BIM: quale metodologia in un corso universitario?
Il percorso di ricerca e-BIM propone un approccio sistemico al BIM, integrando la metodologia nelle fasi dell'intero processo edilizio e adottando tecniche innovative di insegnamento come il design thinking per formare giovani architetti e ingegneri.
L'impatto di e-BIM nella formazione di architetti, ingegneri e geometri
Il percorso di ricerca
Insegnare una materia ai giovani studenti universitari è una esperienza veramente particolare e farlo bene richiede sacrificio e passione, tanto che spesso non riesci a comprendere fino in fondo quanto sforzo è necessario. La parola insegnare deriva da “segno” e per questo un significato interessante è quello di pensare all’insegnamento per “lasciare un segno”.
In un precedente saggio si introduceva l’inquadramento generale di e-BIM: un percorso di ricerca indipendente, di base e applicata, sulla metodologia BIM.
Si tratta di un percorso di ricerca realizzato con un approccio sistemico al fine di prospettare una diversa interpretazione del BIM rispetto alla visione corrente che vede la materia isolata nella sola fase della progettazione delle opere.
Il percorso è diviso in sei passaggi successivi e in questo saggio si parlerà di quello che allora è stato indicato come il quinto passo: il corso universitario “Sistemi digitali per il processo edilizio”.
Ho scritto e-BIM per uno scopo ben preciso spiegato nella sua introduzione: “Questo libro è dedicato ai giovani e in particolare a coloro che seguono studi di materie tecniche: geometri, architetti e ingegneri perché possano avere una visione diversa del significato e della portata del BIM ben più ampia di quella miope e parziale che attualmente si è imposta. Una proposizione questa che apre a scenari di possibilità per i sistemi socioeconomici tali da poter impiegare con successo ogni singola professionalità.”
Dopo aver scritto e-BIM ho avuto modo di conoscere tanti di quei giovani ai quali il libro è dedicato, quasi tutti professionisti, che in un modo o nell’altro mi hanno cercato seguendo il mio invito, riportato in un apposito capitolo del libro, ad incontrarci su LinkedIn.
Non avrei mai immaginato però, che gli eventi mi avrebbero portato da lì a poco ad incontrare questi giovani come studenti in un’aula dell’Università.
Il caso ha voluto che incontrassi il professor Fabrizio Cumo in un convegno e che, come spesso mi accade, ci siamo ritrovati immediatamente a disquisire sul tema del BIM e della costruzione. Il professore era allora il presidente del corso di laurea in “Gestione del processo edilizio” della facoltà di Architettura dell’Università degli Studi di Roma “La Sapienza” e la sua volontà fu a dir poco sorprendente. Per il corso c’era la necessità di coprire la cattedra in “Sistemi digitali” e solo con un paio di incontri, con una capacità non comune di comprensione del mio lavoro, volle affidarla proprio a me.
E così e-BIM è entrato con tutti gli onori nell’Accademia come libro di testo di un corso universitario.
Un’occasione, ma per chi? Sarebbe stata per me una occasione unica!
Avrei potuto utilizzare la mia capacità di comunicazione per trasferire la mia visione della BIM: la metodologia della modellazione delle informazioni ai giovani studenti. Avevo già numerose slide e presentazioni che ho utilizzato e utilizzo come docente con una discreta esperienza nell’ambito di numerosi master universitari. Avevo così a portata di mano una possibilità incredibile. Avrei trasformato questi studenti in esperti di e-BIM, una vera e propria generazione di seguaci del mio pensiero.
Eppure, qualcosa non mi convinceva.
La verità è che per troppe volte ho affermato che solo i giovani possono cambiare questo mondo e io sono fermamente convinto di questo. Una pesante responsabilità che noi, quelli della nostra generazione, trasferiamo a loro insieme al peso dei debiti: culturali, finanziari e ambientali che gli lasciamo come dote generazionale. È questo il motivo per il quale noi abbiamo a nostra volta l’obbligo di far qualsiasi cosa possa aiutarli a superare le attuali incapacità di governo della complessità.
Il mondo è al collasso e i suoi problemi cruciali: povertà, disuguaglianza, pandemie, guerre, armamenti, crisi ambientale, etc. nascondono la vera causa del collasso: una miriade di sistemi che non funzionano: il caos. Il mondo è nel caos. Non è vero che siamo in un mondo complesso. Il dominio complesso richiede azione come il dominio caotico.
