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L'irreperibilità o l'inesistenza delle pratiche edilizie va certificata

L'autore affronta il tema inerente la necessità di avere certezza di operare avendo a disposizione tutti i precedenti edilizi e urbanistici, dopo la pubblicazione di una sentenza del Tar Lazio dove si afferma che l’irreperibilità di una pratica edilizia va espressamente attestata dal comune. L'occasione è utile per approfondire, tra l'altro, le varie problematiche delle asseverazioni richieste ai tecnici progettisti di opere edilizie.

Una recente sentenza del TAR Lazio afferma che l’irreperibilità di una pratica edilizia va espressamente attestata dal comune e ci riporta a trattare di un tema attualissimo che l’Autore aveva anticipato in precedenti scritti e cioè le insidie e le problematiche delle asseverazioni richieste ai tecnici progettisti di opere edilizie.

Ne esce una disamina sui diversi aspetti dell’attività professionale che, nonostante il richiamo a disposizioni legislative recenti e alla “buona prassi” amministrativa, evidenzia problematiche tutt’ora irrisolte.


Sulle implicazioni e le incognite che conseguono alla “liberalizzazione” in edilizia che ha portato (rectius: avrebbe dovuto portare) all’accelerazione delle procedure di autorizzazione tramite la cosiddetta “semplificazione” abbiamo già detto in precedenza in numerose occasioni (v. “In attesa della riforma dell’edilizia: tra semplificazione e liberalizzazione InGenio 08/09/2020).

Ora la recente sentenza del TAR Lazio n. 5918 del 12.05.2022 riporta d’attualità uno dei tanti problemi su cui si scontrano i professionisti tenuti alle asseverazioni: la necessità di avere certezza di operare avendo a disposizione tutti i precedenti edilizi e urbanistici.

La certezza giuridica degli atti

Già da tempo si è posto il problema della “certezza giuridica” degli atti quando non promanano più dalla Pubblica Amministrazione che ne dà garanzia implicita.

Aspetto che si estende anche all’asseverazione dello stato legittimo degli edifici su cui si intende operare interventi edilizi, che è elemento imprescindibile disposto dall’articolo 20 del Testo Unico dell’Edilizia fin dalla sua prima stesura, oggi disciplinato analiticamente dalla modifica dell’articolo 9-bis, comma 1-bis apportata con legge n. 120/2020.

Tale asseverazione – teoricamente in capo al “richiedente” – da quando si opera con silenzio-assenso ricade di fatto sulla persona del tecnico progettista cui grava l’onere della “ricerca dei precedenti” e della loro “interpretazione” ai fini della dichiarazione della conformità o meno dell’esistente.

Tralasciamo qui le problematiche “interpretative” degli atti (di cui già abbiamo detto in precedenza) e concentriamoci invece sulle difficoltà materiali di acquisizione degli atti da certificare. (v. “C'è qualche insidia nell'auto-dichiarazione dello "stato legittimo" degli immobili).

Le difficoltà di ricerca dei precedenti

Problema apparentemente banale su cui si scontra però l’applicazione pratica.

Problema che il Legislatore generalmente trascura e che invece farebbe bene a meditare prima di legiferare perché, se poi la realtà non è all’altezza delle prescrizioni, si rischia di non raggiungere l’obiettivo.

Il che ci porta alle problematiche dell’accesso agli atti e, dunque, agli archivi della Pubblica Amministrazione che, nel caso specifico è rappresentata dai comuni.

Il processo di “semplificazione/liberalizzazione” che doveva rendere veloci le procedure perché bypassavano le lungaggini della Pubblica Amministrazione (così ritiene la pubblica opinione) in realtà ritorna in capo alla Pubblica Amministrazione gravata – se non altro – della regolamentazione dell’accesso, della messa a disposizione di spazi, personale, …. e dell’apertura degli archivi.

Le modalità delle archiviazioni nei comuni

Tralasciando anche qui le esasperanti liste di attesa (che tante lagnanze suscitano nelle categorie professionali) perché è “solo” un problema organizzativo, la procedura ha messo in luce un ben più grave aspetto che è quello della modalità di conservazione degli archivi delle pratiche edilizie e della strumentazione urbanistica.

Archiviazione lasciata all’iniziativa delle singole amministrazioni comunali che non solo non hanno adottato procedure simili e coordinate a livello nazionale, ma spesso (senza voler generalizzare, ma stando a quel che se ne sa) sono state per così dire disattente o poco diligenti sul problema.

Sta di fatto che gli archivi comunali sono (a volte) incompleti per le più varie ragioni di cui è inutile qui ricercare responsabilità: talvolta anche a seguito di forme di co-gestione tra più amministrazioni o in conseguenza di modifica delle articolazioni organizzative interne che, lasciate alla libera discrezionalità di ogni ente, hanno assunto spesso suddivisioni instabili con conseguenti traslazioni degli archivi.

Ne consegue che può capitare che pratiche edilizie, di cui pure si ha conoscenza, non siano reperite. Di questo si occupa la sentenza del TAR Lazio del 12.05.2022 (n. 5918).

