Restauro e Conservazione | Sismica
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Edifici storici e di culto: senza sicurezza strutturale non c'è conservazione

Purtroppo gli ultimi terremoti hanno messo a nudo tutta la fragilità e la vulnerabilità delle chiese, crollate con tutto quello che contenevano, spesso beni artistici di valore incommensurabile. 

Ma perchè sono crollate? Chi doveva "conservarle" ha pensato anche alle loro debolezze strutturali e/o al rischio di vita di coloro che potevano essere all'interno?

Si tratta di un tema spinoso che sembra contrapporre la conservazione alla sicurezza strutturale. Ma è davvero "conservazione" ciò che non potrà, con molta probabilità, rimanere integro se soggetto a terremoto?

Di questo e altro ne abbiamo parlato con il Prof. Antonio Borri, Già Ordinario di Scienza delle Costruzioni nell’Università di Perugia, Fondatore e Coordinatore del Master di II livello in “Restauro e consolidamento del costruito storico e monumentale” 


I terremoti e i crolli delle chiese: purtroppo catastrofi annunciate

Negli ultimi eventi sismici sono crollate più chiese che case. Perché accade questo? perché non si interviene sulla sicurezza di questi edifici?

La vulnerabilità delle chiese è un problema particolarmente grave, e lo si è visto anche nei terremoti recenti; centinaia e centinaia di chiese sono crollate, con quanto di prezioso e di unico contenevano: affreschi, quadri, statue ed altri manufatti artistici.

Si è trattato, quasi sempre, di catastrofi annunciate: l’Italia, purtroppo, ha un territorio fragile, sul quale sono stati costruiti edifici fragili, e, tra questi, le chiese sono quasi sempre le più vulnerabili.

Ormai sappiamo, per esperienza, che senza interventi preventivi che vadano a ridurre le vulnerabilità più gravi molte chiese subiranno la solita sequenza: scosse-danni-crolli-perdite umane e materiali. 

Sono perdite irreparabili, perché la ricostruzione non riporterà certo in vita chi è rimasto sotto le macerie, né ci restituirà i beni artistici e storici andati distrutti, sottratti per sempre alla vita dell’intera comunità.

Tutto questo è avvenuto così tante volte che lo si dovrebbe dare per scontato. Spesso, invece, ci si dimentica del terremoto e non se ne tiene conto, avendo la sensazione che questi disastrosi eventi abbiano una scarsa probabilità di accadere. Sensazione, purtroppo, assai errata, perché le placche tettoniche non si sono certo fermate...

La realtà è quella scritta nelle cronache del passato e anche di questi ultimi anni: in molte zone dell’Italia (e sappiamo quali sono), i sismi sono da considerare, come scrive una sentenza della Cassazione, “tra le normali vicende del suolo” e in quelle zone i sismi colpiscono, prima di tutte, le costruzioni più fragili.

Nel passato, proprio per prevenire o limitare i danni in questi edifici, si facevano interventi di presidio o di rafforzamento, inserendo incatenamenti, speroni, contrafforti o altri accorgimenti antisismici.

Negli ultimi anni, invece, si è affermata una visione ideologica della conservazione, lontana dalla concretezza e dalle esigenze strutturali, incapace di comprendere quali siano le priorità per questi edifici. 

Così, troppo spesso è stata adottata, da questi Enti, la politica del NON intervento, o dell’intervento strutturalmente insufficiente, con i risultati che abbiamo visto: il crollo di moltissime chiese, comprese quelle sulle quali erano stati fatti interventi di restauro, tanto dispendiosi quanto inefficaci.

Troppo spesso sono stati ignorati gli insegnamenti del passato e non si è capito che senza quel minimo indispensabile di sicurezza strutturale non c’è conservazione, se non quella delle macerie che il sisma lascia alle sue spalle. 

La politica di tutela che è stata adottata non ha tenuto conto della realtà sismica dei luoghi e delle fragilità di alcuni edifici, e così facendo, oltre a non proteggere il bene culturale in sé, è stata messa a rischio l’incolumità delle persone che si fossero trovate al suo interno.

