Quel vetro tagliente
Un viaggio visionario tra percezione, "seduzione dello spazio" e linguaggio visivo, dal testo di Anne Carson con tutte le follie che conducono a scegliere l’assurdità della guerra al “buco della serratura” di Lacan e Courbet fino alla poetica urbana dei portici UNESCO di Bologna e alla vertigine cinematografica de "Il portiere di notte" di Liliana Cavani. Balzani intreccia arte, corpo e architettura come dispositivi emotivi e cognitivi capaci di mostrare e occultare, unire pubblico e privato, sollecitando nuove letture dello spazio costruito e della memoria collettiva.
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La seduzione (dello spazio)
Bisogna rendersi conto che ormai ogni istante passato a contatto col “vetro” è come “penetrare nella sfera dell’apparenza”. Pensate di vedere delle cose ma in realtà non c’è più niente da vedere. Non so quanto consapevolmente si ha la strana impressione che siano le cose che ci vedono. Le cose, che un tempo dovevano essere comprese e definite per essere interpretate, non sfuggono più, ci vengono di fronte. Le cose posseggono il potere di sedurre lo spazio attraverso gli stessi segni di cui lo spazio è composto.
“L’acqua che seduce il fuoco.
Il fuoco sedotto dall’acqua.”
Sedurre è sviare l’altro dalla sua verità: come un segreto che sfugge. Potenza di attrazione, di distrazione, di assorbimento e di fascinazione. Una sfida? Cosa è in gioco? Solo un rialzo formale della posta? Ma c’è una regola o è un patto altamente ritualizzato che non deve mai enunciarsi? Dominano le apparenze in una continua oscillazione tra strategia e animalità. La seduzione è più vicina alla natura o al desiderio? Può essere calda ma anche fredda, ironica o artificiale fino al non-sense, passionalmente labirintica o all’apparenza solo residuale.
Quale potenza nella sospensione, nell’attesa, nell’immaginazione diagonale, obliqua (mai diretta) che alimenta. Non c’è molto di distintivo, quanto piuttosto di attrattivo, nel rapporto: mentre immagini l’opposizione scopri di essere fuso insieme, ma è una simulazione incantata, elusiva.
Penetrare nella sfera dell’apparenza: non c’è niente da vedere, sono le cose che vi vedono. Le cose non sfuggono più, vi vengono di fronte, seducono lo spazio attraverso i segni dello spazio.
Jean Baudrillard nel 1979 scrive “Della seduzione”, un saggio straordinario, ricchissimo di riferimenti letterari e filosofici, ma anche sociali ed etico-morali. Tradotto da Pina Lalli, si trova con una “potente” copertina estratta da una famosa opera di Salvator Dalì, edito da SE. Anche se sono passati molti anni quel testo non è invecchiato. Sicuramente alcune “categorie” si sono trasformate, altre si sono rinsecchite sui rami della comunicazione digitale e della “società dello spettacolo” (Guy Debord docet), altre ancora sono divenute talmente obese da non permettere la crescita di nulla di diverso.
Il maschile è terrorizzato dalla improvvisa (e spesso senza senso) reversibilità femminile.
Lo spazio possiede segreti e punti ciechi che simulano altri spazi e altri mondi.
Gli oggetti vengono sessualizzati in una intermittente indeterminazione erotica.
Ormai tutto è sottoposto ad una sfida a cui sembra impossibile non rispondere.

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Combattere 10 anni per una nuvola…
I motivi della guerra: la storia più antica del mondo viene attualizzata. Se Elena di Troia fosse Marilyn Monroe e Arthur Miller fosse Menelao? In un mirabolante quando perfetto testo di Anne Carson si ripercorrono tutte le follie che conducono a scegliere e perpetuare l’assurdità della guerra.
Desiderare è scomparire?
La guerra crea due categorie di persone: chi sopravvive e chi no. Entrambe recano ferite. La guerra è assurda per Anne Carson oggi quanto per Euripide allora.
Verità e menzogna, bellezza e giustizia, pubblico e privato si intersecano.
