Bollette e allacciamenti non sono prove sufficienti ad accettare un cambio di destinazione d’uso ante-67!
Il cambio di destinazione d’uso degli immobili è un approccio consapevole e rispettoso del contesto urbanistico e con l’introduzione del Decreto Salva Casa (DL 69/2024) sono state introdotte procedure più semplificate, permettendo cambi tra categorie funzionali diverse anche attraverso strumenti come SCIA e CILA, purché siano rispettate le condizioni stabilite dai regolamenti comunali. Tuttavia, il mero decorso del tempo o la produzione di documenti generici non possono giustificare un cambio di destinazione. La sentenza del Consiglio di Stato n. 3179/2025 ha, infatti, ribadito l’obbligo di ottenere un titolo edilizio valido per modificare la destinazione d’uso.
Cambi di destinazione d’uso: regole e condizioni
Il cambio di destinazione d’uso, al di là degli aspetti tecnici e normativi, solleva importanti riflessioni sul rapporto tra spazio, funzione e bene collettivo. Infatti ogni edificio non è un elemento isolato, ma fa parte di un tessuto urbano e sociale, andando ad integrarlo e arricchendolo con le proprie caratteristiche. Di conseguenza, modificarne la destinazione significa ridefinirne un nuovo ruolo all’interno del contesto urbano.
Ogni edificio nasce per uno scopo e quando per motivazioni varie si decide di variarne la destinazione funzionale (ad esempio da residenziale a studio, da commerciale a turistico), si genera non solo un intervento edilizio rilevante per l’edificio in se, ma una scelta che incide sulla vivibilità e sull’identità dei luoghi di cui lo stabile ne è parte integrante. Ecco perché la norma non lascia nulla al caso, ma è molto attenta a questi processi.
È quindi essenziale che le trasformazioni avvengano in modo consapevole, rispettando il contesto urbanistico, le esigenze della collettività e il principio di sostenibilità. L’abuso di questi strumenti potrebbe compromettere la storicità dei centri storici, alterare l'assetto socio economico di alcuni quartieri e compromettere il diritto ad una città funzionale e organizzata, evitando generazione di caos ed entropia.
Con il Decreto Salva Casa (DL 69/2024, convertito nella legge 105/2024), all’art. 23-ter del DPR 380/01, vengono apportate importanti novità nel regime dei cambi di destinazione d’uso urbanisticamente rilevanti, semplificando molte procedure. Con le nuove norme, i cambi d’uso sono sempre consentiti, anche tra diverse categorie funzionali purché rispettino specifiche condizioni.
Queste variazioni di destinazione possono inoltre avvenire anche in presenza di interventi edilizi.
Non occorre infatti ricorrere sempre al permesso di costruire, in particolare se gli interventi edilizi sarebbero realizzabili mediante una semplice CILA senza variazione di destinazione, l'eventuale aggiunta del cambio di destinazione può avvenire attraverso SCIA, a differenza degli anni passati. Di fatto, Prima del decreto qualsiasi mutamento d’uso con opere tra categorie diverse richiedeva sempre il permesso di costruire.
Riassumendo:
- il cambio all’interno della stessa categoria funzionale è sempre consentito, anche con lavori;
- il cambio tra categorie diverse è ammesso per unità situate in zone A, B e C, purché rispettate le eventuali condizioni poste dagli strumenti urbanistici.
Ad esempio se un proprietario, che possiede un locale accatastato come magazzino (categoria C/2) nel centro storico di un Comune, decide di trasformarlo in abitazione (categoria A/2) per affittarlo come appartamento, questo tipo di cambio comporta il passaggio tra categorie funzionali diverse (da produttivo a residenziale) ed è quindi considerato urbanisticamente rilevante.
Il Comune ha il diritto di richiedere un permesso di costruire se il cambio comporti anche lavori di adeguamento igienico-sanitario e impiantistico. Inoltre, trattandosi di zona soggetta a vincolo paesaggistico, sarebbe sempre necessario acquisire il parere favorevole della Soprintendenza. Naturalmente resta fermo il fatto che, una volta ottenuti tutti i nulla osta e completati i lavori, il tecnico dovrà presentere anche una variazione catastale per aggiornare la destinazione nei registri immobiliari.
Chiariti questi aspetti bisogna precisare che, il mero decorso del tempo o la produzione di elementi documentali generici non possono sanare un cambio di destinazione d’uso avvenuto abusivamente, né tantomeno possono dimostrare la legittimità edilizia di un immobile.
