Per provare a riflettere, una volta di più, su Digitalizzazione e Industrialesimo occorre, prima di tutto, disporre le locuzioni su un piano: Design for Manufacturing & Assembly, Modern Methods of Construction, Modular Building, Off Site, Prefabrication, Pre Cast Building, System Building.
In una parola, possiamo esprimere la intenzione di associare alla cultura edilizia quella industriale, che, a sua volta, trascende, non di poco, il mero ambito manifatturiero.
È chiaro che queste espressioni assumono una valenza assai più evocativa che non, più semplicemente, quelle di industrializzazione edilizia e prefabbricazione.
Per certi versi, anche nell’ambito degli interventi sul costruito, si tratta di ricordare una storia antica, molto controversa, che ha investito, nella sfera continentale, l’Europa Occidentale e quella Orientale, a partire dai Gloriosi Trenta (1945-1973).
Per questa ragione, solleva qualche perplessità assistere a proclami millenaristici, come quelli di Cast, inerenti alla promessa (o come direbbe Jean-Louis Cohen, alla minaccia) della «modernizzazione».
Certo, l’apparato iconico della saga novecentesca riguardava sistemi costruttivi a umido, anziché a secco, ma carriponte e moduli tridimensionali, magari più «sostenibili», pur sempre ricorrono immancabilmente.
Che cosa, dunque, può fare attualmente la differenza tra una vicenda, per alcuni versi «interrotta» e «autoreferenziale», come affermava Sergio Poretti, appartenente al secolo scorso, che ha tentato senza successo, ma non inutilmente, di titanizzare un settore refrattario, e la congiuntura contemporanea?
La digitalizzazione, forse, nella sequela Computer Aided Design, Building Information Modeling, Artificial Intelligence?
Se così fosse dovremmo allora riconoscere alcuni punti fissi di un disegno profondo di riconfigurazione del comparto che passa attraverso la creazione di volumi elevati (e tendenzialmente anelastici di produzione, riflesso di una volontà «politica» e la soppressione di alcuni anelli di dis-valore nella catena di fornitura.
È questo, in effetti, non a caso, un progetto che dipende dall’immagine del Digital Master Builder pre-rinascimentale, che grazie alle Flying Factory e alla Mass Customization (e ai suoi annessi, quali la Digital Fabrication e l’Additive Manufacturing), recupera una serie di tratti «artigianali» e «sperimentali» neo-medievali, per sopprimere alcune distanze che lo statuto del «progetto» rinascimentale e umanistico aveva instaurato.
Al contempo, Google, Amazon, Facebook, Apple e Microsoft, che iniziano ad attuare investimenti nel settore, stanno davvero entrando nel mercato o, al contrario, essi stanno traghettando quest’ultimo in una terra incognita?
Tutto ha inizio col riconoscere che la digitalizzazione, come computazionalità, si fonda su componenti numerici, relazionabili, combinabili, adattabili.
Il punto è che questi componenti, elementi tangibili di sistemi costruttivi che si vorrebbero, appunto, computazionalmente «aperti», intrinsecamente alluderebbero a una dimensione materiale, non dissimile da quella del passato.
Se così fosse ritorneremmo alla aspirazione che un «manufatto» industriale possa assomigliare a un «artefatto», ben più accettabile.
Al contrario, il sistema di relazioni tra elementi, spazi, flussi rimanda a una nuova dimensione, assai maggiormente intangibile di applicazione della cultura industriale all’edilizia.
Ciò avviene perché proprio la cultura della Quarta Rivoluzione Industriale, che apparentemente accenna ad automazione e a robotica è, anzitutto, «sincronizzazione» e «autonomazione», riporta, cioè, ai processi integrativi e decisionali.
Il World Economic Forum ha provato, con insistenza quasi ossessiva, a collocare questa dimensione entro la Smart e la Agile City, all’insegna della interconnessione e della collaborazione.
La stessa istituzione, così come McKinsey, ha, inoltre, cercato di rivisitare il «cantiere» come luogo produttivo di assemblaggio legato alla «fabbrica».
