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Dubbio di illegittimità costituzionale sul silenzio-rifiuto della sanatoria edilizia

In un momento in cui la sanatoria ha assunto di nuovo centralità nei procedimenti edilizi (per l’accertamento della legittimità incentivato anche dall’applicazione dei “bonus”), l'autore esamina le ripercussioni di una recente ordinanza del Tar Lazio che ha sollevato una questione di illegittimità costituzionale della procedura di diniego delle domande di sanatoria edilizia, nello specifico quella disciplinata con silenzio-rifiuto dall’art.36 del DPR 380/01 (“accertamento di conformità”)

Una recente ordinanza del TAR-Lazio solleva presso la Suprema Corte questione di illegittimità Costituzionale della procedura di diniego delle domande di sanatoria edilizia. Quella disciplinata con silenzio-rifiuto dall’articolo 36 del DPR 380/01 (più correttamente “accertamento di conformità”).

In un momento in cui la sanatoria ha assunto di nuovo centralità nei procedimenti edilizi (per l’accertamento della legittimità incentivato anche dall’applicazione dei “bonus”) il tema non è irrilevante.

L’Autore ne evidenzia gli aspetti problematici delle ripercussioni pratiche che ciò comporta, analizzando attraverso un percorso ricostruttivo dell’evoluzione dei principi perché, a suo avviso, la questione viene sollevata solo ora ad oltre 36 anni dalla emanazione della norma.


Lo scorso 22 luglio, con ordinanza n. 8854, il TAR-Lazio-Roma ha sollevato questione di legittimità costituzionale relativamente alla previsione di formazione di silenzio-rifiuto sulle domande di sanatoria edilizia (rectius: “accertamento di conformità”) decorsi 60 giorni dalla richiesta previsto dal comma 3 dell’articolo 36 del DPR 380/01.

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Secondo il TAR-Lazio questa disposizione non sarebbe coerente con i principi costituzionali di “trasparenza”, “buon andamento” e “imparzialità” della Pubblica Amministrazione e con la disciplina della legge n. 241/90 del procedimento amministrativo perché non consente al privato di conoscere le motivazioni del diniego e impedisce una congrua difesa e quindi configura un provvedimento tacito immotivato della PA di per sé palesemente e implicitamente illegittimo (non foss’altro per difetto di motivazione).

Perché solo ora?

Potrà sorprendere che questa verifica di costituzionalità intervenga solo ora, per una norma che ha 36 anni di vita.

Sì, perché è vero che l’articolo 36 sta nel DPR 380/01, ma altro non è che la trascrizione – praticamente letterale – dell’articolo 13 della legge n.47/85 (condono edilizio) che per prima gli ha dato vita.

D’altra parte è bene che ci abituiamo a questi ritorni al passato se è vero che nel 2019 la legge cosiddetta “sblocca cantieri” (legge n. 55, all’articolo 5, co.1, lett. b-bis) ha reinterpretato (con effetto retroattivo) l’articolo 9 del D.M. 1444/68 ad oltre cinquant’anni dalla sua emanazione.

 

Una questione di “principio” sopravvenuto

Ad onor del vero va detto però che, a differenza del D.M. 1444/68, la questione che investe l’articolo 36 è questione di principio e che dal 1985 in materia di diritto amministrativo i principi che reggevano la materia hanno fatto molta strada e hanno cambiato il rapporto pubblica amministrazione/cittadino attraverso l’affermazione di un atteggiamento di liberalizzazione e trasparenza sempre più esteso.

 

C’era una volta … solo il silenzio-rifiuto

Quando fu emanata la prima stesura dell’articolo 13 nella legge di condono edilizio infatti era da sempre vigente il principio del silenzio-diniego sulle mancate risposte della Pubblica Amministrazione alle domande dei cittadini; principio che solo dal 1978 era stato inciso per la prima volta con la sostituzione del principio del silenzio-assenso, applicabile però ai soli casi delle manutenzioni straordinarie (articolo 48, comma 3 della legge n. 47/78).

Poi riproposto dall’articolo 8, comma 1 del d.l 23.01.1982, n. 9 (convertito in legge 94/82) limitato però nel tempo (fino al 31.12.1984) e nelle tipologie di opere (per la sola edilizia residenziale)

 

Poi si cominciò ad affermare anche il silenzio-assenso

Un principio giovane all’epoca (parziale e temporaneo) che proprio in quel periodo si stava affermando, ancora residuale (potremmo dire) a fronte del silenzio-rifiuto fino ad allora incontrastato.

