Quel vetro tagliente
I portici di Bologna diventano metafora di passaggio, identità e memoria, spazio urbano e interiore insieme. Come nel film "Il portiere di notte", l’architettura e la psiche si intrecciano, rivelando luci, ombre e l’ambiguità profonda dell’essere umano.
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Portici
Come il corpo dopo l’amore.
Spazio percettivo e spazio circostante si incontrano e l’architettura diviene proporzione dinamica. I portici non sono più elemento formale, sola porzione compositiva, ma percorso che contiene la meta, indicatore direzionale, spazio potenziale di movimento incessante. Non sta fermo il corpo, non resta immobile l’anima. La continuità prende il posto della prossimità ed è una successione che accompagna a disegnare il tempo.
Limitati ma non chiusi. Non dentro e non fuori.
Vorremmo che il dominio fosse definito ma lo spazio esistenziale attraversa ogni pensiero e sembra raccogliere ogni vita, ogni racconto, ogni parola detta e persino tutti i gesti vogliono lasciare un segno, essere trasformati in materia: tradotti in ricordi di luoghi, che formano nei portici il livello urbano dello spazio/società, che rende possibile il tessuto e le sue relazioni vitali. I portici sono spazio espressivo. Eppure è solo aria, atmosfera, solamente luce e ombra consecutiva. Respiri identità? Chiedi riparo ad una intimità perduta? Oppure esponi il tuo pensiero come le tue cose da offrire?
Tutte le personalità hanno luogo. Ogni geometrizzazione è solo condizione prospettica. I portici sono uno straordinario acceleratore della coscienza, del pensiero proprio e degli altri. I portici sono uno spazio poetico. Nei portici il mondo pubblico e il mondo privato si intersecano senza interferire. Ogni dominio concede l’uno all’altro quantità formale e qualità introspettiva. È un potere che afferra la struttura e la interpreta in una forma simbolica. Una navata estesa e continua silenziosamente afferente ad una laica religiosità che la città ogni giorno disegna e interpreta nei suoi valori collettivi. Non esistono mai grandi solitudini, democraticamente si impone l’appartenenza e ogni premonizione assolutista nei portici viene dissipata. La foresta sembra uscire dal muro. O forse i muri sono stati disegnati tra ciò che resta di una foresta. Mentre dormivamo profondamente la città guizzava di campate, luccicava di colonne, stendeva chiome di volte e frutti di capitelli rendevano famelico l’appetito degli architetti. E tutto senza rimproveri. Forse dapprima ignorando le leggi del moto, ma poi, comprendendo quando può essere penetrabile lo spazio, la sotto, nei portici, nessuno ha più fermato nessuno.
Infine l’aria è sempre rigenerata. Come il corpo dopo l’amore.

