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La città essente. Racconto di una differenza dimenticata

La città contemporanea funziona, ma spesso non accade. È ordinata, ma non accogliente. Questo articolo riflette sulla differenza tra urbs e polis, tra l’essente e l’essere, evocando esperienze urbane internazionali e interrogando il ruolo dell’architettura, della scuola, del dissenso, e persino degli sviluppatori immobiliari nel costruire luoghi che siano davvero umani.

C’è una nuova città, una città che di fronte a noi si mostra. Perfetta, lucente, efficiente.

Le facciate si allineano come pagine non lette, le strade scorrono dritte, fredde, ben progettate.

I lampioni accendono la sera, puntuali, i mezzi pubblici scorrono su rotaie indivisibili, i dati si rincorrono in un cloud che tutto vede, tutto regola.

È una città che funziona.

E’ l’EUR di Marcello Piacentini pensata nel 1937. E’ la Brasilia di Juscelino Kubitschek, Lúcio Costa e Oscar Niemeyer ideata nel 1960, è la Défense realizzata sotto la guida dell’EPAD negli stessi anni, è Porta Nuova con il masterplan di Cesare Pelli realizzata nel XXI secolo ….

Camminando tra i suoi edifici, si può percepire l’eco di un’intelligenza progettuale raffinata, di masterplan minuziosi, di strategie urbane redatte a tavolino.

Eppure, qualcosa forse sfugge.

Qualcosa forse manca.

Non è un’assenza che si può misurare.

È un’assenza che si sente nella pelle.

Come se lo spazio, per quanto ordinato, non riuscisse a ospitare la vita.

Un bambino gioca nella piazza, ma la sua voce non rimbalza.

Una signora cammina, ma i suoi passi non lasciano traccia.

Un uomo guarda il cielo, ma nessuno lo guarda.

Questa è la città essente.

Una città che c’è, ma non è.

Una città che esiste senza esistere veramente.

    

URBS e POLIS

Anticamente, i Romani la chiamavano urbs.

L’urbs era la città fatta di pietre, mattoni, confini. Era ciò che si poteva mappare, conquistare, fondare. Era il corpo, non l’anima, l’involucro, non la voce.

I Greci invece la chiamavano polis.

E la polis non era solo luogo, ma relazione. Non bastava che ci fossero case: servivano volti. Non bastava la strada: serviva il cammino. Non bastava l’agorà: serviva il dialogo.

La polis era comunità in presenza, non community astratta. Era il luogo dove l’essere umano, apparendo agli altri, si manifestava a se stesso.

Era la città che accadeva, ogni giorno, ogni parola, ogni gesto.

E allora? Qual è la distanza tra urbs e polis?

La stessa che separa l’essente dall’essere.

L’essente è ciò che appare nel mondo. La casa, il ponte, il quartiere, l’appalto, il dato. È tutto ciò che “è lì”, nel suo esserci, tangibile.

Ma l’essere … L’essere è il perché profondo per cui l’essente può essere. È la luce che permette alle cose di mostrarsi. È lo spazio che accoglie, il tempo che consente, la soglia che non divide ma unisce.

Ecco allora il dramma del nostro tempo: costruiamo urbes che rischiano di non diventare polis, popoliamo il mondo di essenti che non sono, edifichiamo città senza essere.

Abbiamo ridotto la città a performance, a dashboard, a cluster.

Abbiamo sostituito le relazioni con le connessioni.

Abbiamo dimenticato che l’essere della città non si misura in chilometri quadrati, ma in presenza condivisa.

La città essente è ovunque. È nei centri commerciali chiamati “piazze”. Nei grattacieli che parlano solo con il cielo. Nelle architetture che non ascoltano.

Ma l’altra città — quella che è — si può ancora incontrare. Non nei masterplan, ma nei mercati del sabato mattina. Non nei rendering, ma nei panni stesi al sole. Non nei protocolli, ma nelle mani che si stringono. Non negli ipods che isolano, ma nei cerchi a gambe incrociate a strimpellare e stonare una canzone a memoria.

È la città che si fa polis ogni volta che ci riconosciamo umani. Ogni volta che un luogo non solo ci ospita, ma ci accoglie.

    

Per una città che è. Architettura del disvelamento

Immaginiamo, ora, una città che non si propone come prodotto, ma come presenza.

Una città che non si offre allo sguardo come vetrina, ma si lascia scoprire come gesto, come relazione, come carezza dello spazio.

Una città che non chiede “come appaio?”, ma “come ti accolgo?”, come “ti vengo incontro, nella tua direzione?”

In questa città dell’essere l’architettura non impone, ma invita, e gli spazi non sono solo funzionali, ma significanti, e i materiali non sono solo tecnici: parlano della terra, del tempo, delle mani che li hanno posti.

