Architettura senza narrazione: il rischio di un futuro costruito dall’intelligenza artificiale
L’architettura, come la narrazione, ha il potere di dare senso al caos dell’esperienza umana, di trasformare uno spazio vuoto in un luogo carico di significato. Ma cosa accade quando questa capacità viene meno? "Il tempo narrato non trapassa. Ed è per questo che la perdita della capacità stessa di narrare intensifica l’esperienza della contingenza," ci ricorda Byung-Chul Han nel suo libro La crisi della narrazione. È un monito che risuona profondamente, non solo nel contesto della letteratura o della memoria, ma anche in quello dell’architettura. Senza narrazione, gli edifici smettono di essere testimoni del nostro vivere, trasformandosi in mere superfici, efficienti ma prive di emozioni.
Questo articolo vuole esplorare il rischio che l’architettura moderna corre nel rinunciare alla sua essenza narrativa, sostituendola con la funzionalità algoritmica e l’estetica vuota. Dal BAM di Milano alle trombe di Piazza Gae Aulenti, dai vicoli di Palombara Sabina alle domande di Hashim Sarkis alla Biennale, vedremo come la narrazione – o la sua mancanza – può plasmare il nostro rapporto con lo spazio e con gli altri.
Quello che mi aspetto dall'architettura
"Il tempo narrato non trapassa. Ed è per questo che la perdita della capacità stessa di narrare intensifica l’esperienza della contingenza."
Con questa riflessione Byung-Chul Han tratta dal suo libro "La crisi della narrazione" ci lancia un monito, ci invita a riflettere sul ruolo della narrazione, come antidoto al vuoto, capace di dare senso e continuità al caos dell’esperienza.
Di fronte a queste immagini, emerge una connessione inevitabile con le parole di Byung-Chul Han: senza narrazione, l’esperienza si frammenta, perde senso, e lo stesso accade all’architettura. Ogni edificio, ogni spazio progettato sembra esistere in una dimensione autonoma, privo di legami con ciò che lo circonda, incapace di intrecciare storie che vadano oltre la propria funzione immediata. I quartieri moderni, con le loro facciate specchiate e i tall building, riflettono solo sé stessi, come se il loro unico scopo fosse celebrarsi nel presente. È un’architettura che rinuncia a essere racconto e diventa immagine, un selfie dello spazio costruito: perfettamente codificata, ottimizzata, ma priva di profondità e di memoria.
Di fronte a queste immagini, emerge una connessione inevitabile con le parole di Byung-Chul Han: senza narrazione, l’esperienza si frammenta, perde senso. E di questa mancanza soffriamo non solo nelle nostre vite individuali, ma nel percorso sociale che stiamo percorrendo.
Viviamo immersi nel vuoto delle realtà virtuali create dallo tsunami dell’informazione, dove tutto è frammentato, accelerato, incapace di tessere un racconto collettivo. Nelle nostre vite mancano le agorà, luoghi di incontro e di confronto; e nelle nostre città, lo stesso vuoto si riflette. Manca gli spazi che ci rappresentino, che ci colleghino agli altri e a ciò che siamo stati.
Ed è qui che diventa inevitabile riflettere sul ruolo e sull’evoluzione dell’architettura.
I quartieri moderni, con le loro facciate specchiate e i tall building, riflettono solo sé stessi, come se il loro unico scopo fosse celebrarsi nel presente. È un’architettura che rinuncia a essere racconto e diventa immagine, un selfie dello spazio costruito: perfettamente codificata, ottimizzata, ma priva di profondità e di memoria.
E' un'architettura che celebra se stessa ma non costruisce la base di esperienze autentiche, reali, connettive.
Ogni elemento sembra un frammento isolato, progettato per rispondere a una funzione o per stupire, ma incapace di raccontare una storia, di dialogare con il contesto o di evocare emozioni autentiche, come se il loro unico obiettivo fosse esistere nell’istante presente, senza memoria del passato né visione del futuro.
È un’architettura che si esaurisce nell’immagine.
Questa ricerca di codificazione e funzionalità estrema mi fa pensare al BAM – Biblioteca degli Alberi di Milano.
È un luogo concepito per essere innovativo, una combinazione di natura e design contemporaneo, ma dove la rigida geometria e il predominio del cemento sembrano comprimere l’esperienza naturale, piuttosto che favorirla. È uno spazio che funziona, ma non racconta; che attrae, ma non accoglie.
