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Forma e dimensioni

Un viaggio poetico e concettuale tra forma e desiderio, eros e conoscenza, mito e materia: dalle unioni indivisibili dell’amore alla feroce vitalità dell’eroe, dall’eco di Persefone al patto col diavolo, sino al castello della cultura e al senso delle proporzioni. Sei riflessioni che interrogano anima, corpo e tempo, intrecciando pensiero e immaginario con l’architettura e il progetto come strumenti critici per abitare consapevolmente il presente.

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1+1=1

1+1=1

“Uno e uno fa uno –

basta con il due –

va bene per le scuole –

ma per la scelta interiore –

…”

Indivisibile se non con sé stesso l’uno trova ancora e sempre la sua inossidabile unità: anche se labbra e occhi sono plurali, bacio e sguardo (da essi animati) sono singolari. Cosa elude? Come è inabile a sondare? Quando emerge? Forse è una prigione che soffoca, quando l’essenza che sperimenti è l’innamoramento? Ti sporgi, ti stringi, cerchi di ottenere… e poi sempre ti stupisci vero? Una briciola è pura ricchezza. Nel buio in cui ti vedo meglio, in cui non serve altra luce, brilla come rugiada e forse non è troppo tardi per toccarti…

Sono parole, ancor oggi sfidanti e accecanti, della poetessa statunitense Emily Dickinson, pubblicate tra 1890-1896 dopo la sua morte. Forse solo l’accettazione e la comprensione della “difference” permette di scoperchiare quel vulcanico universo in cui “due è troppo vasto perché l’anima lo contenga” e tutto appare come “uno zero più ampio”.

“One and One – are One-

Two – be finished using –

Well enough for Schools –

But for inner Choosing –

…”

 

L’immagine è una famosa acquaforte e acquatinta del 1969 di Man Ray da “Electro-magie”.
L’immagine è una famosa acquaforte e acquatinta del 1969 di Man Ray da “Electro-magie”. (Marcello Balzani)

  


5

La vita è un feroce assalto

Il seguito moderno della storia di Ulisse diventa uno straordinario esperimento lirico e lessicale, rendendo possibile un rigenerarsi del racconto più bello e più antico del mondo occidentale.

“L’anima è una lingua di fuoco, lecca con desiderio
il corpo oscuro della terra, che sotto le carezze
si fa più piccola, sviene, come nel bacio la fanciulla”

(XVI, 1340-1343)

“La mano lucente scivola sui suoi capelli lustri,
lambisce tempie, orecchie, guance, sfiora le labbra,
indugia sulle palpebre che fremono come ali,
poi risale e striscia fragrante chioma...”

(XVIII, 1123-1126)

Ulisse torna ad accarezzare il respiro della vita e i “cuori prendono fuoco”.

Ogni cuore diventa un mare e ogni mare è inondato dal tempo. “Il corpo matido” sente le “labbra che fumano”, sorridono, anche nel sonno, perché la “vita è un feroce assalto” e sarà possibile “conciliare l’ingannevole desiderio con l’azione assennata”? Forse con l’amore, quando “uomo, donna, dio, belva si mescolano nel sangue” e “accarezzo con tenerezza indicibile” il segreto. Perché ogni vita è un segreto. Ricordi? Quando ti batteva il cuore “come ad un dio giovane”? Senti? È lì: “il muschio denso dell’amore stilla dalle sue dita” e il “corpo fresco femminile del mare geme di piacere” (VII, 1241-1242). Nell’erotica sera i corpi si eccitano in segreto: “così nudi. Confusi in uno, dormono i due corpi” (XIV, 731) e ciascuno “sente il petto caldo della vita che tocca il suo petto, ne sente il fiato profondo, il profumo, la dolcezza” (XIV, 898-899).

È l’Odissea di Nikos Kazantzakis (1883-1957), uno straordinario poeta e scrittore cretese, traduttore in greco della “Commedia” di Dante, che passerà gli anni dal 1925 al 1938 a creare la sua opera infinita, il poema dei poemi, il “seguito moderno”, dopo Omero, della storia di Ulisse. Sono 33.333 versi in XXIV canti. La lingua greca, panellenica di Kazantzakis, è in decaeptasillabi (otto battute e 17 sillabe senza rima): un crogiuolo di parole da cui vengono plasmati gioielli fusi dal lessico di ogni cosa, tutto tradotto mirabilmente in italiano da Nicola Crocetti.