È il tema del doppio: il simulacro, la nuvola. Elena traslata in Egitto da Ermes per volere di Era, fedele e protetta, mentre l’altra, il sosia, “un fantasma creato dagli dei con un pezzo di cielo”, fa impazzire il mondo a Troia. Sedotta e non rapita da Paride. La giovane pin-up dai capelli scialbi che viene da Los Angeles, Norma Jeane Baker, che diventerà l’idolo adorato di Hollywood: l’Elena del mito con la Marilyn del grande schermo. Un’arma di distruzione di massa. Menelao è Arthur Miller, il buon marito di Sparta e di New York. Così il conflitto diviene anche domestico non solo mitologico come si può immaginare. “Fu questo il viso che mille navi fece salpar?” (ricordate il verso di Marlowe del suo Faust?): Elena è il metro, da sempre, di paragone della bellezza: “millihelen” cioè la millesima parte di Elena, per indicare “la millesima parte della bellezza necessaria per far salpare una sola nave.”
Ma Elena è un’eroina, che viene brutalizzata semplicemente dall’aver fissato la guerra troppo a lungo. Elena conosce lo sporco. Lo sporco, ciò che per i greci antichi, era il “fuori posto”, qualcosa che ha oltrepassato i confini, che confonde e rimescola categorie. Quindi, al decimo anno, Achille si sveglia e prendono la città. Uccidono tutti gli uomini, stuprano tutte le donne, caricano le navi e salpano verso casa.
È Anne Carson in “Era una nuvola. Una versione dell’Elena di Euripide” tradotto e curato da Patrizio Ceccagnoli per la Crocetti editore. Anne Carson è splendida e sta diventando “gigantesca”, come tutto in America lo diventa troppo presto!
Adesso lei lavora in Islanda in una piccola casa dove la sua creatività sembra essere una continua… collisione con un iceberg.
“Quella Norma Jeane a Troia, quella ero io (ripeto). Era una nuvola. Lui rimane lì come una valanga in fermo immagine. Nuvola, dice. Abbiamo combattuto dieci anni per una nuvola. Be’, dissi, questo è il succo. E poi, è la divina verità. Arthur andò in fiamme. Estinsi Arthur colpendolo col mio accappatoio.”

L’immagine è un mio scatto (rielaborato con una violenta censurante linea rossa) dell’immagine “Scultura del corpo della sposa Ungaro” che il grande fotografo Irving Penn fece alla bellissima Marisa Berenson nel 1969.
Ho ritrovato questa immagine sul mio laptop in una cartella del 2018, che raccoglieva quanto avevo “rubato” a San Paolo in una meravigliosa mostra del IMS, curata da Jeff L. Rosenheim e Maria Morris Hambourg, per il “Centenario di Irving Penn”.
Vi chiederete perché non Marilyn Monroe visto l’argomento del testo. Rispondo che non deve essere mai l’ovvio a prendere il sopravvento.
In questa Marisa Berenson ho intravisto lo sguardo (alla Carson) di una perfetta Elena/Nuvola.
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Il buco della serratura
Mostrare e occultare appartengono ancora alle principali azioni che si sviluppano e mettono in atto nella comunicazione digitale: anche il web propone i suoi “schermi”, le sue “porte” e i suoi “buchi della serratura”. Sono seduzioni? Sono ammiccamenti? Oppure potenti strumenti in cui si riconosce e si identifica la coscienza o una forma di linguaggio? È interessante ripercorre una storia molto particolare avvenuta su una famosissima opera d’arte e alcuni personaggi straordinari del Novecento.
Il buco da cui guardare. Il buco conico di Brunelleschi, lo spiracolo leonardesco, il riflesso della pupilla dietro il quale è lo sguardo (Lacan), il centro cieco, l’occhio incollato al buco della serratura di Sartre in “L’essere e il nulla”, un io puro riferimento dell’Altro nel “Inconscio ottico” (Rosalind Krauss), così albertianamente “osservare l’historia” non tanto dietro la porta ma dietro lo schermo gettato sopra la realtà come un velo apollineo.
Ti stai abbassando? Ti sei abbassato fino a incollare l’occhio su quel buco in basso alla porta? È un’ossessione vero? L’osservatore non può staccarsi perché non c’è solo “l’intenzionalità pura e trasparente diretta su ciò che accade dall’altra parte della porta, ma anche un corpo fermo da questa parte, un io esistente diventato improvvisamente opaco alla propria coscienza”.
