Fare esperienza nell’epoca nell’era dell’intelligenza artificiale
Nell’era dell’intelligenza artificiale, fare esperienza non è più solo questione di azione e rischio: è anche un confronto con algoritmi, simulazioni e tecnologie che trasformano il nostro rapporto con il mondo. Questo articolo esplora come il senso di experire — tentare fuori — rimanga cruciale per la crescita personale e collettiva.
(ovvero: perché il rischio resta il cuore della conoscenza, anche quando l’IA prova a togliercelo)
L’errore, motore segreto dell’esperienza
Esperire nasce da ex‑perīrī: “tentare fuori”.
Ma “tentare” non implica soltanto provare; significa soprattutto accettare la possibilità di fallire. Senza quell’apertura all’errore, l’incontro con il nuovo resta un’astrazione, un calcolo a tavolino.
Pensiamo al cemento armato di Hennebique, alla penicillina di Fleming, alle prime righe di codice Internet di Cerf e Kahn: dietro ogni conquista tecnica c’è una lunga scia di esperimenti andati storti, strutture crollate in scala ridotta, colture batteriche contaminate, pacchetti che non trovavano la strada di ritorno.
L’errore non è l’intralcio che interrompe il percorso; è il percorso.
Nella bottega rinascimentale il maestro chiedeva all’allievo di copiare un volto fino a sbagliare la curva dell’occhio, perché in quel minimo scarto emergeva la linea personale. Nei laboratori di oggi, le simulazioni Monte Carlo rigirano migliaia di volte le variabili proprio per “costruire” statistica di fallimento. Ogni algoritmo di apprendimento profondo si addestra riducendo una funzione chiamata loss: senza la perdita, il modello non apprende.
Ecco dunque l’esigenza dell’errore: fare spazio all’imprevedibile per trasformarlo in conoscenza condivisa.
Laddove l’IA promette efficienza perfetta, dobbiamo ricordare che l’assenza di attrito è anche assenza di apprendimento. Chi progetta ponti, scrive codice o insegna deve proteggere luoghi dove l’errore sia non solo ammesso, ma coltivato come ciò che rende l’esperienza viva, concreta, memorabile.
2 | L’anestesia digitale e la scomparsa del negativo
Il filosofo coreano‑tedesco Byung‑Chul Han è diventato la voce più lucida – e più severa – contro l’idea di un progresso algoritmico privo di ombre.
In Le non cose descrive la nostra epoca come un passaggio «dalle cose ai non‑oggetti»: la materia cede il posto a un flusso leggerissimo di bit, notifiche, suggestioni. «Corriamo dietro all’informazione senza arrivare mai alla conoscenza»
Il risultato è un’esperienza sfilacciata: scrolliamo, accumuliamo, ma non tocchiamo più niente che resista.
A scomparire, spiega Han, è soprattutto il negativo – il “no”, l’ostacolo, la ferita che dà forma alla realtà. Nel suo itinerario filosofico che va da La società della trasparenza a La società senza dolore, l’autore ripete che l’Occidente contemporaneo ha dichiarato guerra a tutto ciò che rallenta, frena o fa male.
Ma senza contrasti non si produce dialettica, e senza dialettica non c’è crescita. «La società della positività, da cui il negativo è stato espulso, è una società di vita nuda» scrive Han, parafrasando Hegel. Il mondo diventa piatto, anestetizzato, incapace di sorprendere – dunque incapace di insegnare.
L’intelligenza artificiale incarna in modo esemplare questa pulsione al liscio: predice le nostre preferenze, evita l’errore, promette un vantaggio costante. Ma Han avverte che l’algoritmo che anticipa ogni passo ci scippa il futuro.
Se Big Data rende il comportamento umano calcolabile, «la persona che possiede libero arbitrio finisce» . Il futuro non è più attesa aperta, ma grafico di probabilità: l’esperienza cede il trono alla previsione.
Anche gli oggetti quotidiani, convertiti in interfacce, contribuiscono a questa anestesia, questa anestesia crea ansia.
Ogni viaggio è anticipato da un andirivieni di decisioni basate sulla percentuale che il sistema mass ci indica come probabilità di pioggia. Ogni viaggio è una sfida con l’ora di arrivo indicato dal GIS intelligente. Non sappiamo più godere dell’inaspettato.
Han definisce lo smartphone un «rosario digitale»: lo sfioriamo come un pendolo di rassicurazione, registrando micro‑preghiere d’efficienza che allontanano il silenzio, l’errore, la fatica.
Quel gesto ripetuto racchiude la più grande vittoria della tecnologia: trasformare l’esposizione in consumo controllato, il “tentare fuori” in un comodo “restare dentro” il perimetro dell’app.
Ma se l’esperienza è, per definizione, il varco che si apre attraverso la frustrazione e il limite, allora la cura non può che passare dal ritorno del negativo.
Han non propone un luddismo nostalgico; invita piuttosto a re‑materializzare il mondo: coltivare il vuoto, il silenzio, l’errore visibile; restituire peso alle cose, tempo alle relazioni, rischio ai processi.