A chiarire tale concetto è la sentenza del Consiglio di Stato n. 3179/2025, che ha respinto un appello in merito a un ordine di demolizione per abuso edilizio. Il provvedimento contestava il cambio di destinazione d’uso, da magazzino ad abitazione, anche se veniva sostenuto che l’uso abitativo risalisse agli anni ‘50 o ‘60, producendo alcune documentazioni a sostegno di tale affermazione.
L’importanza del titolo abilitativo in caso di modifica di destinazione d’uso
Il Consiglio di Stato, con la sentenza n. 3179/2025, ha confermato l’illegittimità del cambio di destinazione d’uso in assenza del titolo edilizio e l'impossibilità di sanatoria in assenza dei requisiti, ovvero di prove documentali certe attestanti il differente uso ante-67.
L’immobile della sentenza, formalmente classificato come magazzino e ricadente in zona del PRG “Agro Romano”, era stato oggetto di trasformazione in abitazione, mediante interventi interni non autorizzati. Il Comune però aveva ritenuto che le opere fossero abusive e ne aveva ordinato la rimozione. Tali abusi erano riconducibili alla modifica della destinazione funzionale dell’unità immobiliare, violando l’art. 33 del DPR 380/2001 e l’art. 16 della LR Lazio n. 15/2008.
Il ricorrente però sosteneva che l’immobile fosse stato destinato ad uso abitativo sin dagli anni ‘50. Egli aveva anche prodotto una documentazione circostanziale a sostegno della sua tesi, che includeva atti di compravendita, concessioni idriche, bollette e una sentenza del Pretore di Roma del 1964. Tuttavia, il Consiglio di Stato ha ritenuto che nessuno di questi elementi fosse idoneo a dimostrare che il mutamento di destinazione fosse avvenuto già contestuale alla costruzione dell’edificio.
Il Consiglio di stato precisa che “(…) da quei documenti si evince la destinazione esclusivamente agricola del bene venduto, così come l’impegno dell’acquirente a coltivarlo, attività che sembra rappresentare, si direbbe oggi, la “causa concreta” di quel contratto. (…)
Infine, è vero che l’art.3 fa riferimento all’impegno dell’ente Maremma, venditore del bene, a realizzare sul fondo un fabbricato, ma è anche vero che questo è definito “colonico”, senza ulteriore specificazione, il che fa ritenere che si trattava, verosimilmente, di un immobile pertinenziale all’attività agricola, in coerenza con le suddette previsioni che impegnavano l’ente Maremma a potenziare la suddetta attività di sfruttamento della terra.”
Dall'estratto della sentenza si comprende chiaramente che la documentazione fornita non prova che il fabbricato fosse effettivamente utilizzato come abitazione, anzi in alcuni casi conferma una destinazione d’uso agricola o accessoria all’attività rurale. Inoltre, il contratto di compravendita del 1955 e il capitolato allegato evidenziavano la vocazione agricola del fondo e l’obbligo dell’acquirente di coltivarlo, riferendosi al fabbricato come a un edificio “colonico”.
Il Consiglio di Stato chiarisce inoltre che “Quanto alle bollette di pagamento dell’energia elettrica, anche a non voler considerare che si riferiscono agli anni 1984 e 1985, e non agli anni ’50 né ’60, esse nulla provano in ordine alla destinazione abitativa, dal momento che l’energia elettrica può servire anche fabbricati non abitabili, ma, come quello in questione, destinati a magazzino. Analoghe considerazioni devono essere riservate alla concessione del 1965 di derivazione di acqua per uso potabile, assentita dall’Ente al possessore del fondo, trattandosi di fornitura che può essere posta anche a servizio di fabbricati non necessariamente destinati ad abitazione. La ricevuta di pagamento della televisione del 1994 risulta intestata ad *** ***, tuttavia è pagata per un’utenza (e dunque a un civico) non individuabile, risultando la sola indicazione che il solvens risiede in Roma. Dunque non è univocamente riferibile all’immobile di che trattasi.”
Nemmeno le bollette e i documenti relativi alle utenze domestiche (energia elettrica, televisione) sono risultati elementi sostenitori della tesi, che, oltre a non essere univocamente riferibili all’immobile in esame, risultano comunque datati a partire dagli anni ’80, senza alcun nesso con l’asserita originaria vocazione abitativa.
Quindi il cambio di destinazione d’uso non è supportato dalla data di costruzione del fabbricato ma può essere legittimato solo dal titolo abilitativo. L’eventuale prova a carico del proprietario non può basarsi esclusivamente si atti notarili o allacciamenti ad utenze domestiche. La destinazione abitativa impone necessariamente l’acquisizione di un apposito titolo edilizio, che nel caso di specie non è mai stato richiesto né tantomeno rilasciato.
LA SENTENZA DEL CONSIGLIO DI STATO È SCARICABILE IN ALLEGATO.
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