Non vi racconterò la storia. Provate ad immaginare un poeta che scrive di Ulisse dopo aver letto Dante, aver visto il sogno del Rinascimento, conosciuto Shakespeare e Goethe, tradotto Cocteau e Pirandello, ma anche García Lorca, Jiménez e Alberti. Il periodo in cui nasce l’Odissea moderna è uno dei momenti folli del mondo, dove le Avanguardie dimostrano che l’impossibile si può realizzare, ed oggi, dopo quasi cent’anni e con tutta la nostra tecnologia digitale, ancora non lo abbiamo compreso.

Quasi cinque anni fa, durante un incredibile Natale, ho iniziata a leggerla perché la Crocetti Editore aveva deciso di portare in libreria questo straordinario regalo, che anch’io ho ricevuto nelle mani (splendente come una costellazione!) per farmi ricordare quanto gli eroi omerici esistano ancora.

E più leggo e più mi sento come lui: “disteso sulla roccia, Ulisse dorme come un fiume, le grandi mani ardenti aperte traboccano di stelle” (XIV, 284-285) e “brillano grossi e folti in cielo i nidi delle stelle, brillano grandi pensieri eretti nella feroce testa” (XII, 1312-1313). “La luce sviene sulla terra, gli alberi hanno i brividi. La notte piomba e lecca la terra, spuntano le stelle” e aspetto anch’io “la peluria dell’alba”.

  Penso a mio padre. A come avrebbe passato quel Natale con il libro di quasi ottocento pagine dalla costa e la copertina bianca con la grande “O” arancione, che chiama da quel ripiano della libreria dove metteva le sue cose amate da leggere. A come si sarebbe gustato il sapore della pipa ad ogni verso mentre la gatta si accovacciava sul tavolo di casa al fianco del braccio, sopportando il profumo del Dunhill.

Poi mi sono tuffato e ho cominciato a nuotare.

E “anch’io ho sentito i seni gonfi delle onde quando si sollevano palpitando”.

“… oltre il pianto e i baci, oltre lo spazio e il tempo,
nell’effimera immortalità del batticuore umano”
(XVII, 83-84)

 

Due Bronzi di Riace, conservati al Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria.
Un mio scatto del fianco di un dei due Bronzi di Riace, conservati al Museo archeologico nazionale di Reggio Calabria. Nel bronzo di duemilacinquecento anni fa il “respiro della vita” sembra ancora “prendere fuoco”, perché sempre “la vita è un feroce assalto”. (Marcello Balzani)

  


4

Le porte del Castello di Barbablù

Il Castello di Barbablù diventa metafora della cultura contemporanea: un luogo di soglie da oltrepassare, dove ogni porta rappresenta una sfida interpretativa. In un contesto segnato da rivoluzioni tecnologiche e ambientali, la cultura – come l’architettura e l’innovazione – richiede consapevolezza, luce e strumenti critici per essere attraversata.

GIUDITTA
Vedo grandi porte sbarrate.
Sette nere porte sbarrate.
Perché sono chiuse le porte?

BARBABLÙ
Perché nessuno penetri qui con lo sguardo
.

GIUDITTA
Apri, apri!
Aprile, per amor mio.
Ogni porta si spalanchi!
Che il vento possa entrare.
Che il sole possa entrare.

Ricordi le stanze del Castello di Barbablù? Perché hai quell’irresistibile desiderio di aprirle tutte?

La chiave rossa possiede un potere così seduttivo nell’emergere dal contesto. Attende la verità. George Steiner nel 1971, in anni di rivoluzione sociale e culturale, immaginò questa metafora per scrivere di cultura e del sempre difficile rapporto che con essa si instaura. Oggi, in un Presente denso di sfide tecnologiche ed ambientali, il Castello di Barbablù è sempre al suo posto, più potente che mai. La cultura è ricerca.

Lo è l’idea stessa come l’ipotesi (impraticabile) di adottare una “teoria della cultura operante in assenza di un dogma o di un imperativo”, di una mitologia attiva o di una struttura simbolica.

Siamo costretti ad aprire tutte le porte del Castello (che ricordano quelle del corridoio tecnologico finalizzato all’innovazione descritto da Joseph Schumpeter), perché “ci sono” e perché chiedono di non essere tradite. Poi non basta avere la chiave (interpretativa). Aperta la porta devi accendere la luce e la lampada che hai con te, come ci ricorda Eric Kandel può inquadrare solo qualcosa e sarai tu a deciderlo con la capacità e la consapevolezza che porti con te.