In molti casi sono state trascurate alcune gravi (e pur evidentissime) carenze strutturali, confondendo le priorità d’intervento e dei lavori da fare, che sono stati indirizzati per lo più alla salvaguardia delle superfici e delle manifestazioni di degrado della 'pelle' dei monumenti, invece di assicurarsi, prima di tutto, della stabilità delle murature che dovevano sorreggere tali superfici e i relativi affreschi.

La filosofia del NON intervento e quella del “dov’era e com’era” hanno perpetuato, ove presenti, le debolezze e le carenze strutturali originali, lasciando la porta aperta ai successivi crolli.

Tutto ciò dovrebbe far comprendere la necessità di rivedere la politica seguita in questi ultimi anni e considerare come un unicum le esigenze della conservazione dei meri caratteri materici ed architettonici di queste costruzioni e quelle connesse con la loro sicurezza e con l’integrità fisica delle persone che le frequentano. Perché, come detto, è facile prevedere che molte chiese, se non saranno rinforzate in modo adeguato, crolleranno o si danneggeranno gravemente anche nei prossimi eventi.

Lasciare che ciò avvenga, o non avvenga, dipende essenzialmente dalla scelta tra intervenire in modo efficace per prevenire i crolli, oppure non intervenire.

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Intervenire: ma come? chi decide?

A chi spetta la decisione su come intervenire? 

Questa scelta, che coinvolge oltre alla conservazione anche la sicurezza delle persone, vede il Ministero della Cultura e le Soprintendenze in un evidentissimo “conflitto di interessi”. Chi opera in tali ambiti ha infatti, come “stella polare” della propria attività, la conservazione “tout court”, ovvero il mantenimento delle caratteristiche originarie della costruzione, comprese magari quelle carenze e quei difetti che hanno portato o porteranno a danni e crolli. Il tema della sicurezza delle persone rimane quasi sempre in un piano arretrato e subordinato.

Questa loro scala di priorità, più volte espressa, è stata ribadita dal Ministero della Cultura nelle sue “Linee Guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale” (DPCM 9.2.2011), tuttora vigenti, laddove si afferma che per le costruzioni storiche “è opportuno accettare consapevolmente un livello di rischio sismico più elevato rispetto a quello delle strutture ordinarie, piuttosto che intervenire in modo contrario ai criteri di conservazione del patrimonio culturale”. 

Ma a chi spetta decidere se i criteri di conservazione dei caratteri storici e architettonici di un bene culturale valgano più del rischio per la vita e per l’incolumità delle persone che ne fruiscono? 

Evidentemente, nessuno sembra aver riflettuto sul fatto che, se dentro quelle centinaia e centinaia di chiese crollate negli ultimi sismi ci fossero state delle persone, non ne sarebbe uscita viva neppure una.

In ogni caso, la decisione se mettere più o meno a rischio la vita delle persone non spetta certo né al Ministro della Cultura, né ai funzionari delle Soprintendenze.

Basti ricordare che tutte le carte fondamentali degli ordinamenti giuridici, dalla Costituzione italiana (art. 2: “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo”) alla Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo (delle Nazioni Unite), alla Carta dei diritti fondamentali, (dell’Unione europea), riconoscono, tra i diritti inviolabili che devono essere garantiti, il diritto alla vita e alla integrità personale.

Tutto questo sembra ovvio e scontato, ma nella sostanza le cose, ancor oggi, funzionano così: la scelta tra consentire o meno qualsiasi intervento strutturale, con le conseguenti implicazioni sulla sicurezza, rimane di stretta competenza delle Soprintendenze.

 

...e le responsabilità di chi sono?

Per contro, si deve notare che a quel “rischio più elevato”, che le Linee guida “chiedono” (ma, in pratica, impongono) che venga accettato per favorire la conservazione, non corrisponde alcuna assunzione di responsabilità da parte delle Soprintendenze o dello Stato in generale. 

