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Digitalizzazione e Processo Produttivo: Evoluzione e Scenario Internazionale

Un articolo di Angelo Ciribini, Unibs

Testo redatto in occasione del seminario Industrializzazione, nuovi modi di costruire, organizzare e gestire il cantiere, Assimpredil, Milano, 18 Settembre 2019

Digitalizzazione e Industrializzazione edilizia, nuove versioni di vecchi approcci

Se, per un attimo, accantonassimo la parola «digitalizzazione», sostituendola con il termine «informazione», accostato al vocabolo «industrializzazione», ci troveremmo immediatamente a cavallo tra la fine degli Anni Quaranta e l'inizio degli Anni Cinquanta, nel cuore della ricostruzione postbellica, vale a dire di uno sforzo concettuale e produttivo ispirato a «produttività» e a «industrialesimo», alla nuova frontiera dei viaggi di studio delle missioni europee negli Stati Uniti.

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Del resto, la crisi recente indurrebbe a riproporre il quadro della «ricostruzione»: del comparto, ancor prima che delle città e dei territori.

In verità, il rapporto tra universo manifatturiero e settore edilizio, sia in termini di fascinazione sia di emulazione può risalire agli Anni Venti e Trenta (da Le Corbusier e Walter Gropius a Martin Wagner o a Ernst May), ma, soprattutto, a proposito, in particolare, dei sistemi costruttivi (prefabbricati) in legno, è possibile rintracciarne una lunga genesi ottocentesca negli Stati Uniti.

D'altra parte, la sfortunata, quanto paradossale, vicenda che nell'immediato secondo dopoguerra vede Gropius con Konrad Wachsmann (già protagonista molto attivo dei sistemi costruttivi in legno nella Germania weimariana: da cui il celebre saggio per Wasmuth) proporre con una certa ardimentosità il «giunto universale» proprio al mercato nordamericano molto dice, precocemente, sulla saga dell'industrializzazione edilizia.

Al contempo, è interessante osservare il tragitto dei brevetti danesi e francesi che, dagli Anni Trenta e Quaranta in poi, migreranno nell'Unione Sovietica, in Bulgaria, in Cecoslovacchia, nella Germania Orientale, in Ungheria, per giungere addirittura sino a Cuba o in Algeria.

Non meno interessanti sono gli edifici prefabbricati britannici post-bellici, oggetto attualmente di una politica di conservazione e di tutela: e pare che a Churchill la parola «prefabbricazione» non fosse per nulla gradita, forse maggiormente ad Attlee.

La scala urbana dell'edilizia industrializzata, residenziale, ma anche scolastica e quant'altro, con sistemi in conglomerato cementizio armato e, in misura minore, in acciaio, si sviluppa, infatti, con grande intensità nei Gloriosi Trenta (1945-1973) prima di tutto nell'Europa Occidentale, con forti resistenze nel nostro Paese riguardanti la qualità architettonica, tanto da far sì che alcuni studiosi ne giudichino le vicende come una parentesi circoscritta, avulsa da un approccio incrementale all'innovazione che assumerà la denominazione del «tradizionale evoluto» o fors'anche del «sistema aperto».

Occorre, però, riconoscere, prima di tutto, che, a dispetto della monotonìa delle opzioni progettuali e dei discutibili livelli prestazionali spesso dimostrati dalle soluzioni industrializzate (per non parlare del potenziale generatore di disagio sociale delle periferie urbane), la prima reazione di coloro che, in parte almeno, furono i protagonisti delle migrazioni interne, fu ispirata alla sensazione di progresso abitativo in termini tecnologico, di soddisfacimento dei bisogni primari.

In realtà, nell'ottica del ragionamento specifico, la sfida, e la scommessa, allora probabilmente persa, investiva un assetto organizzativo dei ceti professionali e imprenditoriali che non confliggeva solo con le intenzioni fanfaniane di sostegno all'approccio labour intensive, ma che ben si attagliava, appunto, alla cultura e alla mentalità radicata presso gli operatori.

Ciò perché i processi industriali, che non necessariamente avrebbero dovuto coincidere con la replica di quelli manifatturieri o identificarsi colla prefabbricazione, presentavano una dimensione per «programmi», andando oltre le singole operazioni immobiliari, come testimoniano i cosiddetti «repertori», ma, soprattutto, gli studi condotti negli Anni Settanta per conto del Consiglio Nazionale delle Ricerche, di cui Franco Angeli sarà editore principale.

E, comunque, forse oggi come allora, con corpi di stato assai più leggeri di quelli altrui, come indica la storia di CRAPER, AIRE, ICITE a fronte del CSTB.