Tanto che il Legislatore decise di ri-proporlo proprio nella legge n. 47/85 all’articolo 35 applicandolo alle (sole) domande di condono qualora restassero inevase dopo 24 mesi dalla presentazione (e a condizione fossero istanze “complete” senza richieste di integrazioni e fossero stati pagati oblazioni ed oneri dovuti).

 

Dapprima come rimedio all’inerzia (inefficienza?) delle amministrazioni pubbliche …

Non è però infondato ritenere che questa riproposizione del neonato principio del silenzio-assenso nella legge del condono fosse più un escamotage per evitare l’immobilismo immobiliare e per superare il prevedibile empasse che la valanga di domande di condono avrebbe procurato alle amministrazioni comunali impedendone (o rallentandone) il tempestivo rilascio. Come in effetti poi è avvenuto.

Il silenzio-assenso era ancora provvedimento eccezionale (come eccezionale doveva essere la legge del condono) e, direi quasi, sperimentale. La sporadicità e la diversità delle applicazioni lo dimostrano.

Pensato più come rimedio all’inerzia delle amministrazioni pubbliche (e a salvaguardia delle ricadute economiche) che come un principio di liberalizzazione.

Da quella data in poi il principio del silenzio-assenso si è sempre più affermato nell’ordinamento (estendendosi dall’edilizia anche ad altre attività) e oggi permea diffusamente l’attività autorizzatoria della pubblica amministrazione.

 

Divenuto poi principio fondante di trasparenza e liberalizzazione

Tanto che, nella citata ordinanza, il TAR-Lazio fa una puntuale disamina dei residui casi (ormai sporadici) di attuale sopravvivenza del silenzio-rifiuto.

Tutta la restante attività amministrativa opera, oggi, col silenzio-assenso divenutone principio informatore.

 

Liberalizzazione e trasparenza: un binomio in continua evoluzione

L’evoluzione concettuale sviluppatasi negli anni novanta ha fatto sì che i principi di liberalizzazione e trasparenza andassero di pari passo e, dunque, se il perseguimento di una sempre maggiore liberalizzazione ha portato all’affermazione del principio del silenzio-assenso, parallelamente si è affermato quello della trasparenza.

La legge 241/90 (ripetutamente emendata e integrata in tal senso) ha introdotto ex novo la figura del “Responsabile del procedimento” quale soggetto garante dell’adempimento finale e ha imposto l’obbligo di conclusione del procedimento amministrativo tramite:

  • o il silenzio-assenso;
  • o il diniego espresso.

e disponendo comunque che, in caso perdurasse invece un silenzio non motivato, questo costituisse sì diniego implicito, ma il privato potesse adire ad una forma di tutela (per così dire) riparativa per conoscere le motivazioni con un atto esplicito tramite il possibile ricorso ad un commissario ad acta.

Il principio fondante è quello che il privato che fa un’istanza alla P.A. ha diritto ad avere una risposta formale, non foss’altro che per poter tutelare i propri diritti tramite un ricorso fondato sui motivi di diniego; se i motivi di diniego restano ignoti, l’eventuale ricorso non può che essere generico e brancolare nel buio (sia per il privato che lo attiva che per il Giudice che deve decidere); alla salute della certezza del diritto tutelata dal nostro Ordinamento.

Anche perché il privato, noti i motivi del diniego, ben potrebbe anche condividerli e non fare ricorso.

 

I rimedi del passato: il commissario ad acta

Così già dal 1993 (col d.l. n.398/1993 poi convertito nella legge n.493/93) il Legislatore aveva confermato che il silenzio sui permessi di costruire costituisse implicito rifiuto, ma, ai fini di perseguire maggiore trasparenza, lo aveva affiancato con la possibilità del ricorso ad un commissario ad acta da nominarsi da parte della Regione che provvedesse in forma espressa a formalizzare ciò il comune aveva omesso.

A dire il vero era comunque una tutela incompleta in quanto anche il ricorso al commissario ad acta avrebbe potuto concludersi con un ulteriore silenzio immotivato (pur improbabile), ma comunque era meglio di niente.