Il Castello è quello immaginato da Charles Perrault nella sua fiaba del 1697. Le parole sono tratte dal libretto “A kékszakàllù Herceg vara” scritto da Béla Balázs per l’omonima opera di Béla Bartók del 1911 nella traduzione di Giorgio Pressburger. L’illustrazione, adattata cromaticamente, è quella di Gustave Doré del 1862. Il libro di George Steiner, “Nel Castello di Barbablù. Note per la definizione della cultura”, lo trovate edito da Garzanti.

  

Barbablù e il famoso mazzo di chiavi delle porte del castello illustrato da Gustave Doré per le fiabe di Charles Perrault. Il rosso sulla chiave è il mio.
Barbablù e il famoso mazzo di chiavi delle porte del castello illustrato da Gustave Doré per le fiabe di Charles Perrault. Il rosso sulla chiave è il mio. (Marcello Balzani)

   


3

Dimmi che sto vivendo il futuro…

Il mito di Persefone, così legato al volgere delle stagioni, diviene con le stupende parole della poetessa Luise Glück un percorso all’interno del tempo della vita e del suo trasformarsi e maturare. Un percorso in cui tempo e corpo, anima e natura, femminile e maschile, si intrecciano e prendono incessantemente forme diverse.

 

“Il compito era innamorarsi.
L’autore era femmina.
L’ego doveva essere chiamato anima.”

È nata errante, esistenziale. Forse nel suo nome due nomi, due misteri. Quello visibile, fertile, emergente come il grano.

E quello ctonico o meglio catactonico, sotterraneo, profondo sotto la “terra umida”. Persefone è Kore, fanciulla per antonomasia. Rapita, drogata e stuprata da Ade, poi sposa, in quella hierogamia, in quel «matrimonio sacro» tra un dio e una dea. Lei, figlia di Demetra, della «terra-madre». Lui, il rapitore, il «non-veduto», cronide al pari di Zeus, signore assoluto dell’oltretomba. “Senti questa voce? È la voce della mia mente; ora non puoi toccare il mio corpo. È cambiato una volta, si è indurito, non chiedergli di rispondere di nuovo.”

Perché “inverno” è così simile a “inferno”? Perché sono così lontane le “costellazioni d’estate”? Perché le “nuvole trafitte” sembrano “ferme linee d’argento”? E le “vie dei fiumi” divengono “vene di mercurio”? L’anima assume “forma diversa” e appare un “senso di colpa”? Vuoi morire?

Luise Glück, poetessa statunitense Premio Nobel per la Letteratura, scrive “Averno”. È una collezione di poesie che sono (tutte insieme) un puro “canto a Persefone”, che è la personificazione del dilemma/conflitto, così eternamente femminile, tra amore/morte e solitudine/desiderio nel ciclo naturale delle stagioni che il Ratto di Prosperpina (nome latino di Persefone) rappresenta.

Luise Glück ci ricorda che “una volta che la terra decide di non avere memoria il tempo sembra in un certo senso senza senso” mentre lo spazio appare come una “cartina senza un incrocio” e l’anima viene “frantumata” dalla “tensione di cercare di appartenere alla terra”. Bellissima è l’immagine della neve che comincia a cadere sulla superficie di tutta la terra in cui la poetessa ci ricorda: “Bianco della dimenticanza, della profanazione – Nevica sulla terra; il vento freddo” dice che “Persefone sta facendo sesso all’inferno.”

Ade percepisce la fanciulla (l’adolescente dispettosa di Nathaniel Hawthorne in “A Wonder Book Tanglewood Tales”) anche come una assaggiatrice, una fiutatrice: “Se hai un appetito, Ade pensò, ce li hai tutti”; e offre a Persefone il frutto del melagrano con i suoi succhiosi semi (così simili a quelli dell’oppio) che riconducono al mito delle stagioni e della trasformazione: “la ragazza non ritornerà mai, ritornerà donna, cercando la ragazza che era.” Forse il passaggio tra buio e luce è solo un’apparenza, un’intuizione raggelante: “ … non c’era la notte. La notte era nella mia testa - morte, marito, dio, sconosciuto”.

“Averno”, un volume tutto di liriche superlative straordinariamente tradotte da Massimo Bacigalupo ed edito ora da Il Saggiatore, per me è stato una scoperta: “Dimmi che sto vivendo il futuro, non ti crederò. Dimmi che sto vivendo, non ti crederò.”