No, quel “rischio più elevato” per la vita di chi frequenta quegli edifici, viene “scaricato” pari pari sulle spalle dei professionisti coinvolti: progettista, DL e collaudatore, con le responsabilità civili e penali insite nel loro ruolo. 

Insomma, per il Ministero della Cultura e per le Soprintendenze, quando si interviene sulle costruzioni storiche si devono accettare dei rischi maggiori, ma questi rischi se li devono prendere gli altri!

Bisognerebbe invece che ciascuno, lo Stato in primis, si assumesse le proprie responsabilità. 

Per farlo, basterebbe che venisse ufficializzato (e quindi giuridicamente riconosciuto) questo ruolo tecnico che le Soprintendenze, nella sostanza, ricoprono quando forniscono prescrizioni e limitazioni che hanno conseguenze sulla sicurezza delle persone.

Invece, sino ad ora, abbiamo visto come vanno le cose quando accadono i disastri: ad andarci di mezzo (al di là, ovviamente, delle vittime) sono i professionisti coinvolti, che vengono processati e, spesso, condannati. 

È giusto però fare una distinzione. In genere, per fortuna, il problema non è così grave, perché in moltissimi casi le costruzioni storiche hanno margini di sicurezza accettabili o che si possono rendere accettabili con interventi limitati e locali. In queste situazioni, il rischio che ci si assume è un “rischio ragionato” (Draghi docet), basato cioè su una corretta e prudente valutazione della situazione e dei pericoli connessi.

Per altre costruzioni invece (e fra queste gli edifici di culto) le carenze possono essere davvero inaccettabili, e quel rischio che ci si dovrebbe assumere diventa “irragionevole” (e perciò penalmente rilevante).

La linea rossa da tracciare è quindi quella tra rischio “accettabile” e rischio “non accettabile”, e questa scelta, che in pratica ricade sulle figure tecniche professionali coinvolte (progettista, DL, collaudatore) dovrebbe essere libera, consapevole e condivisa, mentre invece questi professionisti si ritrovano da soli, “con il cerino in mano”, schiacciati tra le prescrizioni della Soprintendenza e le aspettative della Committenza. 

Il problema non sta nella competenza e nelle capacità dei tecnici di valutare il comportamento atteso di queste costruzioni (pur con le loro complessità).

Il problema sta nella aleatorietà dell’azione sismica: le norme tecniche forniscono indicazioni sulla probabilità di superamento di certi valori di intensità in un determinato periodo di tempo, ma tutto questo si basa su un modello probabilistico (la legge degli eventi rari, di Poisson) applicato ai più svariati problemi, ma che, nel caso della sismicità, è ben poco affidabile, se non in termini statistici globali. 

In un dato sito, nella sostanza, gli eventi sismici avvengono come e quando vogliono loro, con l’aggravante (anche questa non “coperta” adeguatamente dalle norme) che quasi sempre non si tratta di un singolo evento, bensì di una successione di sismi, con progressivo accumulo del degrado e dei danni

Con queste incertezze sistemiche sullo sfondo, nelle aule dei tribunali (dove, in genere, PM e Giudici non comprendono, e quindi non accettano, connotazioni probabilistiche per il termine “sicurezza”), può diventare poi davvero complicato dimostrare che l’intervento realizzato rispettava le indicazioni di legge. 

 

La soluzione? Collaborazione tra i due Ministeri (Cultura e Infrastrutture) per convergere le due esigenze

Tornando alla domanda, ovvero a chi spetta fare le scelte, bisognerebbe ricordare che, se è vero che sulla conservazione è competente il Ministero della Cultura, è altrettanto vero che in tema di sicurezza delle costruzioni la competenza è del Ministero delle infrastrutture, e del suo Consiglio Superiore dei Lavori Pubblici, che è il massimo Organo tecnico dello Stato. 

Ed allora, su temi complessi come quello di conciliare sicurezza e conservazione, la via da seguire dovrebbe essere quella di una approfondita collaborazione tra i due Ministeri, così da fornire riferimenti e indicazioni utili per chi si trova ad operare in questo ambito.

