Perfetto Sei. Pensieri di Marcello Balzani in viaggio tra parola e immagine
“Perfetto Sei” di Marcello Balzani è una rubrica ispirata al numero perfetto 6, dove pensiero, architettura e immagine si intrecciano in un percorso ciclico e riflessivo. Ogni articolo sviluppa sei frammenti evocativi, lontani dalla funzionalità tecnica, per esplorare nuove visioni del progetto attraverso ecfrasi, spiritualità e contaminazioni interdisciplinari.
C’è un numero che, più di altri, incarna l’idea di equilibrio e compiutezza: sei. È il primo numero perfetto, perché somma dei suoi divisori (1, 2, 3), ma è anche la metrica dell’esametro omerico, che ha guidato per secoli il racconto del viaggio, del mito, dell’umano.
A questo numero si ispira la struttura di “Perfetto Sei”, una rubrica che raccoglie i testi di Marcello Balzani come pensieri in cammino, intrecciati a immagini e citazioni che non illustrano, ma evocano, non spiegano, ma interrogano.
Il titolo è anche un gioco di specchi: si può leggere come “Sei perfetto”, allusione alla somiglianza divina dell’essere umano, fatto — secondo la tradizione — a immagine di Dio. Un invito, forse, a riscoprire nel frammento la traccia di un’armonia nascosta.
Ogni articolo della rubrica ospita progressivamente sei pensieri. Sei come unità compiuta, come sequenza che diventa ciclo. Quando l’articolo si completa, ne nasce uno nuovo. E ogni nuovo inizio si pone in cima alla serie, come il primo passo di un nuovo viaggio. L’intero progetto si dispiega così in una serie aperta di cerchi perfetti, ognuno con il proprio tema originario e la propria traiettoria di senso.
Questo non è un esercizio funzionale. Come scrive Balzani:
“Questa rubrica non vuole esprimere direttamente una funzionalità, ce n’è già troppa in giro, ma cercherà di rendere più spessa quella sottile membrana che rende vitale ogni rappresentazione.”
In un’epoca dominata dalla logotecnica – come l’ha definita Françoise Choay – il pensiero tecnico rischia di diventare arido, sterile. Al contrario, “Perfetto Sei” si nutre di contaminazioni: tra parola e immagine, tra letteratura e architettura, tra spiritualità e concretezza, tra emozione e riflessione.
L’ecfrasi – quella figura retorica che trasforma l’immagine in parola – diventa qui metodo e pretesto: ogni testo parte da uno scatto fotografico, da un’opera d’arte, da un frammento letterario o da un’esperienza vissuta, per poi aprirsi in un flusso di senso che chi legge può percorrere in silenzio, in ascolto.
Perfetto Sei è, in definitiva, un respiro del pensiero. Una pausa che sfida la velocità, un invito a camminare lentamente in compagnia di immagini e parole che non si chiudono in sé, ma che suggeriscono fenditure di luce da cui osservare diversamente ciò che crediamo di conoscere.
Andrea Dari, Editore di Ingenio
La terza libertà
Ovunque nel mondo i processi di trasformazione economica e sociale stanno modificando anche l’idea stessa di democrazia. Recuperando un approccio antropologico e archeologico proviamo a ragionare sul concetto di libertà.
La prima, la libertà di spostarsi, è potentissima, una forza della natura, non ci sono argini che la possano contenere, trova le sue radici nella nostra natura nomade primordiale e da quando l’umanità è apparsa nella sua evoluzione sul pianeta sembrava impossibile che recinti, muri, confini potessero limitarla.
La seconda è come l’aria, può essere brezza, vento al traverso che regola la rotta o tempesta, una tempesta perfetta: è la libertà di disobbedire. I bambini e gli adolescenti ce la ricordano ogni secondo della loro crescita e noi, genitori o nonni, sembriamo dei marziani discesi su un pianeta proibito che hanno dimenticato da dove venivano e da dove erano partiti. Ma è un allenamento che la nostra evoluzione biologica ci chiede di dimostrare ogni volta e riguarda la libertà di disobbedire a imposizioni arbitrarie.