D'altronde, il sottotitolo della rivista Prefabbricare, promossa dall'associazione datoriale di settore, era «edilizia in evoluzione»: una evoluzione che, sotto l'egida dell'approccio esigenziale-prestazionale, si presentava come radicalmente innovatrice.

Non dimentichiamo che oggi, all'Imperial College, si ragiona di System Engineering, il grande tema di un tempo, coniugato a Data Science.

Alla luce di quella storia, in Italia ben sintetizzata nella sequela dei «cuore mostra» dei SAIE bolognesi degli Anni Sessanta-Ottanta, è comprensibile una sorta di successivo, lungo, rigetto, persino di oblìo, o almeno di confinamento dell'industrializzazione edilizia all'edilizia industriale.

Esso, peraltro, coincideva anche colla rinuncia a una vera e propria politica industriale e al rafforzamento di tessuti professionali e produttivi frammentati, individualistici, conflittuali, culminante nello «sciagurato» decennio d'oro intercorso tra metà degli Anni Novanta e metà dei primi Anni Duemila.

La (Nuova) Industrializzazione Edilizia

Come non stupirsi, perciò, del grande rilancio del tema che sta avvenendo nel Regno Unito (e a Singapore o a Hong Kong), ma anche in Canada o negli Stati Uniti, addirittura all'insegna di una minaccia millenaristica del «modernizzarsi o perire», avendo come riferimenti la Svezia e il Giappone, non già la Francia o la Germania?

Per comprenderlo, occorre seguire una linea parallela che corre tra le due sponde anglofone dell'Oceano Atlantico determinata a instaurare una sorta di continuità tra sostenibilità, digitalizzazione e industrializzazione, quasi che quest'ultima ne fosse l'evoluzione obbligata e naturale.

Nell'America Settentrionale i business model proposti sono diversificati, passando da società come Project Frog o Plant Prefab, oggetto di investimenti rispettivamente da parte di Autodesk e di Amazon, per arrivare a Katerra, che si annuncia e che si propone come fosse una technology company, anziché un attore convenzionale del sistema delle costruzioni, praticando soluzioni tecnologiche avanzate, a partire dal ricorso all'«intelligenza artificiale».

Non meno importanti sono le sperimentazioni condotte da Alphabet (Google) a Toronto e, in prospettiva, assieme a Lend Lease, nella San Francisco Bay Area, all'insegna del Cross Laminated Timber e affini.

Adrian Forty, comunque, aveva già raccontato come il conglomerato cementizio armato, nella prefabbricazione, fosse sinonimo del «comunismo» dei Khrushchyovka, Plattenbau, Panelák, Panelház.

Si potrebbe dire: dal comunismo al co-housing e al co-working.

Per quanto i modelli siano eterogenei (da uno studioso, come Daniel Hall, classificati secondo tre categorie di graduale radicalizzazione), i comuni denominatori sembrano essere la centralità della piattaforma tecnologica di gestione (ideazione, produzione, assemblaggio e manutenzione) della componentistica edilizia e impiantistica, la cultura del dato numerico come fattore di ottimizzazione e di automazione dei processi (Data Driven), l'integrazione, più o meno esasperata della catena di fornitura, progettazione e permessualistica incluse.

Anche nel versante britannico, con Bryden Wood e Cast, le nozioni non sono dissimili, così come le tassonomie delle sette categorie, dalla «piattaforma» al «telaio», ma anche della «app» di PRISM, ma, in questo caso, in particolare, si pone grande attenzione, anche a seguito dell'attività di commissioni parlamentari dedicate, alla ricezione dei programmi di investimento industrializzati dal lato degli investitori e dei finanziatori, all'attitudine delle compagnie assicurative, ai framework contrattuali tipici degli accordi collaborativi.

In ogni caso, al netto degli interventi sul costruito, per i quali in Italia la sensibilità è maggiore, ma non esclusiva, come negare i benefici che comporterebbe una metodologia basata su incremento della decarbonizzazione, aumento dell'efficienza energetica, abbattimento dei costi, riduzione dei tempi, mitigazione del rischio, soluzione alla scarsità della manodopera qualificata grazie ad automazione e ambiente controllato? Tanto più che la computazionalità smentisce la serialità, o meglio, attraverso le potenzialità combinatorie, la traduce in unicità da mass customization.

È, tuttavia, qui che iniziano a porsi i veri e propri dilemmi che dovrebbero preoccupare gli operatori interessati a una tale trasformazione del mercato.

Sul piano più tradizionale, più «materiale», è innegabile che qualunque «piattaforma aperta», API & CDE-Based, per utilizzare espressioni di tendenza, che cerchi di intermediare o di disintermediare, introduce un principio di integrazione tra committenti, progettisti, produttori, distributori, assemblatori che non pare coerente con lo stato attuale (e passato) del comparto, pur razionalizzato dalla profonda crisi strutturale dell'ultimo decennio.