Un esempio in questa direzione, ovvero nella ricerca di una sintesi volta a comporre le diverse esigenze, è stato il lavoro di una Commissione mista Ministero per le Infrastrutture – Ministero della Cultura, che nel 2018 ha predisposto un “Atto di indirizzo finalizzato all'aggiornamento delle Linee guida per la valutazione e riduzione del rischio sismico del patrimonio culturale”.

A tutt’oggi, però (ovvero a quattro anni da quel documento), non è seguito alcunché ...

L’auspicio è che il Ministero della Cultura proceda quanto prima ad aggiornare le Linee guida del 2011, tenendo conto degli indirizzi forniti da quella Commissione. Aggiornamento comunque necessario, perché, oltre ai problemi prima accennati, quel testo appare ormai un po’ “datato” anche in alcune parti riguardanti i criteri per gli interventi.

 

Conservazione e sicurezza sono tutt’altro che antitetici

Conservazione e sicurezza sono concetti antitetici quando si parla di costruzioni storiche e beni culturali?

Oltre alle conseguenze sulle persone, la mancanza di sicurezza strutturale in una costruzione può portare (ed è avvenuto in moltissimi casi) alla perdita stessa dell’intera costruzione. Il bene originario, che si voleva (e si doveva) conservare, è andato così perduto per sempre, con ciò che conteneva.

Conservazione e sicurezza sono quindi tutt’altro che antitetici: se per conservazione si intende “conservazione in vita” (della costruzione e del suo contenuto) e per sicurezza si intende un livello “ragionato” ed “accettabile” per il rischio, i due concetti convivono simbioticamente: l’una, la sicurezza, è parte indispensabile per l’altra, la conservazione in vita.

In altri termini, sicurezza è conservazione, come ripeto ormai da anni.

Quel livello “ragionato” di rischio che può essere accettato per una costruzione storica corrisponde peraltro alla c.d. “firmitas” della triade vitruviana; semplificando, significa che l’edificio deve poter restare in piedi, e non crollare rovinosamente, sia per le azioni ordinarie che per il sisma atteso per quel sito. 

Molto spesso, per raggiungere questo risultato, bastano poche cose di buon senso; occorre tenere conto anzitutto del contesto nel quale ci troviamo (una chiesa a Norcia non ha le stesse problematiche di una chiesa del tutto simile, ma posta a Cuneo) e, se ci sono gravi criticità locali, snellezze eccessive, spinte non contrastate o gravi difetti strutturali originari, tutto ciò va eliminato, o quanto meno va limitato nelle possibili conseguenze.

 

Il ruolo delle Soprintendenze e la necessità della multidisciplinarità

Quale dovrebbe essere il ruolo delle Soprintendenze quando si deve intervenire per la conservazione di un bene? 

Dovrebbe essere quello di comprendere che per la conservazione di un bene occorre considerare i diversi aspetti, cercando di conciliare le diverse esigenze per un fine primario: la conservazione in vita del bene.

Ma per farlo occorrono competenze approfondite in diversi settori. In una parola: serve quella stessa multidisciplinarietà che viene richiesta per la fase progettuale e per quella realizzativa. Nella fase autorizzativa (all’interno delle Soprintendenze) questo approccio multidisciplinare viene invece del tutto disatteso.

Il problema non sta nei singoli; il problema è sistemico: all’interno delle Soprintendenze, in genere, sono del tutto assenti le competenze strutturali.

Ma se è vero, come è vero, che la “conservazione in vita” (cioè non crollare) è la prima delle condizioni per la conservazione (primum vivere!) come può esaminare compiutamente un progetto di intervento un Ente che non ha al proprio interno le competenze che servono per coprire i diversi aspetti? Come si può valutare un progetto, se non si è in grado di comprenderlo nella sua interezza?