La storia che vi racconto è gustosissima. Tutti voi avete presente questa “ossessione” immortalata da Gustave Courbet nello straordinario quadro “L’Origine du monde”. Un piccolo quadretto quasi rettangolare di circa mezzo metro di lato che Courbet dipinge per il diplomatico turco-egiziano Khalil-Bey, collezionista eccentrico, che poi perderà per debiti di gioco. A chi arriverà, dopo vari passaggi di mano, questa “perfezione organica femminile” delineata dal virtuosismo pittorico? Per 1,5 milioni di franchi non a Sigmund Freud (sarebbe stato più ovvio intuendo le pulsioni psicosessuali) ma a Jacques Lacan, che appende il quadro in una camera da bagno o in un antibagno di casa. Ma non basta, lo copre (come un velo) con una tavola di legno (da poco, quasi da retro di incorniciatura) dipinta dal suo amico André Masson, pittore surrealista (a lui si deve la copertina del primo numero di “Acéphale”, la rivista di Georges Bataille, e i suoi manichini furono mirabilmente fatti “risorgere” da Man Ray).
Quindi? Quindi Lacan crea con André Masson un dispositivo scorrevole per far vedere o non vedere “L’Origine du monde” a seconda di chi andasse a “visitare” il suo bagno di casa. Lo schermo, come quello cinematografico, recupera le sue “due funzioni inscindibili: mostrare e occultare”.
Per Lacan probabilmente la dimensione del linguaggio, dettata dal titolo del quadro, forse era più stimolante della sua densità voyeuristica. Pochi mesi fa nel SECS di Avenida Paulista a Sāo Paulo una mostra di Orlan (famosa performer francese di Body Art) lungo uno stretto corridoio laterale, quasi da “buco della serratura”, proponeva una sua opera dal titolo “L’Origine de la guerre”. La protesta del corpo femminile ad unico organo stimola una “sostituzione di genere” con (un po’ di peli sulle cosce) e una bella esposizione di genitali maschili (linguisticamente) associati alla massima violenza.
Vorrei presentarvi le due opere in confronto ma credo che la redazione di Ingenio non me lo permette sicuramente: potete comunque immaginare.
Lo stimolo di tutto ciò invece a me è venuto leggendo il bellissimo saggio di Philippe-Alain Michaud “Anime primitive. Figure di celluloide, di peluche e di carta” edito per Quodlibet, che cito (come sempre) con “virgolette e non” tra le mie parole.

Costruire tutto ciò (quasi trasparentemente un po’ alla Man Ray) è un rifiuto dell’effetto di realtà, come quando si crea la cornice intorno al quadro? Non so se si smaterializzano i corpi, ma la forma di un’immagine (divina) dopo la sua scomparsa corporea sembra delinearsi.
3
Può cadere la luna?
Vivendo lo straordinario sviluppo tecnologico in cui vengono inviluppate quotidianamente le nostre vite siamo portati a pensare che possa esistere un processo evoluzionistico che accompagna la nostra specie in ogni sua manifestazione.
Non è così. Probabilmente non lo è mai stato.
Siamo troppo “giovani” per addurre questa tendenza positivista a supporto delle nostre supposte capacità. Nulla come l’arte, nelle sue diverse forme, dimostra esattamente il contrario e le “Centurie d’Amore” ne sono un aderente esempio.
“Lei, con gli occhi danzanti, allungati,
lei, col seno pieno, tumido, ricolmo,
lei, che cammina lenta
per il peso dei fianchi rigogliosi:
è lei la diletta,
assassina della mia vita”
Può cadere la luna?
Precipitare dentro il calice insieme al liquore? E poi berla, la luna, tutta di un fiato?