E’ strano a dirlo ma è la materialità della forma, la carnalità delle relazioni, che portano l’ente ad essere. L’architettura deve essere carnale, deve incarnare la densità dei corpi e delle azioni quotidiane; deve farsi pelle che avvolge, muscolo che sostiene, respiro che si dilata con chi lo abita. Solo quando diventa sostanza viva — capace di trasmettere calore, peso, attrito — l’architettura smette di essere mera rappresentazione e si compie come esperienza concreta dell’esistere.

Allora la sostenibilità non è un indice, ma una forma di cura.

Un concetto fondamentale per poter superare il terrapiattismo trumpiano di chi nega il tema della salvaguardia dell’ambiente, della lotta dei cambiamenti climatici. L’errore più grave che abbiamo commesso è stato tentare di persuadere le persone con la retorica della paura, invece di coltivare in loro l’amore e il rispetto per il nostro biosistema

Abbiamo bisogno di architettura, dell’arte di dare forma all’abitare, perchè dobbiamo avere città dove l’essere si dischiude ogni giorno, nei dettagli dimenticati, nei gesti lenti, nelle relazioni che non si possono digitalizzare. Abbiamo bisogna di ombra e panchine per ritrovare una noia ristoratrice fatta di fantasie e ricordi, di sguardi lontani, di respiri che diventano racconto, di silenzi condivisi che riconoscono l’altro e, nel contempo, ci riconsegnano a noi stessi.

Se la mia chitarra
piange dolcemente
stasera non è sera
di vedere gente
e i giochi nella strada
che ho chiusi dentro al petto,
mi voglio ricordare.
lo penso ad un barcone
rovesciato al sole
in un giorno in pieno agosto le biciclette in riva al mare.
Agnese mi parlava
nella sabbia infuocata
ed io non so perché
non l'ho dimenticata.

Come si progetta una città così?

Non con un algoritmo.

Non solo con un piano regolatore. Ma con l’ascolto e il rispetto: del luogo, del tempo, delle persone.

Ogni città è prima di tutto un paesaggio umano, fatto di abitudini, memorie e desideri. E progettare per l’essere significa lasciare spazio all’imprevisto, al vissuto, al racconto.

A Medellín, in Colombia, negli anni Duemila, una delle città più violente del mondo ha iniziato a cambiare. Non con grandi opere iconiche, ma con scale mobili nei quartieri periferici, con biblioteche nelle baraccopoli, con teleferiche urbane che collegavano le comunità isolate al centro.

Architetture minime, ma dense di senso.

Non solo hanno trasformato lo spazio: hanno restituito dignità, presenza, cittadinanza.

A Copenaghen, l’inversione è stata radicale: più che progettare edifici, si è iniziato a progettare spazi per rallentare. Piazze pensate per essere attraversate a piedi, non per essere viste da un’auto. Panchine ovunque. Parcheggi riconvertiti in orti.

Una città che non esibisce la sostenibilità, ma la pratica nei gesti quotidiani.

Dove la felicità urbana non è un parametro teorico, ma un’esperienza misurabile.

A Tirana, l’architetto sindaco Erion Veliaj ha iniziato a disegnare la città con i bambini. Le scuole sono diventate centri civici. Le strade chiuse al traffico sono ora spazi di socialità.

Un’urbanistica che non parte dai dati, ma dagli occhi dei più piccoli.

Progettare la città dell’essere significa allora non avere paura del vuoto. Lasciare margini. Accettare che l’imprevedibile è parte della vita, e che non tutto deve funzionare per essere vero.

Una piazza non è bella perché è ordinata: è bella se le persone si fermano senza fretta.

Un edificio non è riuscito perché è premiato: lo è se qualcuno si riconosce nei suoi muri.

Serve una nuova etica del progetto, dove la misura è l’incontro, la bellezza è la prossimità, la qualità è il tempo condiviso.

   

Contro la città stereotipata: ascolto e autenticità

Ascoltare una città non significa raccogliere dati.

Non basta installare sensori, sommare flussi, incrociare abitudini digitali in tempo reale. Quello è monitoraggio, non ascolto.

L’ascolto vero non si esaurisce nel big data, ma si radica nel piccolo gesto, nel tempo lento della comprensione, nell’empatia progettuale.

Una città non si racconta da sola in una dashboard. Ha bisogno di essere interrogata. Non con algoritmi, ma con domande aperte. Non con strumenti predittivi, ma con presenze interpretanti.

L’architettura dell’essere nasce così: dallo stare, dal vedere, dal camminare, dal parlare piano.

Eppure, ciò che spesso costruiamo sono città stereotipate.

Città che rispondono a un immaginario prefabbricato: l’icona, il landmark, il verde da catalogo, la palma sul lungomare. La palmizzazione dei lungomari italiani è l’esempio più struggente di questa deriva. Inseguendo modelli esotici e instagrammabili, abbiamo cancellato le tamerici salmastre e arse, i pini piegati dal vento, le erbe aspre che raccontano il Mediterraneo vero.

Abbiamo smarrito il genius loci per sostituirlo con cartoline tropicali prodotte in serie. Eppure, ovunque nel mondo si moltiplicano esperimenti che rifiutano questo paradigma.