Il risultato è quello che sappiamo: le determinazioni e le prescrizioni vengono basate su “check list” standard, visioni parziali e settoriali e confronti (non paritetici) tra funzionario della Soprintendenza e professionista strutturale, figure che spesso non riescono proprio a comprendersi l’un l’altro, lavorando a compartimenti stagno.

Un approccio di questo tipo non va nella direzione del risultato che si vorrebbe ottenere, quello cioè della tutela del bene.

Questo rapporto tra Ministero della Cultura (Soprintendenze comprese) e competenze strutturali è davvero singolare: non solo sono stati tenuti lontani gli ingegneri dagli organi di tutela dei beni culturali (quanti concorsi per il ruolo ingegneri sono stati fatti negli ultimi trenta anni? quanti ingegneri hanno partecipato/partecipano agli Organi scientifici del Ministero della Cultura?), ma anche per gli architetti sono state privilegiate (di fatto, nei meccanismi concorsuali) le figure con competenze diverse da quelle strutturali.

Riporto qui un aneddoto su quanto (di negativo) può derivare da questo difficile rapporto con gli strutturisti.

Qualche anno fa (prima degli eventi del 2016) un funzionario della Soprintendenza mi diceva, con visibile compiacimento, di essere sempre “riuscito a tenere lontani gli ingegneri dagli interventi sulle chiese della Valnerina”. 

Risultato: nel 2016 tutte quelle chiese - dalla prima all’ultima - sono crollate. La maggior parte di esse proprio per la mancanza delle necessarie attenzioni strutturali…

Bisogna però riconoscere che non si può parlare di problematiche di rapporti tra strutturisti e beni culturali senza ricordare gli errori fatti in un passato non così lontano, quando, ad aggravare (invece che a risolvere) le carenze e le vulnerabilità originarie delle costruzioni storiche sono stati fatti interventi di consolidamento pesanti ed invasivi, non rispettosi del comportamento originario delle costruzioni in muratura, né utili per le loro effettive necessità strutturali. 

È il caso delle sistematiche sostituzioni di solai e coperture lignee con rigidi e massicci elementi in latero-cemento, motivate spesso solo dalle necessità di doversi adattare alle ipotesi di un metodo di calcolo strutturale (POR). In queste situazioni, come si è visto, i cordoli in breccia o gli innesti a coda di rondine che venivano realizzati per collegare tra loro i diversi elementi, alla prova dei fatti spesso hanno collegato ben poco, risultando inadeguati e nefasti. Così, laddove c’è stato un sisma importante e le murature esistenti non avevano capacità meccaniche adeguate, questi elementi hanno generato dissesti e crolli.

Questi interventi hanno interessato, almeno per un certo periodo, anche molti beni vincolati. Negli anni ’80 infatti, i quasi 3.500 morti degli eventi sismici tra il 1976 e il 1980 hanno portato, in nome di una malintesa ricerca della sicurezza, a consentire interventi invasivi, dimostratisi poi, molte volte, inappropriati e peggiorativi.

Si comprende bene, perciò, quanto scriveva Franco Braga in un suo articolo dei primi anni ’90: “I terremoti sono perniciosi per il patrimonio monumentale italiano, non tanto per l’eccezionalità dei danni prodotti, quanto per il numero e il tipo di interventi di riparazione e di adeguamento antisismico che ad essi hanno fatto seguito ...”.

Oggi, per fortuna, la sensibilità (e anche le norme tecniche) sono molto cambiate e la conservazione (intesa nel senso più completo del termine) è l’obiettivo condiviso da tutti.

Tornando alle problematiche delle Soprintendenze, l’auspicio è che, almeno nelle zone a più elevata pericolosità, l’esame dei progetti venga effettuato basandosi su un approccio multidisciplinare, che consideri in modo adeguato le diverse problematiche in gioco. 

Un recente concorso nel Ministero della Cultura ha (finalmente!) previsto l’ingresso anche di alcuni ingegneri. Speriamo che questo portare benefici nei territori che più hanno bisogno di queste competenze. 

