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Impermeabilità del calcestruzzo: dagli additivi self-healing alla tecnica dell’incapsulamento, le nuove frontiere

L'intervista a Luigi Coppola, professore dell'Università di Bergamo e Presidente dell'American Concrete Istitute Italy Chapter (ACI-IC), sul tema dell'impermeabilità del calcestruzzo.

Dai micro organismi aggiunti nell’impasto del calcestruzzo che, grazie al loro metabolismo, producono sostanze sigillanti, alla tecnica dell'incapsulamento, a cui stanno lavorando diverse Università e che a breve sarà disponibile sul mercato. 

Sono alcune delle soluzioni più recenti che ricercatori e Atenei stanno mettendo a punto per migliorare l'impermeabilità del calcestruzzo, un tema di cui abbiamo parlato con l'ingegnere Luigi Coppola, professore dell'Università di Bergamo e Presidente dell'American Concrete Istitute Italy Chapter (ACI-IC).

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Impermeabilità e durabilità del calcestruzzo 

Professor Coppola, per molti anni si è utilizzato il calcestruzzo senza tener conto dei suoi problemi di durabilità, questo significa che ogni opera in calcestruzzo con più di 50 anni è a rischio?

«Più che di rischio vero e proprio, parlerei della necessità di dover effettuare interventi di manutenzione. Come tutte le opere dell’uomo, anche il calcestruzzo è soggetto all’invecchiamento, il fatto di aver realizzato delle strutture senza tener conto delle condizioni di aggressione promosse dall’ambiente, vuole semplicemente dire che la vita utile delle opere è minore di quella che si potrebbe ottenere oggi con una progettazione più oculata abbinata alla scelta di un calcestruzzo più prestazionale, non solo sulla base delle esigenze strutturali, ma anche su quelle di durabilità. Si tratta quindi di un problema di manutenzione precoce su quelle opere realizzate senza tener conto dei requisiti moderni di durabilità. Il rischio generalizzato va valutato caso per caso e non è connesso solo alla qualità del calcestruzzo ma anche anche all’apparecchiatura costruttiva. Il rischio, quindi, è qualcosa di molto più complesso che va valutato opera per opera».

Una manutenzione che dovrebbe essere programmata e puntuale?

«Ogni opera viene realizzata fissando una vita nominale e durante questo arco di tempo deve poter essere fruita senza far ricorso a interventi di manutenzione straordinaria. Scaduta la vita utile è evidente che il gestore dell’opera può decidere se dismetterla o se manutenerla con interventi straordinari qualora sussistano le condizioni, assegnando così nuova vita alla struttura in calcestruzzo. È possibile utilizzare prodotti e sistemi che sono certificati sia dalla norma italiana sia da quella europea EN 1504, quindi un’opera ben manutenuta potrebbe acquisire nuovamente una vita nominale pari a quella inizialmente prevista al momento della prima costruzione».

Quanto conta l’impermeabilità del calcestruzzo per garantirne la sua durabilità?

«È un parametro fondamentale, sebbene l’impermeabilità è un termine abbastanza generico, perché non c’è nulla di impermeabile e nemmeno il calcestruzzo lo è in assoluto. È più corretto parlare di calcestruzzi che hanno una porosità relativamente bassa in relazione a quelli che sono i potenziali rischi di danneggiamento promossi dall’ambiente con la regola che maggiore è l’aggressione ambientale e minore dovrà essere la porosità della matrice perché il degrado si previene impendendo alle sostanze aggressive presenti nell’aria, nelle acque o nei terreni di penetrare nel calcestruzzo. Qualsiasi potenziale attacco può essere evitato se viene limitata la penetrazione degli agenti aggressivi come ad esempio l’anidride carbonica o i cloruri presenti in ambiente marino, in modo tale che non riescano a raggiungere i ferri d’armatura causandone la corrosione. Questo obiettivo si consegue limitando la porosità, quindi facendo un calcestruzzo «impermeabile», ma allo stesso tempo garantendo uno spessore di copriferro sufficiente a ritardare l’arrivo dell’agente aggressivo in prossimità delle armature».  

Gli additivi self-healing 

Per molto tempo si è affrontato il tema della permeabilità dei calcestruzzi sia riducendo il rapporto acqua-cemento sia aggiungendo prodotti idrofobi all’impasto. Esistono oggi soluzioni diverse?

«La ricerca in questo campo ha fatto progressi importanti, fermo restando che per progettare un struttura durevole occorre garantire una ridotta porosità attraverso il confezionamento di calcestruzzi con bassi rapporti acqua-cemento e in alcuni contesti specifici, come quelli marini o per le opere a contatto con cloruri, attraverso una scelta corretta anche del tipo di cemento in particolare quelli pozzolanici e d’alto forno. Oltre a questo requisito di base, si possono migliorare ulteriormente le prestazioni d’impermeabilità del calcestruzzo ricorrendo agli additivi che vengono aggiunti all’impasto, come ad esempio quelli self-healing che sono in grado, non solo di limitare l’ingresso dell’acqua e degli ioni aggressivi, ma anche di sigillare eventuali micro fessurazioni, dell’ordine di due/tre decimi di millimetro, che possono insorgere nel conglomerato per effetto del ritiro nella fase cosiddetta plastica, quindi immediatamente successiva alla realizzazione del getto. Inoltre intervengono anche per «cucire» le micro cavillature legate al ritiro idrometrico che purtroppo è un fenomeno che accompagna tutti i materiali cementizi. Più in generale, gli additivi aggiunti all’impasto garantiscono una sorta di self curing, quindi in assenza di una maturazione umida limitano l’evaporazione dell’acqua dall’impasto evitando la formazione di fessurazioni in fase plastica, ma soprattutto, qualora dovesse comparire una micro cavillatura nella struttura, la reazione degli additivi, generalmente acidi carbossilici, in contatto con l’acqua, porta alla precipitazione di alcuni cristalli che sigillano le fessurazioni formatesi nella fase plastica».

 


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Le nuove frontiere: micro organismi e incapsulamento

Negli ultimi anni sono state studiate e messe in commercio soluzioni che rendono il calcestruzzo autoriparante, in futuro si dovrà rendere obbligatorio nelle opere infrastrutturali più importanti?

«Il ricorso agli additivi self-healing sicuramente consente una miglioria dell’opera, è ovvio che ci sono altre soluzioni legate all’uso di agenti espansivi o anche tramite l’aggiunta di minerali ad elevata attività pozzolanica come i fumi di silice. Comunque queste migliorie devono essere effettuate su un calcestruzzo che di partenza possiede dei requisiti intrinseci di durabilità grazie alla bassa porosità capillare e alla scelta di un cemento adeguato. Dal mio punto di vista, non credo si debba arrivare all’obbligatorietà, ci sono altre soluzioni che la ricerca sta sperimentando in laboratorio che però ancora non sono commercialmente disponibili. Ad esempio si è studiata la possibilità di aggiungere micro organismi all’impasto che, grazie al loro metabolismo, producono sostanze che sigillano le porosità e le micro fessure. La seconda soluzione, a cui stanno lavorando diverse Università e che a brevissimo sarà disponibile sul mercato, è quella dell’incapsulamento. La tecnica consiste nell’iniettare particolari resine all’interno di capsule in calcestruzzo o di natura organica che, nel momento in cui si forma la lesione nella struttura, si rompono rilasciando il principio attivo che sigilla la fessura impendendo così all’acqua di penetrare».

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