A volte di notte, quando soffiano i venti, il profumo viene trasportato ed assomiglia a quell’aroma fragrante delle passioni appena sfinite, che si diffondono, illanguidite, allo sfiorare di un seno tra le ombre delle lenzuola. Denso polline. Stille di sudore. Teneri boccoli ed umida treccia. “Dalle fresche nubi scendono le gocce disegnando la sabbia appena appena… infranti dal soffio dei sospiri” gli sguardi penetrano tra le fessure delle stanze: la furia del vento sta per squassare ogni cosa e rinfrescare tutto.
Sembrano parole nate da un racconto appena scritto. Invece sono versi della “Śataka”, le oltre cento strofe della “Centuria”; un’opera del VII secolo d.C. probabilmente del poeta Amaruka, o forse, ma è meno probabile, ideata come antologia di diversi autori indiani. È un amore concreto, svelato nel momento dell’eccitazione, in ansia, nella metamorfosi del piacere, con quello stupore d’incanto e tenerezza che raggiunge la memoria e il cuore di ciascuno.
Come spesso accade in India, c’è sempre una favola che tratteggia la motivazione di una tale sublime opera. Si racconta, infatti, che Śańkara, un filosofo hindu tra i maggiori di quei tempi, fosse in piena tenzone dialettica con la sua sposa Mandanamiśra, filosofa anch’essa ma antagonista per visione teorica.
La domanda posta che stava mettendo in grande imbarazzo lo straordinario “Pensatore” riguardava la “scienza dell’amore”, dove non poteva rivendicare nessuna abilità data la scarsa o nulla esperienza sul campo. La sposa stava per averla vinta, quando Śańkara, come ci ricorda Giuliano Boccali, “grazie agli eccezionali poteri yogici acquisiti, proietta la propria anima nel corpo del sovrano defunto e, in quella forma all’apparenza risorta, si procura con le cento vedove la concreta e raffinata conoscenza dell’amore di cui la –Centuria- costituisce il poetico ricordo. Tornato… in se stesso, e ormai inattaccabile anche sul piano della sapienza erotica” Śańkara potrà rispondere con estrema facilità ai quesiti della “scaltra interlocutrice”.
Tutto un sogno ovviamente. Ma forse una verità è sottesa nel riflesso della leggenda di queste strofe. Si può essere sapienti, grandi regnanti, scienziati, politici, scrittori impegnati alla ricerca della propria fama o anche semplici uomini e donne nel compimento del proprio destino (concreto o spirituale che possa essere) ma sarà tutto irraggiungibile senza la “personale conoscenza del mondo avvincente e sfuggente dei sensi, delle emozioni, dell’amore”.
La “Centuria d’Amore” la potete ricercare tradotta dal sanscrito e curata da Daniela Sagramoso Rossella nelle edizioni Marsilio, con apparati perfetti prodotti sotto l’attento controllo di Giuliano Boccali.
Anch’io nella catena delle sue braccia mi sento stretto e i fremiti imperlano le guance e a volte, le parole, cadono giù come goccioline di pianto…
“Da quando, assetato d’amore,
ho bevuto il nettare copioso
dalle labbra della mia diletta,
da allora la mia sete è raddoppiata.
Che cosa c’è di strano?
Sono così piccanti!”

Tra queste pitture, come si vede nel mio scatto, alcune vengono sfregiate per negare il tema rappresentato, probabilmente quando un’intimità complice conduce ad essere più libere.
2
Portici
Come il corpo dopo l’amore.
Spazio percettivo e spazio circostante si incontrano e l’ architettura diviene proporzione dinamica. I portici non sono più elemento formale, sola porzione compositiva, ma percorso che contiene la meta, indicatore direzionale, spazio potenziale di movimento incessante. Non sta fermo il corpo, non resta immobile l’anima. La continuità prende il posto della prossimità ed è una successione che accompagna a disegnare il tempo.
Limitati ma non chiusi. Non dentro e non fuori.
Vorremmo che il dominio fosse definito ma lo spazio esistenziale attraversa ogni pensiero e sembra raccogliere ogni vita, ogni racconto, ogni parola detta e persino tutti i gesti vogliono lasciare un segno, essere trasformati in materia: tradotti in ricordi di luoghi, che formano nei portici il livello urbano dello spazio/società, che rende possibile il tessuto e le sue relazioni vitali. I portici sono spazio espressivo. Eppure è solo aria, atmosfera, solamente luce e ombra consecutiva. Respiri identità? Chiedi riparo ad una intimità perduta? Oppure esponi il tuo pensiero come le tue cose da offrire?
