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Gli USA cancellano il bilancio economico delle catastrofi climatiche

Dal 2025 gli Stati Uniti non sapranno più quanto costano uragani, incendi e siccità: la NOAA, storica autorità federale sul clima, smetterà di stimare i danni dei cosiddetti “billion‑dollar disasters”. La decisione solleva allarme tra scienziati, assicuratori e amministratori pubblici, che temono un vuoto informativo in piena emergenza climatica, mettendo a rischio prevenzione, budget federali e resilienza delle comunità locali.

Dal 2025 la NOAA non stimerà più i danni dei “billion‑dollar disasters”, lasciando un vuoto informativo per assicurazioni, ricercatori e istituzioni pubbliche

Gli Stati Uniti rischiano di perdere uno dei loro barometri più importanti per misurare gli effetti economici della crisi climatica. Per oltre quarant’anni il database della National Oceanic and Atmospheric Administration (NOAA) ha registrato con meticolosità i cosiddetti “billion‑dollar disasters”, vale a dire gli eventi meteorologici e climatici — uragani, incendi boschivi, siccità, tempeste di grandine — che superano il miliardo di dollari di danni. I numeri di questa serie storica, aggiornata dal 1980 al 2024, non sono soltanto statistiche: guidano le compagnie assicurative nella definizione dei premi, aiutano gli enti locali a pianificare infrastrutture più resilienti e consentono al Congresso di valutare l’entità delle risorse necessarie per la prevenzione e la ricostruzione.

È proprio questo strumento che verrà messo da parte. Come riferisce Hiroko Tabuchi nell’articolo “U.S. Government to Stop Tracking the Costs of Extreme Weather”, pubblicato sul The New York Times l’8 maggio 2025, la NOAA cesserà di calcolare e diffondere il conto economico delle catastrofi climatiche.

La decisione, motivata dall’agenzia con “priorità in evoluzione, mandati legislativi e cambiamenti di organico”, arriva mentre il numero di disastri miliardari è in vertiginoso aumento: dagli appena tre l’anno (in media) degli anni Ottanta si è passati ai ventitré annui del quinquennio 2020‑2024, con un picco di ventotto nel 2023 e ventisette nel 2024. Basti pensare che gli uragani Helene e Milton, lo scorso anno, hanno provocato danni stimati in 113 miliardi di dollari e oltre 250 vittime.

Le ricadute di questo vuoto informativo non sono difficili da immaginare. Senza una stima ufficiale dei costi, assicuratori e riassicuratori si troveranno con dati incompleti proprio mentre la frequenza e la severità degli eventi estremi aumentano; gli amministratori pubblici dovranno programmare opere di difesa costiera, reti elettriche o bacini idrici “a occhi bendati”, come osserva Jesse M. Keenan della Tulane University.

Il danno non è solo contabile: «Non puoi riparare ciò che non misuri», ricorda Erin Sikorsky del Center for Climate and Security, sottolineando il rischio che le future risorse federali non corrispondano alla reale entità delle perdite.

Per molti osservatori, lo stop si inserisce nel più ampio disegno dell’amministrazione Trump di ridurre la portata della ricerca climatica federale, già indebolita dal definanziamento di studi, grant e valutazioni nazionali. Le reazioni non si sono fatte attendere: la senatrice democratica Ed Markey ha bollato la scelta come «anti‑scientifica e anti‑americana», mentre ricercatori come Virginia Iglesias, dell’Università del Colorado, ricordano che i dati NOAA contengono informazioni assicurative proprietarie che difficilmente potranno essere replicate da enti esterni.

L’archivio pregresso resterà consultabile, ma dal 2025 in poi — dagli incendi che stanno devastando le colline di Los Angeles alle future stagioni di uragani — non esisterà più una contabilità pubblica centralizzata del loro costo. In un’epoca in cui la scienza climatica chiede misurazioni sempre più precise, l’assenza di un “conto economico” ufficiale rischia di trasformare la gestione del rischio in un salto nel buio, proprio quando la posta — economica, ma anche umana — non è mai stata così alta.

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