La terza libertà è quella di creare o di trasformare i rapporti sociali.
La prima richiede “solide reti di ospitalità” e vede i territori come paesaggi (ancestrali, rituali, sociali). Coloro che viaggiano tanto lo sanno benissimo cosa significa: sbarcare o atterrare e sentirsi a casa. La seconda è una libertà che richiede tolleranza, persuasione e argomentazione ragionata e spiega perché bisogna impegnarsi a sviluppare fin da piccoli una dialettica pronta e vigorosa. La prima e la seconda libertà sono molto collegate fra loro e ogni volta che percepite di pelle la sindrome della colonizzazione (tecnologica, energetica, culturale, ambientale e pseudo ecologica) intuite come le strategie umane (nel bene e nel male) si possano coniugare.
La terza libertà è il nostro concreto futuro; si fonda sul processo di trasformare consapevolmente il proprio mondo; un processo che ha radici antiche e che storia, archeologia e antropologia delle società insegnano: possiamo o potremmo fabbricare facilmente “qualcosa” in modo diverso?
Ho estratto alcuni pensieri di David Wengrow (archeologo) e di David Graeber (antropologo), dei quali l’editore Rizzoli ha tradotto “L’alba di tutto: una nuova storia dell’umanità”. Se ne volete un assaggio ricercate sul numero di aprile 2023 di “Internazionale” l’intervento che Wengrow tenne a Torino alla manifestazione “Biennale democrazia”.
Cosa si collega ogni giorno all’erosione delle libertà all’interno delle nostre democrazie? I valori che ci rendono liberi sono solo quelli nazionali o transazionali? La libertà di aumentare il proprio potere d’acquisto? Siete così sicuri che sia una libertà? È così importante la libertà di difendere sempre e comunque la proprietà privata o di vendere la propria forza lavoro al migliore offerente? Non è semplice dare delle risposte perché la struttura mentale associata ai propri bisogni individuali stride. Sentite tra cuore e cervello quanto è stridente in ciascuno di voi?
La terza libertà è una libertà sociale concreta.
Stiamo condividendo un momento complesso. Un momento di grande trasformazione degli equilibri economici e a sociali e l’idea stessa di democrazia, come l’abbiamo definita e condivisa dal Secondo Dopoguerra in poi, è globalmente in fase di mutamento.
Nella straordinaria ricchezza di opportunità che questo mondo offre dobbiamo ricercare la terza libertà, difenderla, metterla in atto. Come un amore.

La memoria non è individuale ma molteplice e collettiva
Nelle parole di Tahar Ben Jelloun la struttura del racconto che rende vitale ogni forma dello spazio, partecipato nella realtà come nel sogno.
“Sarà nei tuoi occhi che ogni notte trascorsa lascerà un pezzetto dei tuoi sogni, ogni storia troverà seguito in un’altra, e dove la luce del mattino deporrà l’alfabeto del segreto. Come una cipolla il segreto ha molte bucce, che si staccano lentamente. In effetti vedevo la gente a colori. È vero, qualche volta lo vedo bene, è proprio qui vicino a me, basta allungare le mani per toccarlo. Altre volte è tutto sfuocato. La sua faccia sembra una nuvola. I nostri corpi si amavano. I nostri pensieri si ignoravano o si contrapponevano. Le nostre età erano molto differenti, ma quello non mi preoccupava. Pensavo che l’amore, quello grande, quello vero, c’era già: nel suo sguardo, nei suoi gesti, nella sua impazienza. Non sapevo che bisognava crearlo, costruirlo, come si fosse trattato di una casa, di un’opera d’arte...”
Ho iniziato a leggere Tahar Ben Jelloun ormai più di venticinque anni fa, sempre nella traduzione del grande (anche architetto) Egi Volterrani e quasi sempre edito da Einaudi. Ho iniziato e non ho mai smesso. Si ascolta il torrente del cielo all’alba, sembra annullare l’oblio, come una sorgente che canta nelle nostre vene, capace di estrarre una stella seminata nell’argilla o nella sabbia. Il corpo, le parole, le rocce emigrano, si separano, forse per riscattare un’anima, forse. Ho scelto frasi di “A occhi bassi”, un suo romanzo magico del trittico maghrebino, perché la memoria, come la speranza, non è mai individuale, è molteplice e collettiva.