Leggetelo! È impietoso, violento, fatto di noi, della materia e dello spirito di cui siamo plasmati. È femminile, intimo, riverberante!

“Siamo, ciascuno di noi, quello che si sveglia prima,
che si scuote prima e vede, là nel primo chiarore,
lo sconosciuto.”

 

Due sculture femminili di Chie Shimizu, un’artista giapponese che ha scelta il tema dell’esistenza umana e delle forme che la compongono per sviluppare il suo percorso: “la ragazza non ritornerà mai, ritornerà donna, cercando la ragazza che era.
Ho elaborato e composto due sculture femminili di Chie Shimizu, un’artista giapponese che ha scelta il tema dell’esistenza umana e delle forme che la compongono per sviluppare il suo percorso: “la ragazza non ritornerà mai, ritornerà donna, cercando la ragazza che era. (Marcello Balzani)

  


2

Quale patto col diavolo avete stretto oggi?

Nell’incessante frastuono digitale del “troppo pieno” il dominio dell’inatteso, ha il potere di disperdere ogni empatia, giustificando richieste di performance che modellano il corpo e l’anima come il cuore. L’antico mito del Faust appare ancora perfettamente integro ed è capace di porre alla nostra coscienza (individuale e collettiva) le stesse domande fondamentali.

“È perché sono riuscito ad introdurmi nella tua intimità”

Vieni dove il piacere ti aspetta.

Sarebbe un piacere pagato a caro prezzo.

Sarebbe una seducente dolcezza. Un’ingiusta schiavitù. La felicità. Atroce infelicità. Taci, taci: non una parola di più. Ora mi convinco che la gelosia crea fantasmi. Amo una donna. Ed è questo che definisci impossibile? Se tu sapessi chi è! Colei che i tuoi occhi vorranno, il tuo cuore l’avrà. Sei impallidito. Ormai penso che l’anima debba avere scarso valore se non mi dà in cambio la donna che amo. Il mio cuore, guarito dalla febbre del sapere, non dovrà, per innalzarsi, chiudersi a nessun dolore. Voglio godere, nel mio intimo io, ciò che la sorte ha concesso a tutta l’umanità. Adesso un tuo sguardo, una parola tua, interessano più di tutta la sapienza del mondo. Pensare, pensare…! Il pensiero rovina il piacere ed esaspera la pena. Di più non merita la tua ipocrita umiltà. E io saprò punirti. Ingannatelo con dolci immagini di sogno, calatelo in un mare di illusioni! Il labbro imperioso di una fascinatrice per abbeverarsi alla sorgente più dolce dei sensi. In quale incantesimo sono capitato… tutto palpita. Sembra dunque che siamo costretti a peccare…

Sono le variazioni sul mito di “Faust” a cura di Paolo Scarpi per la Marsilio editore. Dalla” Storia di san Cipriano e di Santa Giustina” di Eudocia Augusta a Johann Spies. Dalla “Tragica storia” di Marlowe a “Il Mago prodigioso” di Calderón de la Barca. Dal titanico “Faust” di Goethe alla graziosa ballerina Mefistofela del “Faust danzato” di Heine; fino al bellissimo “Mio Faust solitario” della fiaba drammatica di Valéry. Un indefinibile immenso mare in cui la leggenda del patto col diavolo trova, nella ricca introduzione di Scarpi, anche Bulgakov e Mann collegati al “Neo Faust” manga di Osamu Tezuka e Al Pacino de “L’Avvocato del Diavolo”, che ripercorrono i primi Faust di Méliès, Murnau e poi di René Clair.

Nel frastuono assordante del “troppo pieno” quotidiano il mito di Faust sembra ormai una favola per bambini. Ma non è così. Incessantemente stringiamo (desideranti) questo patto col diavolo che è in noi stessi.

In ogni accecante istantaneo si ripete il bisogno di riconoscersi dentro e fuori la gerarchia sociale che classifica peccatori e santi. La tendenza neotenica dell’eternamente giovane rende attualissimo il Faust (basta scorrere sui social l’abuso del ringiovanimento sistematico che si compie attraverso l’intelligenza artificiale in ogni scenario più o meno realistico).