 

Cosa si può fare, in pratica, per prevenire questi disastri per le chiese?

Ciascuno, tecnici, funzionari e, non ultima, la proprietà (la Chiesa cattolica) dovrebbe fare la propria parte. 

Tecnici e funzionari dovrebbero ricorrere anzitutto al buon senso: laddove ci siano difetti gravi, questi vanno eliminati o, quanto meno, limitati negli effetti.

È quello stesso buon senso che avevano architetti e ingegneri nel passato.

Infatti, come scriveva Francesco Sacco in un convegno dell’Istituto Centrale del Restauro, nel 1983: “.. se si guardano bene gli edifici del nostro patrimonio architettonico, ci si accorge che un numero assai elevato di essi è stato oggetto di interventi di consolidamento statico. Si potrebbe affermare che in Italia non esiste edificio al quale non sia stato aggiunto nei periodi successivi alla sua costruzione, almeno un organo di consolidamento in occasione di un restauro o per un intervento effettuato a scopo preventivo. Questi elementi aggiunti si sono qui sempre integrati perfettamente con le architetture che consolidavano …”.

La stragrande maggioranza di questi interventi del passato consisteva nell'uso di speroni, contrafforti e catene metalliche.

Questo stesso buon senso lo si ritrova nella c.d. Circolare Ballardini (18 luglio 1986, n. 1032) che viene ricordata per il fermo richiamo al rispetto dei beni culturali (in un periodo in cui si facevano spesso interventi incongrui), ma che conteneva anche indicazioni chiare e ben mirate su cosa fosse necessario fare.

In sintesi, la Circolare distingueva tra due diverse patologie

In presenza di una “patologia ordinaria”, le operazioni da compiere “.. si configurano in gran parte quali interventi di manutenzione, atti a mitigare il degrado e riportare la costruzione alle sue capacità originarie di resistenza, ovvero di miglioramenti, atti ad incrementare le suddette capacità senza stravolgimenti degli schemi resistenti propri”. 

Se però si è “… in presenza di una “patologia straordinaria” dovuta a difetti di origine nella concezione strutturale, o ad uno stato di degrado molto accentuato, o a danni considerevoli, si pone l’esigenza di una più complessa valutazione».

In altre parole: in questi casi non si deve girare la testa dall’altra parte, ma si deve esaminare accuratamente la situazione e, ove necessario, si deve intervenire.

Concetto questo ribadito più avanti, nella stessa Circolare: “In questa ottica si può concludere che gli interventi sul patrimonio monumentale devono essere caratterizzati da un aumento di sicurezza nei confronti delle azioni sismiche senza però che si ponga in modo rigido il problema del rispetto delle verifiche formali nei confronti delle azioni sismiche di progetto previste per le nuove costruzioni”. 

Questa frase contiene due indicazioni, entrambe di buon senso: 1) occorre aumentare la sicurezza; 2) bisogna guardare la sostanza delle verifiche, al di là del rigido raggiungimento di un determinato valore numerico.

D’altra parte, se è vero che molti dei modelli utilizzati per le costruzioni storiche risultano spesso inadatti, è anche vero che altri modelli (come le analisi dei cinematismi) corrispondono bene alla realtà muraria e forniscono indicazioni che non possono essere ignorate. 

Non si tratta qui di appellarsi a un “numerino” (come talvolta viene chiamato da chi non apprezza le analisi degli strutturisti) per convincere il funzionario della Soprintendenza della necessità di un intervento. Quel “numerino” in certi casi può costituire un segnale importante.

Penso al pilastrino della chiesa di Santa Maria di Piazza, a Campi di Norcia (PG), (crollata rovinosamente nel 2016), dove bastava fare N (carico sul pilastro) diviso A (area del pilastro) per capire la gravità della situazione, addirittura a prescindere dal sisma.

È come se, misurandoci la pressione, trovassimo una minima di 120. È solo un “numerino”, che possiamo ignorare, oppure il buon senso ci dice che (per usare le parole della Ballardini) “si pone l’esigenza di una più complessa valutazione”?

