Città
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La città scritta: appunti scritti sul bordo, per riflettere sul progetto urbano

La città è un testo corale, ricco di cancellature, riscritture, punti di sospensione. La città scritta di Stefano Boeri ci invita a leggere prima di disegnare, a riconoscere memorie e conflitti, a custodire quell’eros del luogo evocato da Byung-Chul Han. Progettare diventa atto filologico, parsimonioso, inclusivo, capace di sovrapporre forma tipologica, territorio, simbolo, senza mai saturare la pagina urbana condivis

Prima di iniziare, confesso una consuetudine personale: quando tengo in mano un libro tengo  sempre in mano la matita. Scrivo sul margine, a fianco del testo, note minute che mi accompagnano come briciole. Appunti che  continuano a rigirarsi fra i pensieri, a riemergere quando torno indietro di qualche pagina, a vibrare di senso nuovo alla luce di un passaggio successivo. Di tanto in tanto li raccolgo, li ricompongo in brevi riflessioni: piccole scaglie di grafite che, sedimentando, fanno attrito con ciò che già so e a poco a poco diventano parte di me.


C’è una differenza sottile ma decisiva tra pensare lo spazio leggere la città.

Pensare lo spazio è esercizio di astrazione: griglie, indici, densità, rapporti pieni-vuoti. Leggere la città, invece, comporta esporsi alla sua stratificazione semantica, lasciarsi attraversare da storie, conflitti, usi imprevisti; accettare che ciò che appare come forma sia in realtà una scrittura collettiva sedimentata nel tempo. 

La città scritta di Stefano Boeri è – per me – un invito esattamente a questo slittamento: dal progetto come imposizione al progetto come interpretazione.

Nello scorrere della lettura ho la sensazione che Boeri non offra un metodo da replicare né una teoria unica della trasformazione urbana, ma propona piuttosto una postura critica: prima di disegnare, occorre leggere; prima di trasformare, occorre riconoscere ciò che è già stato inscritto nei luoghi da economie, poteri, abitudini, memorie materiali e immateriali.

“Scrivere la città”, suggerisce, non equivale a redigere un piano: è intervenire in un racconto che non abbiamo inaugurato e che non controlleremo mai del tutto. Il progetto, in questa prospettiva, è glossa, nota a piè di pagina, interpunzione aggiunta a un testo corale.

Perché l’urbanistica, se vuole essere all’altezza del nostro tempo, non può più ignorare ciò che Byung-Chul Han chiamerebbe l’eros del luogo, ovvero quella tensione invisibile che lega le persone agli spazi, i corpi alle forme, i gesti alla materia.

Nel costruire questa postura, Boeri riprende un dialogo con tre architetti e tre libri che, ognuno a suo modo, hanno tentato di decifrare il rapporto tra forma urbana e significato.

Carlo Aymonino, con Il significato delle città (1975), ci riconduce alla città come costruzione collettiva fatta di permanenze, morfologie ricorrenti, dispositivi spaziali che sopravvivono ai cicli funzionali. Leggere prima di intervenire significa qui comprendere la grammatica profonda della città storica, dove l’uso muta ma la struttura resiste.

Vittorio Gregotti, in Il territorio dell’architettura (1966), sposta la lente: la forma non nasce dall’isolato né dalla tipologia edilizia, ma da un’interazione estesa tra insediamento, geografie, infrastrutture, clima, suolo lavorato dall’uomo. Il progetto diventa operazione territoriale: scrivere significa riscrivere relazioni.

Infine Aldo Rossi, con L’architettura della città (1966), fissa una delle immagini più potenti della disciplina novecentesca: i “fatti urbani”, i “monumenti” come depositi di memoria collettiva che strutturano l’identità del luogo oltre la contingenza funzionale. Il progetto, qui, è atto filologico: riconoscere, riprendere, rilanciare.

Boeri non gerarchizza questi tre sguardi; li tiene in tensione, come tre campate che sorreggono un’unica volta teorica mai chiusa.

Dalla loro frizione emerge una domanda che resta aperta sul tavolo di ogni progettista: quale livello di scrittura stiamo toccando quando interveniamo? La trama tipologica ereditata? La matrice territoriale che eccede la scala urbana? Il deposito simbolico che fa di un luogo un luogo? Ogni gesto progettuale, per quanto minimo – un percorso, un bordo piantumato, un volume aggiunto, una soglia resa permeabile – si iscrive su uno o più di questi strati. Non riconoscerli significa scrivere sopra senza leggere sotto, produrre rumore tipologico, territorio negato, memoria amputata.

Leggere, però, non è feticismo del già dato. Non si tratta di conservare tutto, ma di capire cosa significare oggi.

La città contemporanea vive di ibridazioni: funzioni sovrapposte, appropriazioni temporanee, economie intermittenti, spazi di prossimità che nascono dal basso e si dissolvono, vuoti che diventano piazze effimere, margini infrastrutturali colonizzati da pratiche sociali. … E poi c’è la trasformazione digitale e algoritmica che spinge per un nuovo modello di interazione umana …. In questa volatilità, l’idea di “scrittura” acquista un valore operativo: possiamo immaginare il progetto come sistema di segni che lascia margini di riscrittura futura, come testo a densità variabile che accoglie l’uso, lo devia, lo rende leggibile senza irrigidirlo.

Qui il dialogo con Aymonino, Gregotti e Rossi diventa operativo.

Dalla città-matrice tipologica ereditiamo la disciplina della forma; dal territorio-progetto la necessità di iscrivere ogni scelta in un contesto ecologico, infrastrutturale, produttivo; dalla città-memoria l’obbligo di fare i conti con ciò che una comunità riconosce come proprio, anche quando frammentario o rimosso.

Comporre questi registri non vuol dire sintetizzarli in un metodo unico, ma lavorare per sovrapposizione critica: un progetto può essere tipologicamente riconoscibile, territorialmente connesso e simbolicamente risonante senza essere schiavo di nessuno dei tre paradigmi.

Ciò comporta un’etica della parsimonia formale. Se ogni muro è frase e ogni vuoto è pausa, la ridondanza costruita equivale alla retorica verbosa: saturare lo spazio è come urlare in un testo già affollato. La città chiede invece di essere riletta con attenzione filologica: dove bastano segni leggeri? dove occorre riscrittura strutturale? dove la cancellazione è atto di cura perché restituisce respiro a una sintassi spezzata?

In questo senso la progettazione urbana si avvicina alla pratica editoriale: tagliare, commentare, ripristinare, evidenziare, aggiungere note, lasciare lacune dichiarate.

Scrivo queste righe non per chiudere la lettura, ma per trattenerne alcuni attriti. Leggere La città scritta mentre si lavora a progetti reali – un ambito di rigenerazione industriale, un margine ferroviario da ricucire, un centro minore che rischia la museificazione – significa portarsi dietro un promemoria ostinato: non esiste intervento innocente.

Ogni dettaglio costruito riscrive poteri d’uso, percorsi di senso, gerarchie di visibilità; sposta memorie, produce omissioni, istituisce nuove centralità.

Resto allora su questo bordo: leggere, segnare, riscrivere poco ma con coscienza.

La città, come il libro, non domanda conclusioni rapide. Domanda mani che sappiano sottolineare senza cancellare il testo. E occhi disposti a riconoscere che il progetto migliore è spesso quello che lascia spazio al prossimo lettore.

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