Tutte le personalità hanno luogo. Ogni geometrizzazione è solo condizione prospettica. I portici sono uno straordinario acceleratore della coscienza, del pensiero proprio e degli altri. I portici sono uno spazio poetico. Nei portici il mondo pubblico e il mondo privato si intersecano senza interferire. Ogni dominio concede l’uno all’altro quantità formale e qualità introspettiva. È un potere che afferra la struttura e la interpreta in una forma simbolica. Una navata estesa e continua silenziosamente afferente ad una laica religiosità che la città ogni giorno disegna e interpreta nei suoi valori collettivi. Non esistono mai grandi solitudini, democraticamente si impone l’appartenenza e ogni premonizione assolutista nei portici viene dissipata. La foresta sembra uscire dal muro. O forse i muri sono stati disegnati tra ciò che resta di una foresta. Mentre dormivamo profondamente la città guizzava di campate, luccicava di colonne, stendeva chiome di volte e frutti di capitelli rendevano famelico l’appetito degli architetti. E tutto senza rimproveri. Forse dapprima ignorando le leggi del moto, ma poi, comprendendo quando può essere penetrabile lo spazio, la sotto, nei portici, nessuno ha più fermato nessuno.
Infine l’aria è sempre rigenerata. Come il corpo dopo l’amore.

1
Quel vetro tagliente
Una sceneggiatura, un film, un’attrice e un attore rimasti scolpiti nella memoria collettiva, una modalità di vivere, rivivere e affrontare il passato che ritorna. Tutto tragicamente ancora troppo troppo attuale.
Gli stai graffiando il dorso della mano mentre sussurri: Stupido, stupido, stupido… Forse ti sei offesa e giri la testa dall’altra parte. Fa dell’ironia, ride e tu gli chiudi la lampo dei pantaloni mentre si sta abbottonando la camicia. Giornata grigia, asfalti luminosi, atmosfera da acquario, nella quale si muovono personaggi che sembrano quelli creati da Robert Musil. L’ascensore sale dal sottosuolo. Intravvede la donna. Cerca di vederla bene tra la gente… Un’apparizione (sconcertante): la memoria riporta immagini in superficie (come un ascensore). Adesso ti stai liberando del maquillage con un batuffolo di cotone. Sei in piedi davanti allo specchio nel bagno. Ti vedo dalla porta aperta. Tutto lentamente, ma sei turbata, forse terrorizzata. Che ti prende? Niente… scusami. Ti senti male? No! Sto bene! Ma rispondi quasi urlando. Sei in ansia. Riprendi col detergente e il cotone sul viso, ma appena entro hai come la sensazione di svenire, ti appoggi al muro quando dopo esco. Estrai dal sottosuolo della tua anima quella sensazione fisica che avevi creduto di aver sepolto per sempre. Sei nuda e corri in uno stanzone bianco mentre ti sparano per farti spostare. Sbatti contro la porta. Adesso non riesci a dormire. Non vuoi che certi ricordi possano uscire. Tutto è un palcoscenico. Ti estraggono l’ago. Hanno iniettato cosa? Sei la mia matta, matta, matta…Resisti, conscia di non dover cedere. Ti “sento”, sei in sala. Allora mi giro e incontro il tuo sguardo. Il mio ti penetra (come un ago) un’emozione sottile e impercettibile. Fortissimo ti attraversa tutta. Calmo persisto a guardarti. Non vuoi voltarti, ti sforzi ma la tua mano è tutta un tremore. Tra noi c’è un ponte che non puoi rompere. Poi quando ti giri la mia sedia è vuota. Cosa ti sei immaginata? Ricordi come ti baciavo le ferite? In albergo non vuoi più prendere l’ascensore, preferisci scendere le scale a piedi. Insegui delle voci. Mi vuoi sorprendere? Avrai solo schiaffi senza emettere un grido. Poi ti curerò, mentre sei china nel bagno, con dolcezza mormorandoti qualcosa all’orecchio. Accarezzo una tua tempia. Mi lasci fare. Così si scatena una furia d’amore come due amanti che siano stati tenuti coatti e separati. Ti prendo su di me. Ti diverto, ti tormento, ti amo.