A Marsiglia, il progetto Euroméditerranée ha faticato a generare connessioni autentiche finché non si è capito che non bastano nuove architetture per rigenerare un luogo, se non si rigenera prima la sua memoria popolare: il porto, i bar, i pescatori, il suono delle voci.

Solo quando si è tornati a dialogare con la storia orale e con la cultura migrante, alcuni quartieri hanno iniziato a riabitarsi con senso.

A Tokyo, il quartiere di Yanaka è stato salvato non da un piano regolatore, ma da una resistenza silenziosa: gli abitanti si sono opposti alla sostituzione dei loro spazi con torri e shopping center, e hanno preservato l’intimità dei vicoli, delle case in legno, dei templi nascosti.

È uno dei pochi luoghi della metropoli dove la città non è apparsa, ma si è svelata.

E ogni visitatore lo sente, come si sente la differenza tra un parco urbano e un giardino coltivato da mani reali.

A Tirana, nel quartiere Kombinat, i graffiti spontanei, le recinzioni colorate e le micro-architetture comunitarie non sono segni di degrado: sono segni di appropriazione emotiva.

Segni che resistono alla sterilità del design internazionale, rivendicando un diritto: quello di abitare poeticamente lo spazio.

Perché ciò che dobbiamo costruire non è un luogo stereotipato di simboli e perfezione, ma un luogo dove l’imperfezione non disturba, ma racconta. Un luogo che non cerca di piacere, ma chiede di essere compreso. Che non insegue il turista, ma accoglie chi torna ogni giorno con le chiavi di casa in tasca.

   

Per una nuova alleanza sociale del progetto

Oggi più che mai, abbiamo bisogno di un nuovo coinvolgimento politico e sociale nel pensare la città.

Non basta la tecnica, non basta il capitale, non basta l’algoritmo.

Serve una visione che sia anche voce plurale, che sappia tenere insieme le intelligenze e le fragilità, i numeri e le narrazioni, i modelli e le emozioni.

Attenzione, non sto parlando di survey digitali e sondaggi stradali.

Serve una nuova stagione dell’abitare collettivo, come fu — in un tempo diverso — quella degli anni Settanta. Anni in cui la ribellione era anche una forma di progettazione, e l’architettura era militante, pubblica, sociale, profondamente immersa nel presente.

Serve un’architettura militante. Penso al grande piano di edilizia popolare di Vienna, agli Gemeindebauten voluti dalla socialdemocrazia tra gli anni Venti e Settanta, dove l’edilizia non era solo risposta abitativa, ma forma urbana della giustizia.

Penso a scuole di architettura che aprano i cantieri ai quartieri, e discutano nei cortili con operai, studenti, amministratori.

La città era dibattito. Il progetto era dialogo. L’architetto era mediatore. 

Dobbiamo salvaguardare il dissenso

Perché senza dissenso, il progetto si fa sterile.

Senza la voce contraria, la città rischia di diventare una somma di assensi predefiniti, uno spazio algoritmico ottimizzato, ma senza scarti, senza crepe, senza poesia.

Salvaguardare il dissenso non significa essere contro il futuro, significa abitare criticamente il presente, con la consapevolezza che ogni forma di evoluzione ha bisogno di una coscienza che la interroghi.

   

Non contro la modernità, ma oltre il feticismo dell’efficienza

Non siamo contro la modernità, né contro l’evoluzione digitale.

I digital twin, i dati ambientali, le intelligenze artificiali possono essere strumenti preziosi. Ma devono servire il disvelamento, non la performance fine a se stessa. Devono aiutare a comprendere non solo come si muove la città, ma perché lo fa, per chi lo fa, a quale prezzo emotivo.

Tecnologia e umanità non devono escludersi, ma convergere nel progetto come alleati fragili, consapevoli dei propri limiti.

Un rendering non basta a raccontare un’abitazione.

Un gemello digitale non basta a comprendere una comunità.

Una dashboard urbana non restituisce lo sguardo di una madre che aspetta il figlio alla fermata dell’autobus sotto la pioggia.

E infine, la domanda inevitabile: chi plasma oggi le città?

Chi sono, oggi, i nuovi costruttori di città? Chi decide cosa verrà disegnato, dove, e per chi? Chi sono i “developer”, gli “sviluppatori immobiliari”?

Sono figure centrali, eppure troppo spesso opache. Sono gli artefici di interi quartieri, ma raramente partecipano al dibattito pubblico.

Eppure, non c’è vera architettura dell’essere se non c’è responsabilità del fare.

Oggi non basta investire, bisogna rendere conto.

Non basta costruire, serve costruire senso.

Non basta generare rendita, serve generare cittadinanza.

Forse è tempo che anche gli sviluppatori immobiliari si riconoscano come attori culturali e politici, che accettino il confronto, che non abbiano paura del dissenso, che comprendano che il loro ruolo può essere straordinario — se scelgono di allearsi con l’essere, e non solo con l’essente.

Perché la città dell’essere non nasce da chi costruisce più in alto.

Nasce da chi scava più in profondità.

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