Eppure, proprio a pochi passi dal BAM, su un prato non progettato, ragazzi trasformano uno spazio senza nome in un luogo di gioco, di vita, di inclusione. Quel piccolo angolo inaspettato mi ha fatto pensare a quanto la narrazione non possa essere imposta, ma debba emergere spontaneamente.
E poi, il mio pensiero è volato altrove, a un viaggio che ha lasciato un’impronta diversa: Palombara Sabina. Un luogo in cui la narrazione non è mai stata cancellata, dove ogni pietra, ogni vicolo racconta una storia che lega passato e presente. Palombara Sabina è l’opposto di quella rigidità: è narrazione che vive nelle pieghe del quotidiano, nell’imperfetto, nello spontaneo. Un’architettura che non ha bisogno di essere progettata per essere vissuta.
Dentro i vicoli di Palombara Sabina
C’era una volta un gatto. Si aggirava tra vicoli e piazzette, muovendosi con l'eleganza di chi appartiene a ogni luogo senza mai possederlo davvero. Quel gatto sembrava non avere fretta, quasi sapesse che il tempo lì, a Palombara Sabina, sotto Monte Gennaro, non trapassa, ma resta intrecciato alle pietre, alle scalette, agli angoli dove il sole si rifletteva sui fiori che Maria Sole e Zeno, i miei figli, rincorrevano con la loro gioiosa energia. Era un viaggio diverso, quello. Non fatto di grandi monumenti o di torri che sfidano il cielo, ma di dettagli. Mio zio Angelo ci portò a vedere la casa dove aveva vissuto da bambino, raccontandoci di un tedesco nascosto durante la guerra e di un coppo caduto dal tetto mentre saltava da una casa all’altra. Ogni pietra sembrava parlare di quelle storie, ogni scalino sussurrava i ricordi di un tempo lontano. E poi c’erano le vecchiette che amavano ricamare agli angoli delle strade, la viuzza più stretta del mondo, le vecchie scuole dove il suono degli zoccoli dei cavalli si mescolava alla voce dei bambini. Tutto a Palombara Sabina era racconto. Non c’era bisogno di grandi edifici moderni o facciate scintillanti. Le pietre, i vicoli, i sottoscala parlavano da soli, intrecciando il passato e il presente in una trama unica. La narrazione non era un’aggiunta, ma l’essenza stessa di quel luogo.
Ripensandoci, mi rendo conto che è questo che rischiamo di perdere con la l'architettura del futuro. Inseguiamo l’efficienza, la funzionalità, l’apparenza. Costruiamo edifici che riflettono solo sé stessi, come dicevo un selfie privo di profondità. Ma l’architettura, quella vera, è come quel gatto di Palombara: appartiene alla vita, ne custodisce i ricordi, si intreccia con l’umano. È racconto, storia, relazione. Non basta che uno spazio esista; deve vivere e far vivere, come quei vicoli che ancora riecheggiano delle risate di Maria Sole e Zeno mentre correvano nel cuore di una narrazione senza tempo.
La narrazione consente all’architettura di andare oltre l’apparenza, trasformando lo spazio costruito in un racconto che intreccia memoria, presente e futuro.
Il rischio, nell’era dell’intelligenza artificiale, è che questa capacità venga soffocata dall’ottimizzazione algoritmica e dall’emulazione stilistica, privando l’architettura del suo ruolo più alto: raccontare l’essere umano e il suo legame con il mondo.
L’intelligenza artificiale e la perdita del contesto
L'intelligenza artificiale sta conquistando le attività progettuali, sta entrando di forza dentro l'architettura.
L’intelligenza artificiale apprende attraverso dati. Analizza pattern, elabora soluzioni, emula stili, ma non possiede la capacità di interpretare il contesto in modo profondo. Un algoritmo può generare un edificio ottimizzato nei materiali, nella sostenibilità o nella distribuzione degli spazi, ma non può cogliere la storia di un luogo o le emozioni dei suoi abitanti. La sua logica è quella dell’efficienza, non del racconto.