E il dominio dell’inatteso (che disperde ogni empatia) giustifica richieste di performance che modellano il corpo e l’anima come il cuore. Faust è integro e pone ancora le stesse domande fondamentali. Leggetelo e ascoltatelo.

 

Giovanni Gastel. Faust o Faustina,
É una mia rielaborazione grafica di una famosa immagine del grande fotografo di moda Giovanni Gastel. Faust o Faustina, diavolo o diavolessa poco importa le immagini da sogno e il mare di illusioni definiscono il contesto in cui il “patto” si stringe. Basta scorrere immagini e video proposti con “obesa assuefazione” nei social più collettivamente partecipati, per comprendere come questo straordinario mito sia ancora freschissimo in ogni sguardo. (Marcello Balzani)

 


1

Forma e dimensioni

In un mondo digitale dove basta muovere due dita per ingrandire o per ridurre tutto, dove è normale immaginare la scalatura infinitamente piccola o immensamente grande di ogni cosa, si perde la cognizione del ruolo del contesto. Il contesto non è solamente uno sfondo in cui le forme viventi si agitano. Il contesto ambientale rende possibile la vita nelle forme e nelle dimensioni che ci circondano.

Perché la forma e le dimensioni di un essere umano non sono connesse all’idea di ingrandirsi (come una statua) o di ridursi (come un soldatino)? Sembra un sogno quello strano “effetto Alice” o “effetto Gulliver” con cui ci piace giocare immaginando che le nostre proporzioni siano correlate alle dimensioni come in una “taglia” o attraverso una “scala”.

La verità è che la nostra forma e le nostre dimensioni (che tanto ci piacciono e ci identificano) vengono modellate (e misurate) dalla gravità, dalla viscosità delle membrane, dalla tensione superficiale… tutte forze fisiche che ci collegano all’ambiente per il quale ci siamo adattati ed evoluti. Appena la vita si ingrandisce un po’ ci si accorge che le forme delle zampe dell’elefante o la struttura della balena prendono il sopravvento. Quando ci riduciamo di qualche decina di volte le zampette di un insetto risultano le uniche possibile per muoversi in un questo nostro contesto ambientale. Capisco che il muovere due dita possa essere fantastico e che alcuni supereroi dei fumetti o del cinema degli effetti speciali ci abbia abituato a credere che il fattore dimensionale operi come una lenta di ingrandimento o di riduzione digitale da fotocopiatrice, ma tutto ciò non è possibile.

Sarebbe molto più interessante chiedersi incessantemente perché forma e dimensioni di ciò che ci appartiene di più caro e di ciò che ci circonda pulsante di vita esprima in quel modo (e unicamente in quel modo) la propria afferenza al contesto.

Meno poetico … ma sicuramente più biologicamente coerente.

 

Fotografia di Josef Koudelka su “Praga 1968”, ripresa in una recente mostra a lui dedicata all’Instituto Moreira Salles di San Paolo.
L’immagine è un mio scatto di una famosa fotografia di Josef Koudelka su “Praga 1968”, ripresa in una recente mostra a lui dedicata all’Instituto Moreira Salles di San Paolo. (Marcello Balzani)

  


Dalla rubrica «Marcello Balzani: tra Parola e Immagine»

C’è un numero che, più di altri, incarna l’idea di equilibrio e compiutezza: sei. È il primo numero perfetto, perché somma dei suoi divisori (1, 2, 3), ma è anche la metrica dell’esametro omerico, che ha guidato per secoli il racconto del viaggio, del mito, dell’umano.

A questo numero si ispira la struttura di “Perfetto Sei”, una rubrica che raccoglie i testi di Marcello Balzani come pensieri in cammino, intrecciati a immagini e citazioni che non illustrano, ma evocano, non spiegano, ma interrogano.

Il titolo è anche un gioco di specchi: si può leggere come “Sei perfetto”, allusione alla somiglianza divina dell’essere umano, fatto — secondo la tradizione — a immagine di Dio. Un invito, forse, a riscoprire nel frammento la traccia di un’armonia nascosta.

Ogni articolo della rubrica ospita progressivamente sei pensieri. Sei come unità compiuta, come sequenza che diventa ciclo. Quando l’articolo si completa, ne nasce uno nuovo. E ogni nuovo inizio si pone in cima alla serie, come il primo passo di un nuovo viaggio. L’intero progetto si dispiega così in una serie aperta di cerchi perfetti, ognuno con il proprio tema originario e la propria traiettoria di senso.

PERFETTO SEI

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