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Il recupero delle strutture in calcestruzzo in ambiente marino: Il caso del Ponte di Vivara a Procida

Il presente articolo analizza il tema del recupero del calcestruzzo in ambiente marino e specifica i metodi di indagine e le azioni intraprese per consolidare il ponte di Vivara a Procida.

Il presente articolo analizza il tema del recupero del calcestruzzo in ambiente marino e specifica i metodi di indagine e le azioni intraprese per consolidare il ponte di Vivara a Procida. L'isola di Procida nasce dall’attività eruttiva di cinque vulcani; l'immersione parziale e le frane lungo la sua parte sud-est ha dato luogo all'isola di Vivara, caratterizzata da una configurazione a mezza luna, particolare che richiama l'evoluzione dell'antica struttura vulcanica. Il collegamento tra Procida e Vivara è realizzato mediante un ponte costruito nel 1957, con una struttura tipica dei viadotti, costituita da un sistema di travi prefabbricate appoggiato su pulvini in cemento armato e pilastri in calcestruzzo, e con un sistema di fondazioni a plinti.
L'avanzato stato di deterioramento aveva colpito la capacità portante; pertanto è stato necessario realizzare un intervento di recupero e adeguamento sismico tecnologico che hanno ripristinato la sua funzionalità. Nell’articolo si illustra la metodologia utilizzata per sviluppare il piano per le indagini conoscitive, le scelte progettuali e dei materiali utilizzati, sulla base della legislazione più recente e la ricerca sulla durabilità delle strutture in calcestruzzo armato, gettato in opera e precompresso, e tenendo conto dell’'esposizione agli agenti aggressivi di origine marina.
 
Introduzione
L’isola di Procida è, per dimensione territoriale (3.5 Kmq), la terza isola della Provincia di Napoli insieme alla vicina Ischia ed a Capri; situata a nord della Città di Pozzuoli è integrata nel sistema territoriale e geologico dei Campi Flegrei. L’isola ha avuto origine, circa 25.000 anni addietro, dall’eruzione di cinque diversi vulcani, oggi inattivi ed in gran parte sommersi, le cui residuali conformazioni definiscono il territorio costituito quasi esclusivamente da formazioni di tufo giallo napoletano. La parziale immersione ed il franamento del versante sud orientale del più antico vulcano, causato dalle imponenti mareggiate provocate dai venti di Libeccio e Scirocco, hanno dato origine all’isolotto di Vivara (0.32 kmq), caratterizzato dalla peculiare configurazione a mezza luna che disegna parte dell’andamento dell’antico edificio vulcanico, completato a terra dal promontorio di Santa Margherita, nel centro del quale si sviluppa il meraviglioso specchio d’acqua chiamato Golfo di Genito.
Vivara è un sito ad alto valore ambientale ed archeologico, dichiarato Riserva Naturale Statale è inserito nell'ambito del programma comunitario «Natura 2000», secondo i princìpi contenuti nelle Direttive CEE “Uccelli” e “Habitat”. La valenza naturalistica ha da sempre determinato l’utilizzo del territorio, tant’è che già in età romana l'isola veniva chiamata con il nome di Vivaria, in seguito diventato Vivarium, denunciando l’originale funzione di vivaio marino.
Il collegamento tra l’isola di Procida e Vivara è costituito da un ponte in calcestruzzo armato costruito nel 1957 dalla Cassa per il Mezzogiorno, per alloggiare la tubazione dell’acquedotto campano che, dopo aver attraversato Vivara seguendo un percorso sotterraneo, si immerge e raggiunge l’isola di Ischia.
 
Il recupero del Ponte di Vivara
Nel 2010 Eniacqua Campania s.p.a. ha realizzato l’intervento di recupero e risanamento delle strutture del ponte che evidenziava uno stato di avanzata fatiscenza tecnologica e strutturale, mettendo a rischio la funzionalità idraulica e determinando un pericolo per la pubblica e privata incolumità che aveva indotto le amministrazioni competenti già nell’anno 2000 ad interdire la navigazione sottostante e l’accesso al ponte, di fatto isolando Vivara e destinandola ad un progressivo stato di abbandono.
 
