Tecnologia e controllo: la nuova frontiera della violenza domestica
La violenza domestica evolve: oggi passa anche attraverso smartwatch, app, AirTag e smart home. Un’inchiesta di MIT Technology Review rivela come la tecnologia, pensata per semplificare la vita, venga spesso usata per controllare e intimidire. In questo articolo analizziamo i rischi e il ruolo della progettazione tecnica.
Perché INGENIO si occupa di questo tema del TFA
Parlare di violenza domestica in una rivista dedicata alla tecnica, all’ingegneria e alla progettazione non è fuori luogo. Al contrario, è necessario.
Perché ogni infrastruttura tecnologica è anche un’infrastruttura sociale. Perché chi progetta edifici, dispositivi, sistemi connessi e ambienti intelligenti ha la responsabilità – spesso inconsapevole – di generare non solo efficienza, ma anche spazi di vulnerabilità.
In un tempo in cui l’innovazione penetra la vita quotidiana, dalla domotica alle auto intelligenti, fino agli strumenti di condivisione cloud e geolocalizzazione, è inevitabile confrontarsi con il rischio che tecnologie nate per semplificare e proteggere si trasformino in strumenti di abuso e controllo.
Questo vale per chi progetta software, ma anche per chi realizza impianti, infrastrutture, edifici e sistemi di gestione. Serve una consapevolezza più matura e sistemica del potenziale ambivalente della tecnica, capace di abilitare libertà ma anche di alimentare forme sottili e pervasive di dominio.
L’inchiesta del MIT
Da questa consapevolezza nasce il nostro interesse per l’articolo pubblicato il 18 giugno 2025 da Jessica Klein su MIT Technology Review, intitolato
“The quest to defend against tech in intimate partner violence”
(“La lotta per difendersi dalla tecnologia nella violenza domestica”).
Un’indagine profonda e inquietante su come la tecnologia venga oggi utilizzata in contesti di violenza domestica, trasformando oggetti comuni – smartwatch, baby monitor, AirTag, auto connesse – in armi digitali per il controllo coercitivo.
È la cosiddetta TFA, Tech-Facilitated Abuse: una violenza spesso invisibile, che non lascia segni evidenti sul corpo ma agisce nel profondo, generando ansia, paranoia, isolamento. Gioia (nome di fantasia), una delle testimoni intervistate, racconta come il suo ex marito continui a monitorare i movimenti della famiglia attraverso dispositivi digitali, nascosti dietro il pretesto della protezione dei figli. Quando ha denunciato questi comportamenti in tribunale, la risposta è stata l’indifferenza: nessuna frattura, nessun livido, quindi nessun reato.
L’articolo mostra come, in assenza di segni fisici, la TFA sia spesso minimizzata o ignorata da forze dell’ordine, tribunali e perfino dai servizi sociali. Uno studio australiano citato nella ricerca evidenzia una “notevole lacuna” nella capacità degli operatori di riconoscere questa forma di violenza. Eppure è sempre più diffusa: basti pensare alla possibilità di inserire un AirTag in un’auto per seguirne gli spostamenti, o al controllo remoto delle funzioni di una smart home.
Il ruolo della tecnica e delle grandi piattaforme
Negli Stati Uniti, alcune aziende tech stanno cercando di reagire: Apple ha introdotto notifiche per il tracciamento non autorizzato, Meta ha sviluppato sistemi per bloccare la diffusione di immagini intime, Uber ha attivato meccanismi di verifica con PIN per garantire l’identità dei conducenti.
Tuttavia, sono risposte quasi sempre reattive, e raramente strutturali. Come spiega la direttrice del progetto Safety Net, “le aziende devono progettare la sicurezza fin dall’inizio”. Ma nella realtà dei prodotti esistenti, è spesso troppo tardi.
Nel frattempo, sono nate esperienze pionieristiche come il Clinic to End Tech Abuse (CETA), attivo al Cornell Tech di New York: un’iniziativa in cui informatici e operatori sociali collaborano per aiutare le vittime a riprendere il controllo dei propri dispositivi. Un modello che dimostra come l’unione tra competenza tecnica e umana sia l’unica vera via d’uscita.
TFA: E in Italia?
Anche nel nostro Paese la riflessione è necessaria. Le leggi sul revenge porn (Legge 69/2019) e sul tracciamento digitale (come l’uso illecito di GPS o microcamere) sono un primo passo, ma non bastano.
La progettazione architettonica e impiantistica, l’integrazione di sistemi digitali negli edifici e nelle infrastrutture pubbliche e private richiedono oggi una nuova consapevolezza: etica, normativa e progettuale.
Il tema riguarda anche gli ordini professionali, le università, i costruttori, i progettisti: chiunque lavori per innovare, deve chiedersi chi potrebbe usare ciò che ha creato — e a quale fine.
Conclusione
L’articolo di Jessica Klein ci ricorda una verità fondamentale: non è la tecnologia a essere violenta, ma l’uso che ne facciamo. Ma proprio per questo, chi progetta, sviluppa e costruisce ha una responsabilità doppia: tecnica ed etica.
Se vogliamo che le nostre città, le nostre case, i nostri strumenti digitali siano davvero intelligenti, devono saper proteggere, non solo ottimizzare.

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