Ma mentre nella complessità i sistemi consentono di apprendere dall’azione: il suo significato in termini di causa/effetto, non è così nel caos.
La pandemia Covid ha dimostrato come il mondo sia nel caos. L’effetto farfalla si è determinato in una cittadina della Cina e si è propagato a livello globale con una velocità tale da mettere il mondo in ginocchio. Nel dominio caotico non c’è passato: non ci sono dati, né protocolli, né insegnamenti. Bisogna agire ed evolvere perché non c’è apprendimento.
E infatti, cosa abbiamo imparato dalla pandemia Covid? Proprio nulla!
La situazione attuale dimostra l’evidenza di quanto sto affermando. Il più grande insegnamento della pandemia Covid è stato la dimostrazione che l’intera umanità può cambiare completamente le sue abitudini di vita se lo vuole o se ce ne è bisogno.
Non abbiamo forse bisogno di cambiare completamente il paradigma della competizione sul quale abbiamo oramai fondato la nostra esistenza per risolvere quei gravi problemi che affliggono l’umanità? O non abbiamo forse bisogno di smettere di emettere gas serra per consentire alla temperatura del pianeta di ritornare su valori che consentano di arrestare l’attuale grave condizione di crisi climatica? E cosa ne abbiamo fatto dello straordinario insegnamento della pandemia Covid? Nulla!
Non abbiamo imparato ciò che abbiamo appreso. Ma non solo, sembra che la nostra volontà manifesta sia di dimenticarlo.
E dunque se sei lì come docente universitario e cioè rappresenti la massima espressione del trasferimento della conoscenza, non puoi lavorare per l’apprendimento ma per l’evoluzione. Per questo non devi pensare di far apprendere schemi mentali, ma al contrario devi suscitare la loro generazione. Non si tratta quindi di trasferire la conoscenza dal docente al discente, ma di crearne di nuova dal discente per il discente. Da questo a questo, nel senso di insegnare a generare intelligenza, creatività e soprattutto spirito critico.
Dovevo trasformare la mia occasione in una loro occasione. La mia possibilità collegata alla loro necessità di studiare la mia materia per afferrare un buon voto all’esame, alla loro possibilità di flipped learning (insegnamento capovolto) per generare in loro pensiero divergente e proattività.
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Il metodo
Dovevo quindi sviluppare un metodo capace veramente di dare un senso alla teoria dello psichiatra americano William Glasser e passare dall’apprendimento passivo a quello attivo.
All’inizio di questa avventura, circa tre anni fa, avevo una discreta esperienza di formazione professionale, direzionale e di master universitari, ma non ne avevo affatto di interi corsi universitari. Nonostante questo, immaginavo bene quale poteva essere la differenza tra insegnare a persone laureate, molte con i capelli grigi e a giovani appena arrivati all’ingresso dell’università.
L’intuizione era corretta. Dall’esperienza dei capelli grigi o di quella di coloro che sono già lavorativamente maturi puoi aspettarti mediamente una interazione consapevole. Con i giovani studenti, invece, è esattamente il contrario. Non è che questi ultimi non abbiano idee ben chiare nella loro testa, anzi al contrario, molto di più dei loro colleghi più avanti negli anni. Il fatto è che la maggior parte di queste loro idee, delle loro radicali convinzioni, sono completamente discutibili e, inoltre, con le loro posizioni ferme non è così facile dialogare. Insomma, rappresentano discenti ben più complessi.
Inoltre, il loro utilizzo della rete Internet è così intenso che, per molti di loro, diviene la prioritaria forma di informazione. Attualmente poi, con i sistemi Generative Pretrained Transformer (GPT), la loro capacità di sfruttare la “conoscenza artificiale” , pur nella completa ignoranza, genera per chi ha a che fare con loro un vero e proprio problema.
Così in realtà è sempre più improbabile che un professore universitario possa competere con la potenza di queste macchine, soprattutto di fronte a coloro che non si spaventano affatto di farne pieno utilizzo. Non è un caso se alcune università del mondo hanno vietato l’utilizzo di questi sistemi per i loro studenti o se in altri casi sono stati aboliti gli esami scritti.
Insomma, come avrei dovuto trasformare l’apprendimento per “lasciare un segno”?
(riproduzione riservata)
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