Il rilievo dimensionale e materico
Il ponte si compone di nove campate (sette a mare e due a terra), di luce variabile tra 12.65 e 25.60 mt, ed è costituito da un impalcato realizzato da due travi in calcestruzzo armato precompresso (c.a.p.) affiancate, sulle quali poggia un sistema di beole in cls. amovibili, superiori ed inferiori, che rappresentano rispettivamente il piano carrabile e la chiusura verso il mare.
All’interno dell’intercapedine è alloggiata la tubazione in acciaio ? 450 dell’acquedotto a servizio dell’isola di Ischia, poggiata ad intervalli regolari su baggioli disposti in corrispondenza dei traversi in c.a.o. di collegamento.
Le travi principali sono costituite da due travi a doppio T in c.a.p. di altezza h=140 cm., semplicemente poggiate sulle pile intermedie mediante un sistema di pulvini in calcestruzzo armato in opera (c.a.o.).
Le pile sono costituite da una coppia di pilastri a sezione circolare di diametro ? 630 mm., connessi in testa dal pulvino in c.a.o. ed al piede dal plinto di fondazione.
Le fondazioni sono di tipo diretto ed isolato, avendo sfruttato le ottime caratteristiche meccaniche del banco roccioso su cui sono impostate; inoltre la particolare forma circolare dei plinti minimizza la superficie incidente con le correnti marine nelle diverse direzioni, diminuendo la superficie di attrito dei filetti fluidi che schematizzano le suddette correnti.
I plinti hanno una sezione circolare di diametro d=400cm per uno spessore h=300 cm ed evidenziano un allargamento inferiore di diametro d=600 cm per uno spessore h= 150 cm.
Il sistema fondale è completato dai due plinti disposti sotto le due ultime pile verso terra che non essendo immersi hanno forma rettangolare.
Gli appoggi di estremità sono invece costituiti da due spalle in c.a.o. in opera di dimensioni ciclopiche, direttamente fondate sul sottofondo roccioso.
L’impalcato verso l’isola di Procida prosegue, dopo la spalla, mediante un sistema di telai paralleli costituiti da travi e pilastri in c.a.o. su cui è disposta una soletta in c.a.o. Il pilastri sono fondati direttamente sulla scogliera.
 
Lo stato di conservazione
Nel corso dei primi sopralluoghi, via terra e via mare, finalizzati alla valutazione dello stato di conservazione delle strutture del ponte è stato possibile osservare che gli elementi costruttivi versavano in una condizione di avanzato degrado tecnologico, determinato dall’aggressione dell'ambiente marino fortemente caratterizzato dalla presenza di cloruri e di elevate percentuali di solfati, provenienti dall’attività vulcanica della caldera dei Campi Flegrei.
La combinazione dei fenomeni di carbonatazione, attacco salino dei cloruri e formazione di ettringite secondaria, aveva determinato la diffusa condizione di degenerazione materica, incidendo negativamente sulle caratteristiche di resistenza delle strutture.

Le travi in c.a.p.
evidenziavano un profondo stato di degenerazione materica, con particolare concentrazione all’intradosso delle campate centrali, determinato dall’ossidazione delle armature e dall’espulsione dei copriferri.
Le patologie erano state aggravate dall’applicazione, nel corso di precedenti interventi di consolidamento, di piatti in acciaio all’intradosso che, scarsamente protetti da spessori di calcestruzzo, avevano favorito la fessurazione e la penetrazione degli agenti aggressivi.
I pulvini risultavano le strutture maggiormente degradate per effetto delle patologie connesse alla carbonatazione ed alla formazione di ettringite secondaria. I fenomeni di sgretolamento del Cls., di ossidazione delle armature, di espulsione dei copriferri e riduzione delle sezioni resistenti, coinvolgevano spessori molto profondi delle strutture.
Il sistema dei pilastri, benché assoggettati a cicli di bagnatura ed asciugatura, evidenziavano uno stato di conservazione molto migliore delle altre strutture in elevazione perché probabilmente risanati di recente mediante interventi di protezione superficiale.
 
 
I plinti di fondazione, completamente immersi ed assoggettati all’effetto del moto ondoso e delle correnti marine, non evidenziavamo fenomeni degenerativi dei materiali ma erano generalmente interessati da profondi scavernamenti al piede che producevano un’incipiente condizione di instabilità e la parzializzazione delle superficie di trasmissione dei carichi al suolo con conseguente aumento delle tensioni.
Le spalle ciclopiche, assoggettate a cicli di bagnatura ed asciugatura, erano affette da patologie di carattere superficiale di attacco salino ed ossidazione, evidenziando diffusi fenomeni di distacco del copriferro per effetto dell’ossidazione delle armature.
Le travi, i piastri e la soletta in c.a.o. costituenti il sistema di telai a terra si trovavano in uno stato di avanzato degrado per effetto della combinazione dei fenomeni di carbonatazione, degli attacchi salini, dell’insufficiente spessore del copriferro e della qualità della miscela del calcestruzzo sicuramente più povero di cemento e con elevato grado di porosità, dovuto anche un inadeguato mix granulometrico. Inoltre i pilastri erano innestati direttamente nella scogliera denunciando l’assenza di elementi di fondazione.
 
ALL’INTERNO DELL’ARTICOLO IL PROGETTO DEL RECUPERO DEL PONTE
 
Memoria tratta dagli Atti del III CONGRESSO INTERNAZIONALE CONCRETE2014

Parole chiave: calcestruzzo, recupero, ponte, marino 

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Roberto Castelluccio

Professore Associato presso l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” – Dipartimento di Ingegneria Civile Edile ed Ambientale, nel settore scientifico disciplinare ICAR/10 - Architettura Tecnica.

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