La narrazione, invece, richiede intuizione, interpretazione, una sensibilità umana che trascende i dati. Senza questa componente, l’architettura diventa un esercizio tecnico, una risposta a esigenze immediate ma incapace di lasciare un’impronta duratura nel tempo. Ogni edificio progettato senza narrazione è un’operazione che intensifica l’esperienza della contingenza: è un luogo che esiste, ma non appartiene a nessuno.
L’ottimizzazione algoritmica, pilastro dell’IA, riduce tutto ciò che è complesso a ciò che è misurabile. Efficienza energetica, minimizzazione dei costi, ottimizzazione dello spazio: tutti obiettivi fondamentali, ma che rischiano di oscurare gli aspetti immateriali e profondamente umani dell’architettura.
La capacità narrativa di un edificio non si misura in termini di prestazioni, ma nel modo in cui connette chi lo vive con il luogo e con la comunità. La memoria collettiva, le storie individuali, le aspirazioni del futuro: tutto questo rischia di essere dimenticato quando ci si affida esclusivamente all’efficienza algoritmica.
Per evitare che l’architettura generata dall’IA diventi un guscio vuoto, è essenziale mantenere il progettista umano al centro del processo creativo.
Gli algoritmi possono ottimizzare, suggerire e supportare, ma la narrazione richiede una sensibilità umana che solo il progettista può offrire. È il racconto ciò che dà vita all’architettura, ciò che trasforma gli edifici in spazi che appartengono a chi li vive.
L’IA deve essere uno strumento al servizio della narrazione, non il suo sostituto. Solo un progettista è in grado di interpretare la memoria di un luogo, di immaginare un futuro che dialoghi con il passato e di trasformare lo spazio costruito in un racconto.
L’architetto possiede quella capacità narrativa che l’architettura autentica richiede. È il sogno che lo ha guidato fin dagli anni di studio, che lo ha accompagnato nel difficile avvio della professione, nei primi passi dentro uno studio di progettazione. Un sogno spesso nascosto, soffocato tra le pieghe della normativa urbanistica, delle certificazioni e asseverazioni, delle tariffe inesistenti e delle complicazioni dei superbonus. Ma quel sogno è ancora lì, radicato nel cuore e nella mente, a ricordargli perché ha scelto questa strada.
Voleva essere come Le Corbusier, Frank Lloyd Wright, Alvar Aalto, Jane Jacobs, Kevin Lynch, Aldo Rossi, Kenzo Tange, Oscar Niemeyer, Ian McHarg, Denise Scott Brown, Rem Koolhaas, Jan Gehl, Peter Calthorpe, Martha Schwartz, James Corner, Michael Sorkin, Alejandro Aravena, Bjarke Ingels, Tatiana Bilbao, Stefano Boeri, Louis Kahn, Norman Foster, Tadao Ando, Emilio Ambasz... ed è diventato un applicatore di norme, un asseveratore, un supporto immobiliare.
E oggi, un nuovo pericolo incombe. La scorciatoia offerta dall’intelligenza artificiale rischia di trasformare quell’architetto, quel narratore di spazi e visioni, in un semplice decodificatore algoritmico, privandolo della sua più profonda essenza creativa.
A volte basta vivere e lasciarsi sorprendere
C’era una volta un gatto, un gatto un po’ speciale. Non parlava, ma sembrava sapere tutto, proprio tutto, e mi seguiva ovunque con quel suo passo morbido e curioso. Quel giorno eravamo al Millennium Park di Chicago, un posto enorme, pieno di prati, alberi, musica, e una strana magia nell’aria. Sembrava che il parco respirasse, che tutto avesse un cuore.
Ci fermammo in un teatro all’aperto. Il gatto si sedette accanto a me, la coda che ondeggiava piano mentre ascoltavamo il vento portare suoni lontani, come di strumenti invisibili che suonavano solo per noi. Poi iniziammo a camminare, piano piano, fino a quando lo vedemmo: il Cloud Gate, una scultura gigante, lucida come uno specchio, che sembrava venuta da un altro mondo.
Il gatto mi guardò con gli occhi grandi e brillanti, e senza pensarci ci mettemmo a girare intorno a quella cosa riflettente. Era strano: ovunque guardassi c’era qualcosa di diverso. Io, il gatto, i grattacieli che si piegavano, il cielo che si avvolgeva come un abbraccio. Ogni passo era un’immagine nuova, una sorpresa. La gente si fermava per fare foto, ma noi ci avvicinammo ancora di più, fino a toccarlo. Era freddo e liscio, e sembrava raccontare una storia, ma senza parole.
