessariamente avere fondamento all’interno di una visione strategica generale in grado di coniugare le esigenze di gestione individuale degli spazi privati con la comprensione dell’importanza di adattarsi al cambiamento climatico.