Stessa situazione, per citare solo un altro esempio (ma altri ne potremmo fare), per la chiesa di San Salvatore, sempre a Campi di Norcia (e anche questa rovinosamente crollata); se si fosse valutato il cinematismo di ribaltamento della facciata (molto snella) considerando la spinta delle volte, si poteva facilmente capire quanto “inaccettabile” fosse quella situazione in una zona così sismica.

Per prevenire questi disastri le tipologie di intervento sono ancora quelle utilizzate nel passato, e si tratta in genere di interventi di tipo locale: l’inserimento di tiranti, le cerchiature, il collegamento tra gli elementi murari e tra queste e le coperture, la realizzazione di speroni, contrafforti, l’eliminazione delle spinte delle coperture e delle volte su muri e colonne.

Come detto, sono interventi che nei secoli scorsi erano usuali e frequenti, specie dopo eventi sismici che avevano mostrato le carenze di questi edifici. Negli ultimi anni, invece, sono stati fatti molto raramente, nonostante non ci siano remore nel mondo del Restauro per interventi di questo tipo, non essendo, in generale, contrari alla conservazione.

Tuttavia, sarà per il timore di fare qualcosa di diverso dal rassicurante “dov’era e com’era”, sarà per una malintesa applicazione dei princìpi del Restauro, sarà per l'incapacità di mettere le cose in ordine d'importanza e d'urgenza, di fatto però, negli ultimi anni, gli interventi strutturali nelle chiese autorizzati dalla Soprintendenze spesso non sono andati al di là delle iniezioni (intervento, peraltro, spesso di scarsa efficacia in queste costruzioni, perché incapace di evitare la disgregazione di muri di così elevata snellezza). 

Pochi sono stati gli interventi di nuovi incatenamenti per eliminare le spinte; rarissime le realizzazioni ex novo di speroni e di contrafforti. 

Tra queste, è da citare, come pregevolissimo esempio di come si dovrebbe affrontare il problema della sicurezza delle chiese in zona sismica, quanto fatto dalla Soprintendenza BAPPSAD di Salerno e Avellino con la consulenza di Antonino Giuffrè per la chiesa del SS. Rosario a Gesualdo (AV). Le carenze e le vulnerabilità di quella costruzione, evidenziate dal sisma del 1980, sono state risolte introducendo elementi di prevenzione (catene e speroni) capaci di eliminare i punti di debolezza e di fornire la necessaria resistenza sismica. Rimanendo, grazie alla competenza e alla sensibilità di chi è intervenuto, all’interno del lessico strutturale originale, quell’edificio è stato trasformato in un edificio più sicuro.

Caso del tutto analogo, anche questo con il contributo di Antonino Giuffrè, per la Cattedrale di S. Angelo dei Lombardi (AV).

Le domande che (retoricamente) mi pongo sono: 

- quanti altri casi, come questi di Giuffrè, ci sono stati in Italia?

- quanto di questo si sta facendo nella ricostruzione delle chiese nelle zone interessate dagli ultimi sismi?

 

E la Chiesa cosa può fare?

Prima ha citato anche la Chiesa. Ma cosa può fare la Chiesa per prevenire questi disastri?

Su questi problemi, anche la Chiesa cattolica, attraverso le diocesi che più sono coinvolte dal problema sismico, può fare molto.

Peraltro, come proprietaria di questi edifici, la Chiesa ha la responsabilità anche morale dell’incolumità di chi frequenta gli edifici di culto, e quindi, anzitutto, si dovrebbe chiedere: è giusto lasciare che i fedeli entrino in queste costruzioni vulnerabili, in zone ad alta pericolosità sismiche, rimanendo esposti a rischi così elevati?

Dopo tutti questi crolli, cos’altro deve succedere perché ci si ponga il problema della sicurezza delle persone? Davvero bisogna aspettare che ne muoiano a decine per porsi il problema?