Ci sdraiammo sul prato, proprio sotto quel riflesso capovolto. Guardavo il mondo al contrario: gambe di bambini che correvano, il cielo che si avvicinava alla terra, e il gatto, che nello specchio sembrava più grande e più misterioso. Il tempo si fermò. Non importava cosa fosse quella scultura, o perché fosse lì. Era come se tutto, in quel momento, fosse collegato: io, il gatto, il cielo, la terra.
Quando ci alzammo per andare via, il gatto mi guardò con un’aria saggia, come per dire: hai visto? Non c’è bisogno di capire tutto. A volte basta vivere e lasciarsi sorprendere. E così tornammo sui nostri passi, con quel momento magico che batteva ancora forte dentro di noi, come una piccola favola da portare sempre nel cuore.
Guendalina Salimei e la Biennale di Architettura a Venezia
Nel 2021 Hashim Sarkis ha dichiarato nel suo intervento di presentazione alla Biennale di Architettura da lui curata.
“Abbiamo bisogno di un nuovo contratto spaziale. In un contesto di divisioni politiche acutizzate e disuguaglianze economiche crescenti, chiediamo agli architetti di immaginare spazi in cui possiamo vivere generosamente insieme”
How will we live together? Una domanda tanto antica quanto urgente, provvista però anche di una risposta univoca nel tempo, seppur banale, ovvero la “città”. È su questo quesito che l’architetto libanese Hashim Sarkis ha organizzato la 17° Mostra internazionale di Architettura di Venezia alla luce della crisi climatica, della pandemia, delle disuguaglianze politiche, economiche e sociali che affliggono l'intero pianeta.
Per capire cosa Hashim Sarkis volesse dirci abbiamo organizzato con INGENIO una visita alla Biennale insieme ad alcuni amici, tra cui Guendalina Salimei, architetto, fondatrice di T-Studio e professoressa presso la facoltà di Architettura della Sapienza di Roma e curatrice del Padiglione Italia per la prossima Biennale del 2025.
“All'inizio questa Biennale mi ha un po’ spiazzata, poi mi sono ricreduta. Il nostro collega libanese ha chiamato un po’ tutto il mondo a dare una risposta. Non chiede solo agli architetti e agli artisti, ma si rivolge anche agli antropologi, ai biologi, agli ingegneri e ad altri. Chiede a tutti di fare il punto sullo stato del nostro pianeta e lo fa con una domanda: ‘come possiamo vivere tutti insieme?’. È una Biennale che vuole farci riflettere e che invita ad assumerci le nostre responsabilità” ha dichiarato Guendalina Salimei.
Nelle sue riflessioni anche l’architetto Salimei ha rimarcato questo aspetto: “L’architetto è una figura di coordinamento che deve capire le istanze all’interno di questo grande mondo di specialismi per poterle interpretare e trasformare attraverso l’architettura”.
Per poter “trasformare”, l'architetto necessita però anche del supporto della governance.
Secondo Guendalina Salimei “le leggi ci devono dare una mano perché noi dobbiamo veramente trasformare. Dobbiamo trasformare le case, le scuole, il paesaggio. Le norme sono tutte troppo settoriali per cui la governance deve intervenire. Gli architetti devono avere gli strumenti per poter ‘mettere in campo’ tutte queste strategie complicate”.
E sul significato di quella bellissima biennale vorrei ricordare un altro passaggio del discorso inaugurale di Sarkis: “Mentre la politica continua a dividere e isolare, attraverso l’architettura possiamo offrire modi alternativi di vivere insieme. Dopotutto, lo spazio spesso precede, proietta e sopravvive alle condizioni umane che lo modellano. Un contratto spaziale potrebbe costituire un contratto sociale. Cerchiamo un contratto spaziale che sia al tempo stesso universale e inclusivo, un contratto allargato affinché i popoli e le specie coesistano e prosperino nella loro pluralità.”