Sarà, sia pure molto indirettamente, e con tutte le polemiche del caso, il progetto aggregatore voluto da Cassa Depositi e Prestiti e Salini Impregilo uno stimolo o, al contrario, un precedente da scongiurare?

Di là di esso, quali sono davvero le disponibilità degli operatori a «con-fondersi» e a «co-operare», avanzando una autentica strategia industriale?

Se l'Offerta mostrasse davvero tale intendimento, la Domanda, oltre le suggestive ipotesi di additive manufacturing, di robotics e di flying factory, sarà veramente in grado di delineare una politica industriale che garantisca volumi elevati, stabili e distribuiti territorialmente? Per la nuova costruzione, inclusa l'edilizia di sostituzione, o per la riqualificazione, compresa la rigenerazione?

Soprattutto, bisogna domandarsi se la sfida stia su questo piano, non dissimile, benché con tutti gli aggiornamenti, dalla tangibilità rivendicata ancora recentemente dalla FIEC verso il decisore politico comunitario, oppure risieda in una nuova accezione del «prodotto», da intendersi come «servizio», sul piano della «realtà immateriale».

Come si rammentava all'inizio, peraltro, le prime reazioni dei cittadini francesi migrati dalla campagna alla periferia urbana dopo la liberazione, a fronte di cespiti che oggi si scorgerebbero con disapprovazione, furono entusiastiche, nell'identificazione del nuovo prodotto immobiliare, «altamente tecnologico», non solo col «progresso della civiltà urbana», ma anche con i «bisogni», legati anche, come oggi, ai piccoli e ai grandi elettrodomestici.

Ecco che, allorché si prospetta il grande trionfo, non privo di controindicazioni, delle agglomerazioni urbane e delle città intelligenti, «esperienza», «emozione», «vissuto» si pongono come categorie peculiari del prodotto/servizio.

Anche se l'industrializzazione edilizia va ben oltre l'edilizia residenziale, si hanno, dunque, due profili da considerare.

Il primo profilo riguarda i Modern Methods of Construction e l'Off Site Manufacturing, legittimati prepotentemente dai temi della circolarità e dell'ambientalismo, leve formidabili per ottenere il beneplacito dei mercati, se ormai le maggiori corporation procedono, o dicono di farlo, a suon di etica e di socialità.

Il secondo profilo attiene agli stili di vita e alla social innovation, oggi così rilevante, intersecandosi con le strategie adottate dalle technology company, evidenti nella centralità degli assistenti vocali per Amazon e per Google, al fine di rendere la home, non più impegnativamente «smart» o minacciosamente «cognitive», ma serendipicamente «helpful», ma forse anche «social medium» e, dunque, a «interazione naturale», perciò «dispositivo di sorveglianza».

Dobbiamo, perciò, chiederci se il prodotto «giovevole» si fondi su intelligenze centralizzate o distribuite.

E, naturalmente, la casa di Airbnb e l'ufficio di WeWork, alla luce delle rilevazioni effettuate sui propri clienti/utenti, non potranno che essere «disruptive», più che moderni, saranno sconvolgenti, inauditi.

Poco importa che siano Airbnb o WeWork a conseguire l'obiettivo, anziché attori meno recenti come IWG, CBRE o JLL: per gli operatori domestici del settore della costruzione e dell'immobiliare restano i due interrogativi.

Per quanto concerne il primo tema, è urgente che le rappresentanze professionali e imprenditoriali, unitamente alla Domanda Pubblica, riflettano sulle condizioni realistiche di attuazione della nuova industrializzazione edilizia, in particolare, sui canali di investimento e di finanziamento, che rendano praticabile questa modalità di risoluzione dell'«emergenza abitativa» o dell'«emergenza educativa», così come sulla viabilità della riconfigurazione dell'Offerta che rispecchi i criteri poc'anzi delineati.

Per ciò che attiene al secondo punto, si tratta di una sfida molto più impegnativa: se, infatti, per il primo punto, la difficoltà, niente affatto banale, sta nel modificare apparati e assetti inveterati, per il secondo la revisione del prodotto comporta il ripensamento delle identità degli operatori, oltreché la sua effettiva accettazione da parte della Domanda, ancora tutta da verificare.

È palese, pertanto, che la rivisitazione del mercato non possa costituire un passaggio rapido né indolore, a meno che non vi siano classi e ceti dirigenti che agiscano con consapevolezza e lucidità, convincendo associati, dipendenti e iscritti a privilegiare il «nuovo» metodo, ben conoscendo quanto la storia dell'industrializzazione in edilizia abbia vissuto clamorose nemesi storiche.

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