“Il mio corpo fragile sarà invisibile. Nessuno si accorgerà della mia presenza. Quando mi sposterò, qualcuno dirà: «To’, c’è un po’ di vento». Andrò via senza calpestare… Mangerò poco e berrò molta acqua. Tufferò la testa nella sorgente... Nuoterò, danzerò, canterò, pregherò fino a non essere altro che una moltitudine di gocce d’acqua. Diventerò un ramo; un ramo di questo ruscello… Senza di te, se non mi aiuti, se non mi spingi, non riuscirò mai a realizzare questo sogno.”

Letteratura a scala urbana. L’Edificio Copan di Oscar Niemeyer come nel canto dantesco di Paolo e Francesca
Ondula seducente con le sue tante ciglia. Sembra un essere composto da altri esseri, stratificati con intensità in percorsi che conducono da dentro a fuori e viceversa attraverso ogni sguardo che prima scivola e poi accentra. È una letteratura intessuta a scala urbana? Forse una metafora di quell’amore a cui si è inevitabilmente legati.
Prima è sempre la forma di un peccato, poi come Paolo e Francesca nel vento della condanna e infine con lo sguardo che richiama comprensione e immedesimazione.
In questi giorni abito in un monolocale al 21 dei 35 piani dell’Edificio Copan, terminato nel 1966 e progettato da Oscar Niemeyer al centro di São Paulo. Nel mio scatto fotografico tra le grandi ciglia di cemento armato rivestite di piccoli tasselli di ceramica si vede in primo piano una porzione dell’Edificio Italia, uno dei grattacieli modernisti più alti della megalopoli brasiliana, sede del Circolo italiano di São Paulo, che ha festeggiato da poco i suoi 114 anni.
Rileggo durante il mio breve viaggio al di là dell’Atlantico i “Nove saggi danteschi” di J. L. Borges, curati da Tommaso Scarano per Adelphi, e São Paulo si articola, si biforca, si sovrappone e così (ancora e ancora) si stratifica con i suoi segreti nel mio sogno.

L’immagine è un mio scatto fotografico tra l’interno e l’esterno della straordinaria facciata con i suoi sinuosi frangisole in cemento armato.
La potenza fragile dell’incontro
Quando siamo innamorati, siamo presenti. Poi, spesso, è la presenza a venire meno, non l’amore. In questo scritto – tra parole intime e suggestioni letterarie – Marcello Balzani intreccia pensiero e immagine, corpo e tempo, in un dialogo con il romanzo Sete di Amélie Nothomb. Perché amare, forse, è ancora più radicale che credere nell’amore.
“Poteva accadere.
Doveva accadere.
È accaduto prima. Dopo.
Più vicino. Più lontano.
È accaduto non a te.
Ti sei salvato perché eri il primo.
Ti sei salvato perché eri l’ultimo.
Perché da solo. Perché la gente.
Perché a sinistra. Perché a destra.
Perché la pioggia. Perché un’ombra.
Perché splendeva il sole.
Per fortuna là c’era un bosco.
Per fortuna non c’erano alberi.
Per fortuna una rotaia, un gancio, una trave, un freno,
un telaio, una curva, un millimetro, un secondo.
Per fortuna sull’acqua galleggiava un rasoio.
In seguito a, poiché, eppure, malgrado.
Che sarebbe accaduto se una mano, una gamba,
a un passo, a un pelo,
da una coincidenza.
Dunque ci sei? Dritto dall’attimo ancora socchiuso?
La rete aveva solo un buco, e tu proprio da lì?
Non c’è fine al mio stupore, al mio tacerlo.
Ascolta
come mi batte forte il cuore.”

L’immagine è una mia elaborazione grafica di un dipinto di Roberto Ferri, che mette al centro l’angelo e il suo abbraccio.