È Liliana Cavani nella sceneggiatura di “Il portiere di notte” (in collaborazione con il grande Italo Moscati) edita da Einaudi. Uno straordinario film del 1974 che, cinefilo incallito già allora, non potei vedere per limiti d’età, ma che recuperai con ampia ripetizione di visioni appena fu anagraficamente possibile.
È un tentativo di dipingere l’Inferno. C’è ambiguità. Tutti abbiamo, ciascuno dentro di noi, l’ambiguità della nostra natura. “La democrazia fa leva sulla maturità dei cittadini cosi come la dittatura fa leva sulla loro immaturità”. La difesa dei carnefici per assenza di colpa. E spesso la “guerra non fa altro che da detonatore: allarga il campo della possibilità e dell’espressione, rompe i fremi, apre le dighe.” L’ambiguità della natura umana. Nel 1957 all’Hotel dell’Opera della vecchia Vienna (come “tra noi”, scriveva Simon Wiesenthal) ci sono “assassini in congedo”. Liliana Cavani, citando Dostoevskij da “Memorie del sottosuolo” ci ricorda che “non solo troppa coscienza, ma anche qualunque coscienza sia una malattia.” Tentiamo di passare uno straccio sulla lavagna, per cancellare ogni traccia, ascoltando Mozart e gustando torta Sacher seduti al tavolo.
Sono perfetti (e bellissimi) Dirk Bogarde e Charlotte Rampling, “klimtiani” e “manniani” nella tragicità di una malattia profonda i cui sintomi appaiono ancora, anche oggi, tanto (troppo) decifrabili.
Qualche anno fa a Liliana Cavani veniva assegnato il Leone d'oro alla carriera dell’Ottantesima Mostra Internazionale d'Arte Cinematografica della Biennale di Venezia.
Precipitando continuiamo a calpestare con i piedi scalzi tutto quel vetro. Ora come allora la sfida è sempre aperta… Il vetro tagliente fa emergere il passato e i ricordi si ripetono con maggiore sapienza.

È “rivoltata” (alla Camus) di 180 gradi perché attualmente sembriamo condividere un quotidiano “ribaltamento storico”, che trasforma ogni prospettiva critica e interpretativa. La linea bianca è il vetro, la lastra di vetro, la lama di vetro che racchiude, che taglia e che se cade va in pezzi. Non c’è sangue perché la nostra società è palliativa e algofobica, è senza dolore (Byung-Chul Han), viene anestetizzata in quanto è più facile rinunciare che impegnarsi nella “dialettica del dolore”. Mentre il dolore è (quasi sempre) un affidabile criterio di verità (Weizsäcker).
Dalla rubrica «Marcello Balzani: tra Parola e Immagine»
C’è un numero che, più di altri, incarna l’idea di equilibrio e compiutezza: sei. È il primo numero perfetto, perché somma dei suoi divisori (1, 2, 3), ma è anche la metrica dell’esametro omerico, che ha guidato per secoli il racconto del viaggio, del mito, dell’umano.
A questo numero si ispira la struttura di “Perfetto Sei”, una rubrica che raccoglie i testi di Marcello Balzani come pensieri in cammino, intrecciati a immagini e citazioni che non illustrano, ma evocano, non spiegano, ma interrogano.
Il titolo è anche un gioco di specchi: si può leggere come “Sei perfetto”, allusione alla somiglianza divina dell’essere umano, fatto — secondo la tradizione — a immagine di Dio. Un invito, forse, a riscoprire nel frammento la traccia di un’armonia nascosta.
Ogni articolo della rubrica ospita progressivamente sei pensieri. Sei come unità compiuta, come sequenza che diventa ciclo. Quando l’articolo si completa, ne nasce uno nuovo. E ogni nuovo inizio si pone in cima alla serie, come il primo passo di un nuovo viaggio. L’intero progetto si dispiega così in una serie aperta di cerchi perfetti, ognuno con il proprio tema originario e la propria traiettoria di senso.

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