Occorre ricordare che il contesto nel quale viviamo non è più quello dei secoli passati; allora, quando, per un sisma, c’erano centinaia di morti sotto le macerie delle chiese crollate, tutto ciò veniva accettato con rassegnazione, come fatto inevitabile. 

Oggi la situazione è ben diversa: le attenzioni e le richieste di sicurezza sono (giustamente) molto elevate, ed il pensiero di tutta la comunità, in merito all’incolumità delle persone, è perfettamente riassunto in una frase del Presidente Mattarella: “I cittadini hanno diritto alla sicurezza ovunque …”, pronunciata dopo l’ennesima perdita di vite umane a causa di carenze di sicurezza.

Questo “ovunque” comprende certo anche gli edifici di culto, e, dopo tutto quello che è accaduto, all’indomani di un evento tragico di questo tipo, chi mai potrebbe discolparsi con un “non lo sapevamo”, o “non lo potevamo prevedere”?

La Chiesa può fare molto, specie nei casi in cui sono disponibili risorse per fare gli interventi sugli edifici di culto: si pensi anche solo alle somme già stanziate per intervenire sulle chiese delle zone colpite dai sismi del 2016 (e molte altre risorse sono previste per le chiese nel PNRR). In molti casi verranno fatti interventi su costruzioni che sono state poco danneggiate solo perché si trovavano distanti dagli epicentri dei sismi degli ultimi anni. Ma senza interventi strutturalmente efficaci, i danni per i prossimi eventi possono essere ben più gravi.

In queste situazioni, la Chiesa potrebbe premere e sollecitare tecnici e funzionari perché questi edifici siano trasformati in luoghi più sicuri.

Può chiedere, con fermezza, di considerare come prioritaria, nei progetti, la “conservazione in vita” della costruzione (e quindi delle persone), ottenibile mediante quegli interventi di presidio e di rafforzamento capaci di ridurre le vulnerabilità più gravi.

 

Trasformare i luoghi di culto in edifici più sicuri

Quindi, oltre che di recupero e conservazione si dovrebbe parlare anche di trasformazione? 

Sì, almeno nel senso di prima accennato, ovvero di trasformazione di questi edifici in edifici più sicuri.

Si tratta di una trasformazione architettonica formale (si pensi al più volte citato inserimento ex novo di speroni e contrafforti in una chiesa che non ne aveva) ma in realtà è semplicemente una correzione di una incoerenza rispetto alle necessità strutturali. Michele Candela (Webinar ARCo, 2021) la chiama “Architettura sismica preventiva”, che si pone in contrapposizione a quella politica del “dov’era e com’era” che lascia inalterate debolezze e criticità manifeste.

In aggiunta poi a questi interventi di tipo architettonico-strutturale, si dovrebbero mettere in opera altri provvedimenti (che in genere non vengono considerati) legati alla sicurezza delle persone, quali, ad esempio:

  • - lo studio inteso ad individuare le aree più sicure all’interno della chiesa;
  • - l’individuazione dei percorsi più idonei per il deflusso delle persone successivamente alla scossa;
  • - la realizzazione di singoli interventi locali, intesi a rendere più sicure alcune aree all’interno della chiesa (quali, ad es., una o più cappelle laterali, l’abside);
  • - l’inserimento (ove possibile) di elementi di protezione (ad es. in vetro strutturale) di alcune particolari zone (spigoli murari, bussole di ingresso/uscita, confessionali, etc.);
  • - la realizzazione (ove possibile) di spazi sicuri veri e propri, ottenuti mediante strutture aggiuntive rimovibili (come, ad es., le c.d. cellule antisismiche);
  • - l’introduzione di opportune e specifiche segnaletiche di sicurezza riguardanti i punti precedenti.

Ma temo che tutto quanto sin qui detto rimarrà lettera morta.

Mi piacerebbe però che quanti hanno voce in capitolo su queste vicende (in particolare, Soprintendenze e Diocesi) si ponessero questa domanda:

quando ci troveremo nuovamente di fronte a dei disastri, cosa potremo dire di aver fatto per impedirli?

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