La quale entra nel merito delle metodiche dell’archiviazione statale (regolata per legge), ma quanto all’archiviazione degli enti comunali non può far altro che rinviare allo Statuto.

L’attendibilità degli esiti delle ricerche

Senza entrare nel merito delle cause (e delle responsabilità quasi sempre remote) di questo stato di fatto, occorre però tenerne conto, per cui si pone il problema della “certificazione” della completezza degli atti esibiti dal comune a seguito della ricerca.

Perché – come già abbiamo detto in un precedente scritto – non sia mai che poi, a distanza di tempo, venga in evidenza un atto a suo tempo non ritrovato.

Il caso in esame: si sa che l’atto c’è, ma non si trova

Quando la recente modifica dell’articolo 9-bis, comma 1-bis del Testo Unico (pur con una stesura letterale involuta e certamente non inappuntabile) ha introdotto, all’ultimo periodo, la possibilità di attestare la legittimità non solo degli edifici sorti in assenza di obbligo di titolo abilitativo, ma anche di quelli di cui l’atto (pur dovuto) non sia reperibile, ha certamente introdotto una norma di buon senso che prende atto delle possibili incompletezze documentali delle pratiche datate, ma ha reso essenziale la “veridicità” della “irreperibilità”.

E chi può attestarla se non il detentore dell’archivio? Non basta l’attestazione del tecnico se la ricerca l’ha fatta il comune; sarebbe l’attestazione su un’attività di altri.

Al di là delle più o meno oggettive giustificazioni del “come” è stato tenuto l’archivio, un responsabile dell’Archivio c’è (ci deve essere) e a quello occorre fare riferimento e chiederne conto.

L’irreperibilità di un atto va “certificato” dall’amministrazione (dichiarazione di irreperibilità)

E allora è necessario che in caso di irreperibilità di un atto abilitativo la sua mancanza sia certificata dalla Pubblica Amministrazione esibente che ne garantisca la scomparsa.

In altri termini l’asseverazione del tecnico sulla legittimità si può basare solo sulla “certificazione” del comune.

Afferma testualmente il TAR Lazio: “… le operazioni di custodia e di eventuale discarico di atti e documenti tecnici o edilizi o urbanistici d'epoca, da parte degli uffici competenti e dell'Archivio Storico, dovrebbero essere (o risultare già) improntate funzionalmente a consentire l'accessibilità o la reperibilità (anche) dei documenti edilizi risalenti negli anni.

Secondo la giurisprudenza prevalente, se determinati documenti che sono legittimamente richiesti dal privato, non risultino esistenti negli archivi dell'Amministrazione che li dovrebbe detenere per ragioni di servizio, quest'ultima è tenuta a certificarlo, così da attestarne l'inesistenza e fornire adeguata certezza al richiedente”

Un aggravio in più per il Comune che, forse il Legislatore non aveva previsto; un appesantimento “burocratico” che porta un rallentamento della procedura liberalizzata. Per far stare tranquilli i tecnici asseveratori senza gravarli di improponibili responsabilità di negligenza non loro addebitabile della quale però dovranno dar conto in caso di sopravvenienza di sgradevoli sorprese. E soprattutto, per dare certezza giuridica agli atti che ne conseguono.

Ad essere precisi irreperibilità non è (di per sé) sinonimo di inesistenza

Sarà bene chiarire che l’irreperibilità è una “condizione” temporale attuale in quel luogo, il che non vuol dire “inesistenza” in assoluto e potrebbe non perpetuarsi nel futuro.

Anzi è proprio perché sappiamo (per prove indirette o indizi) che l’atto c’è che possiamo parlare di irreperibilità; sennò parleremmo direttamente di inesistenza.

Per cui potrebbe succedere che – per una beffa del caso – un giorno l’atto venga “reperito” (da qualche altra fonte) invalidando tutte le argomentazioni svolte al suo riguardo.

Forse sarebbe più coerente parlare di “mancanza” di precedenti edilizi nell’archivio comunale al fine di garantire legittimità (e buona fede) ai comportamenti conseguenti.

Ed infatti, se bene leggiamo la sentenza, essa richiede la “dichiarazione di inesistenza negli archivi comunali , che non è una dichiarazione di inesistenza tout court (come qualcuno ne ha erroneamente dedotto): più corretto è parlare di irreperibilità.

Quando era la pubblica amministrazione ad emanare l’atto, l’onere della ricerca d’archivio era nell’implicita attività istruttoria. E da questo derivava la legittimità dell’atto comunale.

La dichiarazione comunale di irreperibilità dà almeno conto oggi della diligenza nella ricerca in capo al tecnico asseveratore, ma non esclude che si possa averne cognizione dell’atto per canali diversi con cui dar prova che il “precedente” esista.

Il caso più generale: la ricerca si fa per sapere quali atti esistano

La sentenza contempla solo il caso esaminato relativo all’irreperibilità di un atto noto. Ma poiché si fonda sui principi generali la sua portata pare estendibile.