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Quel vetro tagliente
Una sceneggiatura, un film, un’attrice e un attore rimasti scolpiti nella memoria collettiva, una modalità di vivere, rivivere e affrontare il passato che ritorna. Tutto tragicamente ancora troppo troppo attuale.
Gli stai graffiando il dorso della mano mentre sussurri: Stupido, stupido, stupido… Forse ti sei offesa e giri la testa dall’altra parte. Fa dell’ironia, ride e tu gli chiudi la lampo dei pantaloni mentre si sta abbottonando la camicia. Giornata grigia, asfalti luminosi, atmosfera da acquario, nella quale si muovono personaggi che sembrano quelli creati da Robert Musil. L’ascensore sale dal sottosuolo. Intravvede la donna. Cerca di vederla bene tra la gente… Un’apparizione (sconcertante): la memoria riporta immagini in superficie (come un ascensore). Adesso ti stai liberando del maquillage con un batuffolo di cotone. Sei in piedi davanti allo specchio nel bagno. Ti vedo dalla porta aperta. Tutto lentamente, ma sei turbata, forse terrorizzata. Che ti prende? Niente… scusami. Ti senti male? No! Sto bene! Ma rispondi quasi urlando. Sei in ansia. Riprendi col detergente e il cotone sul viso, ma appena entro hai come la sensazione di svenire, ti appoggi al muro quando dopo esco. Estrai dal sottosuolo della tua anima quella sensazione fisica che avevi creduto di aver sepolto per sempre. Sei nuda e corri in uno stanzone bianco mentre ti sparano per farti spostare. Sbatti contro la porta. Adesso non riesci a dormire. Non vuoi che certi ricordi possano uscire. Tutto è un palcoscenico. Ti estraggono l’ago. Hanno iniettato cosa? Sei la mia matta, matta, matta…Resisti, conscia di non dover cedere. Ti “sento”, sei in sala. Allora mi giro e incontro il tuo sguardo. Il mio ti penetra (come un ago) un’emozione sottile e impercettibile. Fortissimo ti attraversa tutta. Calmo persisto a guardarti. Non vuoi voltarti, ti sforzi ma la tua mano è tutta un tremore. Tra noi c’è un ponte che non puoi rompere. Poi quando ti giri la mia sedia è vuota. Cosa ti sei immaginata? Ricordi come ti baciavo le ferite? In albergo non vuoi più prendere l’ascensore, preferisci scendere le scale a piedi. Insegui delle voci. Mi vuoi sorprendere? Avrai solo schiaffi senza emettere un grido. Poi ti curerò, mentre sei china nel bagno, con dolcezza mormorandoti qualcosa all’orecchio. Accarezzo una tua tempia. Mi lasci fare. Così si scatena una furia d’amore come due amanti che siano stati tenuti coatti e separati. Ti prendo su di me. Ti diverto, ti tormento, ti amo.
È Liliana Cavani nella sceneggiatura di “Il portiere di notte” (in collaborazione con il grande Italo Moscati) edita da Einaudi. Uno straordinario film del 1974 che, cinefilo incallito già allora, non potei vedere per limiti d’età, ma che recuperai con ampia ripetizione di visioni appena fu anagraficamente possibile.
È un tentativo di dipingere l’Inferno. C’è ambiguità. Tutti abbiamo, ciascuno dentro di noi, l’ambiguità della nostra natura. “La democrazia fa leva sulla maturità dei cittadini cosi come la dittatura fa leva sulla loro immaturità”. La difesa dei carnefici per assenza di colpa. E spesso la “guerra non fa altro che da detonatore: allarga il campo della possibilità e dell’espressione, rompe i fremi, apre le dighe.” L’ambiguità della natura umana. Nel 1957 all’Hotel dell’Opera della vecchia Vienna (come “tra noi”, scriveva Simon Wiesenthal) ci sono “assassini in congedo”. Liliana Cavani, citando Dostoevskij da “Memorie del sottosuolo” ci ricorda che “non solo troppa coscienza, ma anche qualunque coscienza sia una malattia.” Tentiamo di passare uno straccio sulla lavagna, per cancellare ogni traccia, ascoltando Mozart e gustando torta Sacher seduti al tavolo.
Sono perfetti (e bellissimi) Dirk Bogarde e Charlotte Rampling, “klimtiani” e “manniani” nella tragicità di una malattia profonda i cui sintomi appaiono ancora, anche oggi, tanto (troppo) decifrabili.
Qualche anno fa a Liliana Cavani veniva assegnato il Leone d'oro alla carriera dell’Ottantesima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica della Biennale di Venezia.
Precipitando continuiamo a calpestare con i piedi scalzi tutto quel vetro. Ora come allora la sfida è sempre aperta… Il vetro tagliente fa emergere il passato e i ricordi si ripetono con maggiore sapienza.

È “rivoltata” (alla Camus) di 180 gradi perché attualmente sembriamo condividere un quotidiano “ribaltamento storico”, che trasforma ogni prospettiva critica e interpretativa. La linea bianca è il vetro, la lastra di vetro, la lama di vetro che racchiude, che taglia e che se cade va in pezzi. Non c’è sangue perché la nostra società è palliativa e algofobica, è senza dolore (Byung-Chul Han), viene anestetizzata in quanto è più facile rinunciare che impegnarsi nella “dialettica del dolore”. Mentre il dolore è (quasi sempre) un affidabile criterio di verità (Weizsäcker).
Dalla rubrica «Marcello Balzani: tra Parola e Immagine»
C’è un numero che, più di altri, incarna l’idea di equilibrio e compiutezza: sei. È il primo numero perfetto, perché somma dei suoi divisori (1, 2, 3), ma è anche la metrica dell’esametro omerico, che ha guidato per secoli il racconto del viaggio, del mito, dell’umano.
A questo numero si ispira la struttura di “Perfetto Sei”, una rubrica che raccoglie i testi di Marcello Balzani come pensieri in cammino, intrecciati a immagini e citazioni che non illustrano, ma evocano, non spiegano, ma interrogano.
Il titolo è anche un gioco di specchi: si può leggere come “Sei perfetto”, allusione alla somiglianza divina dell’essere umano, fatto — secondo la tradizione — a immagine di Dio. Un invito, forse, a riscoprire nel frammento la traccia di un’armonia nascosta.
Ogni articolo della rubrica ospita progressivamente sei pensieri. Sei come unità compiuta, come sequenza che diventa ciclo. Quando l’articolo si completa, ne nasce uno nuovo. E ogni nuovo inizio si pone in cima alla serie, come il primo passo di un nuovo viaggio. L’intero progetto si dispiega così in una serie aperta di cerchi perfetti, ognuno con il proprio tema originario e la propria traiettoria di senso.

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