Anche perché a questo punto l’inadempimento avrebbe provocato la legittima richiesta di risarcimento danni con riflessi patrimoniali sugli inadempienti.

Questa procedura (diciamo così) di “garanzia” (con poche irrilevanti modifiche) fu inizialmente recepita anche nella prima stesura del DPR 380/01 (articolo 21) finché nel 2011 il Legislatore cambiò impostazione con la previsione del silenzio-assenso anche per il permesso di costruire (introdotta dal d.l. 13.05.2011, n. 70 – Decreto Sviluppo).

 

Fin dall’origine una diversa garanzia di trasparenza …

Analoga tutela non è mai esistita però nei confronti degli “accertamenti di conformità”.

Sia nell’originario impianto della legge n.47/85 che, poi, nella legge n. 439/93 non esisteva simmetria tra concessione edilizia (oggi permesso) e accertamento di conformità, visto che per il secondo (cosiddetto “permesso in sanatoria”) la tutela del ricorso al commissario ad acta non era contemplata.

A maggior ragione l’asimmetria si evidenzia da quando il permesso abilitante si ottiene per silenzio-assenso. E per quello in sanatoria resta il silenzio-rifiuto.

 

… motivata forse dalla diversità della finalità degli atti

Anche se nel gergo comune vengono impropriamente chiamati entrambi permessi, in realtà si tratta di due atti amministrativi similari ma con finalità diverse, anche funzionalmente collocati in due diversi titoli: il primo (Titolo II) che tratta dei titoli con funzione di autorizzazione alla messa in opera, il secondo (Titolo IV) che tratta dei titoli con funzione sanante, ovvero di legittimazione ex post quando la messa in opera è già avvenuta.

Non a caso il Legislatore non li chiama con lo stresso nome: il primo “permesso” e il secondo “accertamento di conformità”.

Per cui non si può pretendere una completa corrispondenza di procedimento tra i due istituti (abilitante ex-ante l’uno e legittimante ex-post l’altro).

Ciononostante Il TAR-Lazio ritiene che la diversità di funzione dell’atto finale (autorizzativo o sanante) non giustifichi la mancanza di motivazione espressa in caso di diniego anche perché il silenzio potrebbe non essere motivato da un contrasto normativo, ma anche semplicemente da una difficoltà operativa della Pubblica Amministrazione (inerzia o inefficienza).

E l’inerzia non può tradursi in diniego.

 

Le conseguenze di un diniego non motivato

Se il diniego assumesse (così come oggi assume) efficacia dal mero silenzio (confermativo dunque della impossibilità della sanatoria) le conseguenze – sul piano amministrativo, patrimoniale e anche penale – potrebbero essere ingiuste e pregiudizievoli.

Non solo: la mancanza di motivazione incide anche più o meno direttamente sui rapporti privato richiedente/professionista incaricato, perché potrebbe anche far emergere responsabilità professionali con conseguente potenziale contenzioso sul corrispettivo della prestazione.

 

L’attualità della questione conseguente all’evoluzione dei principi

L’evoluzione delle modalità operative della Pubblica Amministrazione ha messo progressivamente in luce le carenze del sistema che pur preesistevano fin dall’origine.

Per questo, anche se rilevata a distanza di tanti anni, la questione di legittimità costituzionale appare in effetti non infondata.

E forse si pone oggi con maggiore evidenza proprio perché è la nuova concezione dei rapporti cittadino/Stato a renderla palesemente inadeguata all’interpretazione attuale dei principi Costituzionali.

Vedremo come provvederà il Legislatore dopo il responso della Suprema Corte, in caso di riconoscimento della illegittimità costituzionale della norma attuale.

Direi che non è proponibile l’estensione del silenzio-assenso ai permessi in sanatoria; troppo delicata è la valutazione sottesa all’accertamento di conformità. Si ricorrerà reintroducendo il commissario ad acta?

E’ presto per dirlo.

Per ora il tema resta aperto e bene farebbero comunque le amministrazioni comunali a non lasciare decorrere inutilmente il temine dei 60 giorni senza un responso formale e motivato.

A beneficio di quella trasparenza e buon andamento che il TAR-Lazio richiama nella sua ordinanza.

Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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