Altri, come Wienerberger, sui «piccoli pezzi» stanno immaginando il robot quale agente di mediazione tra i luoghi produttivi e costruttivi.
È palese che si tratta di immagini, di figure riconducibili alla «produttività», al clamoroso, almeno di primo acchito, divario di tassi che separa la costruzione dalla manifattura.
Tutto questo porta, inevitabilmente, a forzare, esattamente come negli Anni Cinquanta e Sessanta, l’analogia tra i due settori, ad asserire che, digitalmente e circolarmente, acquisendo una progettualità integrata (allora si definiva integrale), il gap si sarebbe esaurito.
Nelle strategie e nelle politiche industriali dei governi, come quello britannico, l’edificio assemblato si può tenere «in mano», come, appunto, manufatto.
Si fanno intravedere, come per Katerra, straordinari recuperi e incrementi di produttività, facendo ricomparire grandi pannelli, autogru e quant’altro, come per Ernst & Young.
Ed è così che, sulla scorta della digitalizzazione, audizioni parlamentari, come per House of Lords, iniziative ministeriali, come per il Bundesministerium des Innern, für Bau und Heimat, istituti, come l’FMI, esaltano i temi dei risparmi inerenti al tempo, al costo e alla sicurezza.
La stessa Loi ELAN, in un Paese, come la Francia, in cui i procedimenti prefabbricati avevano generato quartieri «patogenetici», ben narrati dalla filmografia francofona (lo stesso vale per quella russofona), ripropone la questione legandola agli edifici unifamiliari e ai sistemi costruttivi in legno.
Tutto questo immaginario, «industrializzato» deve, tuttavia, essere affiancato agli edifici più avanzati, come l’Edge olandese, ma, soprattutto, il Cube tedesco, non per nulla associato al Brain.
Porre Alexa al centro dell’unità modulare prefabbricata vuol dire, però, sancire che il «ritorno al passato» sia impraticabile, proprio perché al centro del prodotto immobiliare si pone la «cognitività».
Per questo motivo, ci si allontana dalla prefabbricazione cecoslovacca o sovietica, ben investigata da Kimberly Zarecor, si rivisita quella francese, dai brevetti Camus in poi, ma, specialmente, a partire da Architettura e Industria di Giuseppe Ciribini (1958) e da alcuni suoi profetici editoriali di Prefabbricare Edilizia in Evoluzione della metà degli Anni Settanta, ci si interroga sui significati immateriali della industrializzazione, gli stessi che caratterizzano il nuovo bene immobiliare.
Ci si accorge, allora, che la cesura è davvero epistemologica, come, peraltro, testimoniato dal fatto che uno dei limiti alla accettazione non mimetica del manufatto industriale sia quello «mentale».
Le alleanze tra Plant Prefab e Amazon o tra Project Frog e Autodesk, per così dire in cloud, ci rivelano, perciò, che accanto al fattore «logistico» dell’edificio assemblabile del britannico Ministry of Justice, vi sono le piattaforme di Bryden Wood, che imitano quelle, tanto per cambiare, del settore dell’aerospazio o dell’autoveicolo, come manifestazione di collaborazione e di economicità.
Naturalmente, queste piattaforme sono destinate a divenire veri e propri marketplace in cui, come per Mace, i movimenti sul territorio dei componenti, tra fabbriche e cantieri, definiscono una autentica catena di assemblaggio.
Ma, ancora una volta, sono le Operations computazionali di Aditazz a dirci che di quei sistemi costruttivi conta la parte attinenti ai movimenti, ai comportamenti, alle attività, ai servizi.
Come indica WeWork, a partire dalla ricostruzione storica delle abitudini e dei comportamenti , si possono progettare flussi e spazi come combinatorie morfogenetiche.
Le Cognitive Home di IBM e Wienerberger e gli Smart Construction Object stanno, pertanto, a ricordare che è già un altro settore: praticabile da quali operatori?