Solo così l’IA, da anestetico, potrà diventare strumento dialettico – una superficie riflettente che rilancia la domanda, invece di concluderla.
3 | L’espansione sintetica: l’esperienza secondo Cosimo Accoto
Se Byung‑Chul Han teme una realtà “senza attrito”, Cosimo Accoto osserva lo stesso fenomeno da un’altra angolazione: non come perdita, ma come trasformazione di scala.
Nel suo ultimo libro, Il pianeta latente. Provocazioni della tecnica, innovazioni della cultura, che ho avuto il piacere di leggere prima di incontrarlo a Roma, egli descrive l’Intelligenza Artificiale come «forza sull’orlo di cambiare profondamente il nostro pianeta» .
Non è semplice smaterializzazione: è la comparsa di un «pianeta latente» – un mondo di processi sintetici che co‑esiste con quello fisico, lo misura, lo anticipa e talvolta lo sorpassa.
Accoto arriva fin qui dopo una trilogia programmatica: Il mondo dato («programmabile e programmato»), Il mondo ex machina («automatizzabile e automato») e Il mondo in sintesi («simulabile e simulato»). In questo percorso l’esperienza si sposta dall’officina materiale al laboratorio computazionale: gemelli digitali che collassano mille volte in 3‑D prima che un solo bullone tocchi l’acciaio, modelli generativi che esplorano catene molecolari in silico prima di qualunque provetta.
Il rischio non sparisce, diventa statistico e iterabile; l’errore non brucia risorse fisiche, ma produce nuovi pattern di conoscenza.
Nelle sue interviste Accoto parla di tecnologie «astensive»: non più strumenti che estendono la mano dell’uomo, ma agenti autonomi che «plasmano e creano mondi impredicibili», ponendoci «provocazioni intellettuali prima ancora che sfide tecniche».
L’esperienza, allora, non si riduce: si pluralizza.
Diviene planetaria perché gli algoritmi corrono sulle reti globali di sensori, simulazioni e calcolo; diviene ontologica perché il confine tra reale e possibile si sposta dentro la computazione stessa.
C’è però un avvertimento: ciò che accade nei mondi sintetici rischia di essere scambiato per realtà piena.
Da qui l’esigenza di una «educazione sintetica»: saper distinguere un crollo virtuale da uno fisico, un volto generato da uno vissuto.
Solo così il salto di scala offerto dall’IA resterà laboratorio di esperienza – e non acquario dove l’esperienza si addomestica. In altre parole, l’espansione planetaria immaginata da Accoto non contraddice il principio di tentare fuori; lo rilancia su nuove coordinate.
E ci obbliga a una nuova ingegneria del rischio: quel punto in cui l’errore digitale torna, inevitabilmente, a insegnare al corpo, al materiale, alla città.
4 | Jeremy Rifkin: dall’“età della proprietà” all’“età dell’accesso”
All’inizio degli anni Duemila Jeremy Rifkin dichiarò chiusa l’epopea industriale basata sul possesso di beni. Nel saggio The Age of Access descrisse un nuovo capitalismo – lo chiamò “iper‑capitalismo” – dove «tutta la vita diventa un’esperienza a pagamento». Non si comprano più automobili, dischi o persino identità: si sottoscrivono servizi, licenze, membership. L’esperienza, pacchettizzata e tariffata, scorre su reti globali controllate da piattaforme che gestiscono i diritti d’uso.
Rifkin notò due conseguenze dirette.
Primo, lo spostamento del rischio: il fornitore conserva la proprietà e la responsabilità dell’asset (la macchina, il software, la micro‑fabbrica di quartiere); l’utente paga solo per l’accesso, godendo di un comfort “senza attrito”.
Oggi molti giovani non hanno più un auto, una moto, un monopattino, una bici …. la noleggiano quando gli serve. Negli USA siamo un passo oltre, non si prende più neppure la patente, c’è UBER. Non c’è più un sacrificio collegato all’esigenza di un acquisto, una cura per il bene posseduto. Il nostro viaggio inizia da A e finisce in B.
Secondo, la trasformazione culturale: quando la cultura stessa diventa un “servizio curato”, scrive Rifkin, «i legami commerciali sostituiscono quelli civili» spingendo la società verso un intrattenimento perpetuo che neutralizza il conflitto generativo.
Quell’analisi non si fermava all’economia digitale nascente; anticipava la logica as‑a‑service oggi pervasiva nell’IA in cui ogni tool riduce l’esposizione dell’utente all’errore materiale, ma consolida il potere di chi gestisce l’infrastruttura algoritmica.
Rifkin non offre un giudizio unilaterale; mette in guardia. «Quando l’intera cultura viene assorbita nell’economia, la civiltà deve chiedersi se può sopravvivere»
E il nodo torna al centro della nostra riflessione sull’esperienza:
- Se Han denuncia la scomparsa del negativo e Accoto celebra l’espansione dei mondi sintetici, Rifkin ci ricorda che la cornice commerciale dell’accesso decide come, quando e quanto possiamo ancora tentare fuori.