Ancora una donna, una poetessa dal potere del colloquio, della scoperta continua, dell’interrogativo incalzante: Wistawa Szymborska. Nel giorno dell’Angelo, forse non abbiamo capito. Forse non capiremo mai se siamo noi, ancor oggi e tutti i giorni, quell’angelo. Oppure se siamo angeli in una fusione d’ali mentre cerchiamo l’abbraccio: potenze terrene e potenze celesti. Tutto, in “Ogni caso”, che è il titolo della poesia, è avvenuto per un’apparente, quasi impercettibile (spaziale e temporale) differenza. Talmente minima da essere macroscopia al punto da non vederla più: non più a fuoco. E non conta il contesto, lo sappiamo troppo bene dentro di noi. Soprattutto oggi. Vale per tante cose.
Da non crederci.
Amare è molto meglio dell’amore
“Quando ci innamoriamo, siamo presenti. In seguito, non è l’amore a venire meno, è la presenza. Se volete amare come il primo giorno, dovete coltivare la vostra presenza.”
Non penso mai alla crocefissione. Non ero io. Contemplo solo ciò che ho amato, che amo. La grande differenza fra me e mio padre, è che lui è amore e io amo. Dio dice l’amore è per tutti. Io che amo so bene che è impossibile amare tutti allo stesso modo. Amare è molto meglio dell’amore. Non lo ripeterò mai abbastanza: avere un corpo è quanto di più bello possa mai capitare. Le labbra di Maddalena abbozzano parole che non riesco a sentire. Sono indirizzate a me, vedo la loro traiettoria dorata dirigersi verso di me. Il crepitio di scintille dura più a lungo delle frasi stesse, ricevo il loro urto in pieno petto. E poi in amore non esistono rapporti di causa-effetto, dato che non esistono scelte. I perché li inventiamo dopo per il nostro piacere. L’amore non acceca. Ho potuto constatare il contrario. Essere innamorati rivela splendori invisibili a occhio nudo.

Sono alcune mie parole mescolate con quelle di Amélie Nothomb nel bellissimo “Sete”, tradotto da Isabella Mattazzi per Voland, un romanzo dove, insieme ai pensieri sul tempo di una vita che sta per finire, il corpo respira, suda, annusa e ha bisogno di bere, perché ama. Realtà e verità dialogano ancora incessantemente.
“Lo crocifiggiamo oggi? Ha domandato qualcuno. Pilato sembrò riflettere e mi guardò. Dovette pensare che mancava ancora qualcosa perché rispose: No domani. Ho sempre saputo che mi avrebbero condannato a morte, ma adesso scoprivo la paura.”
Forse è vero che l’inferno non esiste. I dannati sono quelli che trovano sempre qualcosa da ridire. Ma i malintesi hanno uno straordinario potere di sopravvivere curiosamente alla morte…
I piedi “parlanti” esprimono la delicatezza della rimozione dei chiodi prima del distacco dalla croce e rispondono alla “Deposizione” di Raffaello in Galleria Borghese a Roma. È un mio scatto che “ritaglia” una realtà difficilmente digitalizzabile nella sua completezza.

Dalla rubrica «Marcello Balzani: tra Parola e Immagine»
La dimensione tecnica non si alimenta solamente di un’arida “logotecnica”, come affermava Françoise Choay, ma può essere contaminata e meticciata. L’ecfrasi governa ogni comunicazione digitale e forse dedicare qualche minuto a “leggere” con diverse modalità (filosofiche, sociali, artistiche, letterarie…) può costituire un piacevole “respiro del pensiero”. Questa rubrica non vuole esprimere direttamente una “funzionalità”, ce ne è già troppa in giro, ma cercherà di rendere più spessa quella sottile membrana che rende vitale ogni rappresentazione. A volte le connessioni saranno opere letterarie (vecchie e nuove), altre volte opere d’arte o dettagli di esse, oppure solo sentimenti di esperienze. L’intersezione tra parola e immagine sarà il modello o la traccia.
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