Infatti quando si fa una ricerca non è affatto detto che già si conoscano gli atti da acquisire, anzi la ricerca si fa proprio per poterne avere contezza, per cui - a maggior ragione – sarebbe opportuno che tutte le ricerche fossero garantite da una dichiarazione di completezza al fine di assicurare l’asseveratore che gli atti resigli disponibili siano in effetti tutti e i soli quelli esistenti in merito a quell’edificio, escludendo così che in futuro si possano reperire in comune eventuali ulteriori documenti di cui non si aveva memoria (e che magari possano inficiare l’esito dell’asseverazione).

Proprio per questo ci pare dover estenderne la dichiarazione anche alla necessaria garanzia della completezza degli atti esibiti dal comune in esito ad una qualsiasi ricerca d’archivio, visto che l’asseverazione della legittimità deve risalire all’intera storia pregressa dell’edificio. (v. “La legittimità degli edifici: la complessa ricostruzione della filiera degli atti” InGenio 07/10/2021).

Dichiarazione che sarà comunque (come si dice) “con beneficio d’inventario”, in quanto sarà sempre e solo riferita agli archivi comunali e non ad eventuali altre “fonti” esterne.

Una buona prassi che già avevamo suggerito: la dichiarazione di “completezza”

Questa utilità l’avevamo già messa in luce in un precedente scritto, nel quale, non avendo ancora contezza di cosa ne potesse pensare il Giudice, avevamo ipotizzato di poter fare ricorso al secondo periodo del comma 8 dell’articolo 20 del DPR 380/01 (come introdotto dalla legge n.120/2020) che dà facoltà di richiesta di certificazione alla P.A. della mancanza di atti interdittivi sulle richieste soggette a silenzio-assenso proprio per dare certezza dell’avvenuto consolidarsi dell’atto autorizzativo implicito.

Nel proporre allora il richiamo a questa norma ben ci rendevamo conto che qualcuno avrebbe potuto schernirsi eccependo che era riferita ad una fattispecie diversa e che quindi la certificazione della completezza dei precedenti non era atto dovuto.

Oggi non abbiamo neppure più bisogno di invocare questa disposizione perché quanto affermato dalla sentenza in commento è di portata generale, ispirato ai principi di correttezza, buon andamento, trasparenza dell’attività della P.A. che sempre ne devono improntare il comportamento, tanto che appare evidente che il citato articolo del Testo Unico dell’Edilizia altro non è che la sua traduzione legislativa in un caso specifico.

La finalità è chiara: dare certezza giuridica agli atti amministrativi e, dunque, anche alle attività private che si esprimono sulla legalità di quegli atti.

Quali tutele al privato richiedente sull’adempimento della P.A.?

A questo punto si può immaginare un legittimo scetticismo da parte di chi deve richiedere: e se l’amministrazione non risponde? O risponde con un rinvio ad altro ufficio (come nella richiamata sentenza)?

Caso che dovrebbe essere mera ipotesi di scuola, ma che l’esperienza pare confermare non essere né raro, né improbabile.

Esistono altre forme di tutela del privato senza dover ricorrere al Giudice come nel caso in esame?

Sarà allora utile fare riferimento all’articolo 2, commi da 9-bis a 9-quinquies oggetto di una recente integrazione normativa apportata con la legge n. 108/2021 (cosiddetta “semplificazioni 2”) inerente la “Conclusione del procedimento”; norma forse sfuggita ai tecnici perché contenuta in una legge di portata generale anche se già ne avevamo parlato nell’articolo “Decreto Semplificazioni 2021: le modifiche al regime del procedimento amministrativo” (inGenio 07/06/2021). A quello rimandiamo per i dettagli applicativi.

Richiamiamo qui solamente il fatto che per rimediare all’inefficienza dell’Amministrazione (ad esempio la mancata risposta ad una istanza) il Legislatore ha voluto individuare per ogni amministrazione pubblica un (diciamo così) “supremo responsabile” cui fare ricorso senza doversi rivolgere al Giudice, addirittura istituendo “unità operativa” specifica di cui deve dotarsi ogni pubblica amministrazione. Non è noto quante amministrazioni abbiano provveduto a questo obbligo.

In caso decorrenza di termini del procedimento il privato può ricorrere al dirigente di questa “Unità Speciale” che è addirittura dotato di poteri sostitutivi.

L’intenzione del Legislatore parrebbe lodevole, orientata all’ottenimento della certezza del diritto perseguito però … con l’aggiunta di un adempimento burocratico per risolvere un inadempimento burocratico.

Le figure di presidio dell’attività della P.A. non mancano: a fianco del Responsabile del Procedimento (già di per sé figura di controllo dell’attività dei sottoposti uffici) abbiamo il Responsabile della Trasparenza, il Responsabile dell’Anticorruzione … ed ora anche il Responsabile dell’Inerzia (così recita testualmente la legge) …..

Siamo sicuri che l’eccesso di tutele tuteli davvero?

Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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