- Senza un governo critico di queste piattaforme l’errore – motore della crescita – rischia di essere sterilizzato, trasformato in semplice variabile d’algoritmo ottimizzato da qualcun altro.
Per chi progetta ponti, città o linee di codice, l’“era dell’accesso” può diventare un formidabile acceleratore: testare modelli in cloud, noleggiare super‑calcolo per stress‑test impensabili, condividere prototipi in commons globali. Ma, seguendo l’avvertimento di Rifkin, sarà indispensabile riconquistare margini di rischio autentico, assicurandosi che il diritto di errare – e quindi di imparare – rimanga nelle mani di chi crea, non soltanto di chi fornisce l’accesso.
X | Parentesi: la narrazione e il confronto nell’epoca dell’Intelligenza Artificiale
All’ultimo Rebuild ho ascoltato (e poi intervistato) Alberto Mattiello sul tema dell’evoluzione dell’intelligenza artificiale. Ha anche parlato di microfoni intelligenti, che registrano la conversazione, la trascrivono e – con l’aiuto di un modello linguistico – la trasformano in sintesi o addirittura in piccole riflessioni guidate. Mattiello ha riportato un uso sorprendente: registrare i dialoghi con i propri figli, riascoltarli (o rileggerli) a mente fredda e capire meglio perché scattano certi fraintendimenti, quali parole accendono conflitti, quali toni invece aprono l’ascolto. Una sorta di specchio digitale che rimette in scena la giornata e ci invita a migliorarla. Devo essere sincero: l’idea mi inquieta. Considerato il breve tempo passato non ho potuto fare quelle riflessioni necessarie per poter trattare questa ulteriore evoluzione in questo articolo. Non ho ancora capito fino in fondo che impatto possa avere sul tema dell’esperienza. Se questo si possa chiamare esperienza. È un terreno nuovo, tutto da esplorare, ma di certo aggiunge un tassello importante alla riflessione su come l’IA stia ridisegnando il nostro modo di “tentare fuori” anche dentro le mura di casa.
5 | Conclusioni – “Experire” come compito quotidiano
Ex‑perīrī – tentare fuori – non è soltanto un’etimologia affascinante; è la bussola con cui orientarsi in un’epoca dominata da algoritmi che tendono a neutralizzare il rischio e a somministrare esperienze pre‑confezionate.
Fare esperienza significa incontrare l’altro, accogliere l’errore, abitare l’incompiutezza.
Se l’esperienza è il motore della vita, va alimentata di continuo; altrimenti il vuoto lasciato dal rischio negato si riempie con una doppia ansia: da prestazione (devo performare) e da innovazione (devo aggiornarmi).
Chi disegna spazi urbani deve custodire zone di realtà tangibile: piazze senza Wi‑Fi dove la connessione è solo sguardo‑a‑sguardo, marciapiedi che invitano a rallentare, materiali che invecchiano e raccontano storie di usura. La smart‑city non può essere soltanto dashboard; deve offrire attriti, percorsi non ottimizzati, micro‑rischi che stimolino l’incontro e la sorpresa.
Nelle scuole l’errore va riconsegnato alla sua dignità formativa. Laboratori in cui un progetto possa crollare – e si discuta perché è crollato – contano più di qualunque quiz a risposta multipla. Valutare la capacità di rimettersi in piedi, non solo la correttezza di un output, è il modo migliore di preparare menti che non temano l’imprevisto. In tal senso il tema del voto e del “giudizio” deve essere vissuto con grande attenzione, perchè la fragilità di questa nuova generazione è un nuovo elemento a cui noi, con una memoria piena di scarpe sporche di fango e pantaloni bucati da inciampi imprevisti, spesso ci dimentichiamo di considerare.
Chi governa deve resistere alla seduzione dell’efficientismo totale. L’accesso a servizi fluidi è un diritto, ma lo è anche il diritto a uno scarto di tempo, a una pausa non calcolata, a un margine di fallibilità. Papa Giovanni Paolo II ricordava che **Cristo non ci ha creati per essere efficienti, ma per essere liberi”.
Una società che mira soltanto alla performance rischia di sacrificare la dignità di chi resta indietro – o di chi semplicemente vuole fermarsi a contemplare.
P.S. Per continuare a experire
- Aprire varchi di dialogo reale: dall’agorà cittadina alla lezione in aula, ridurre la mediazione dello schermo quando possibile.
- Progettare “spazi cuscinetto” dove sia lecito sbagliare senza conseguenze catastrofiche, ma con conseguenze abbastanza vere da insegnare.
- Monitorare l’ansia da upgrade: non ogni novità tecnica è un progresso umano; scegliere di non adottare subito può essere un gesto di libertà.
- Restituire tempo non produttivo nella giornata – il terreno incolto dove germoglia l’intuizione.
Experire resta un verbo di movimento. Ci chiede di uscire dal perimetro del calcolato, di tentare fuori, ancora e ancora.
Dedico questo articolo a mia moglie Susanna, e alla sua capacità di accettare i miei silenzi, le mie rigidità caratteriali di “natura ingegneristica” e saper trasformare il nostro fare esperienza in un lungo e inestirpabile percorso di amore.

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