Le 23 trombe di piazza Gae Aulenti: il linguaggio universale della connessione sociale
Alberto Garutti, lo storico docente dell’Accademia di Belle Arti di Brera mancato poco più di un anno fa, uno degli artisti italiani più influenti nel panorama contemporaneo, ha sempre concepito l’arte come un ponte tra individui, spazi e comunità. La sua opera con le 23 trombe installate in Piazza Gae Aulenti, nel cuore del quartiere futuristico di Porta Nuova a Milano, incarna perfettamente questa visione in cui l'architettura e la narrativa si uniscono. L’opera non è solo un elemento estetico, ma un dispositivo che amplifica la relazione tra le persone e il luogo, trasformando la piazza in uno spazio di dialogo.
Le 23 trombe in ottone, che si snodano come tentacoli dorati lungo la superficie e le scale della piazza, sono molto più di un'installazione visiva. Si tratta di un sistema acustico interattivo che collega il livello superiore della piazza con le zone sotterranee, creando un filo diretto tra spazi che altrimenti rimarrebbero separati. Parlando, cantando o semplicemente emettendo suoni all’interno di una tromba, il suono viaggia attraverso un percorso invisibile, raggiungendo chi si trova dall’altra parte. Questo semplice gesto invita alla curiosità, al gioco, ma soprattutto alla relazione.
L’intenzione di Garutti è chiara: rendere l’arte un mezzo per stimolare il contatto umano. Le trombe non sono solo oggetti, ma strumenti per ricordare che lo spazio urbano non è solo da attraversare, ma da vivere e condividere. Piazza Gae Aulenti, spesso percepita come un simbolo della modernità e del progresso economico, viene così trasformata in un luogo in cui la tecnologia e l’architettura dialogano con l’umanità.
L’opera vuole colmare un vuoto sociale, ricordando che in un’epoca di connessioni virtuali, la relazione umana diretta conserva un valore insostituibile. Il passante che si avvicina a una tromba, magari per gioco o curiosità, entra in un’esperienza intima e collettiva al tempo stesso. Chi ascolta, dall’altra parte, diventa parte di un racconto improvvisato, che si crea istante per istante.
Garutti non si limita a proporre un’interazione momentanea, ma mira a lasciare un’impronta di memoria. Ogni suono emesso e ogni parola pronunciata attraverso le trombe diventa un frammento di una narrazione più ampia, fatta di voci, storie e momenti condivisi. In questo senso, l’opera non è solo un simbolo di dialogo, ma un archivio vivo e mutevole delle emozioni e delle relazioni che si intrecciano nella piazza.
Narrazione e memoria come antidoto
Come ci ricorda Byung-Chul Han, "Noi ci accorgiamo della verità solo a posteriori. Il suo luogo è il ricordo nel suo essere un racconto."
L’architettura dovrebbe avere la stessa capacità della narrazione: custodire il passato, interpretare il presente e immaginare il futuro. Eppure, nell’era dell’intelligenza artificiale, rischiamo di perdere questo legame. Algoritmi capaci di generare edifici ottimizzati e sostenibili possono risolvere problemi tecnici, ma non potranno mai raccontare la storia di un luogo, o rispondere alle emozioni di chi lo abita.
L’architettura non deve limitarsi a essere funzionale o estetica: deve essere umana.
Deve costruire spazi che invitino all’interazione, che celebrino la memoria e che ci aiutino a immaginare il futuro. Come quel prato accanto al BAM, o i vicoli di Palombara Sabina, o le trombe di Piazza Gae Aulenti. Il progettista, oggi più che mai, deve essere il custode di questa narrazione, intrecciando passato e futuro per creare luoghi che non solo esistono, ma vivono.
Dobbiamo evitare che la scorciatoia offerta dall’IA soffochi questa capacità. L’architettura deve essere il nostro racconto collettivo, uno spazio in cui possiamo riconoscerci e ritrovarci.
In fondo, come diceva il gatto, a volte basta vivere e lasciarsi sorprendere.
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Architettura
L'architettura moderna combina design innovativo e sostenibilità, mirando a edifici ecocompatibili e spazi funzionali. Con l'adozione di tecnologie avanzate e materiali sostenibili, gli architetti moderni creano soluzioni che affrontano l'urbanizzazione e il cambiamento climatico. L'enfasi è su edifici intelligenti e resilienza urbana, garantendo che ogni struttura contribuisca positivamente all'ambiente e alla società, riflettendo la cultura e migliorando la qualità della vita urbana.