Sostenibilità
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La sostenibilità è insostenibile ? servono 15 miliardi per la decarbonatazione dell’industria italiana

La CO2 continua a crescere. Nel 2019 era di 409,8 parti per milione (ppm in breve), con un intervallo di incertezza di più o meno 0,1 ppm. Nel 1991 eravamo a 356 ppm, nel 1971 a 320. Il livello di anidride carbonica in atmosfera non è mai stato così alto da 800.000 anni a questa parte.  Delle 33 Gt di anidride carbonica prodotte nel mondo, l’Europa ha un ruolo oggi limitato - circa 2,9 Gt di CO2 - e l’Italia ovviamente ancor più, con un costante calo, come emerge dai rapporti  sulle emissioni inquinanti dell’ISPRA, che riportano che tra il 1990 e il 2018 abbiamo registrato un calo nelle emissioni di CO2 del 17%. 

In questo contesto è comunque l’Europa a compiere le scelte più coraggiose, e con essa l’Italia, e quindi, avendo sottoscritto gli accordi di Parigi sul Clima, siamo uno dei 31 Paesi virtuosi che hanno introdotto obiettivi e limiti sulla produzione della CO2, e un meccanismo di acquisto delle quote qualora la produzione superi i valori concordati. Quest’ultima, ovviamente, è una scelta che colpisce soprattutto i settori energivori, dalle acciaierie alle industrie chimiche, del cemento e della ceramica, costrette da un lato a cercare tecnologie e soluzioni per ridurre le loro emissioni, e dall’altro ad acquistare quote di CO2 a costi che stanno diventando insostenibile.

 

La sostenibilità è insostenibile ?

Per riuscirci serviranno investimenti per circa 15 miliardi di euro al 2030. 

La evidenzia uno studio presentato nei giorni scorsi al ministro dello Sviluppo economico Giancarlo Giorgetti, al ministro della Transizione ecologica Roberto Cingolani e al ministro dell agricoltura Stefano Patuanelli, e oggi al presidente di Confindustria Carlo Bonomi e redatto da Interconnector Energy Italia, Federbeton, Federacciai, Assocarta, Confindustria Ceramica, Federchimica, Assofond e Assovetro, in collaborazione con Boston Consulting Group. 

I settori denominati "Hard to Abate" insieme generano 350.000 posti di lavoro diretti, numero che raddoppia a 700.000 persone calcolando anche l'indotto. 

Dallo studio emerge come la decarbonizzazione di questi settori sia perseguibile esclusivamente attraverso un portafoglio diversificato di soluzioni: efficienza energetica, economia circolare, combustibili low carbon, cattura della CO2, green fuels (idrogeno e biometano) ed elettrificazione potrebbero ridurre le emissioni dirette previste fino al 40% entro il 2030.

Il percorso di transizione avrebbe un impatto positivo sul PIL di circa 10 miliardi fino al 2030, consentendo il sostegno a circa 150mila posti di lavoro qualora gli investimenti venissero gestiti completamente in Italia. 

«Decarbonizzare è possibile e doveroso, ma ha costi elevati», conferma Antonio Gozzi, presidente di Interconnector Energy Italia, “la sopravvivenza dei settori energivori nel medio e lungo periodo passa attraverso processi di decarbonizzazione”. 

E ha spiegato i risultati dello studio: “non è possibile non fare niente, un atteggiamento passivo per questi settori significa dover comprare quote di CO2 sul mercato” e questo avrebbe “un costo di 18 miliardi in 10 anni. Spendere 18 miliardi in 10 anni in costi operativi significa chiudere o delocalizzare buona parte di questi settori, quindi è una non alternativa

L'acquisto delle quote di CO2 avrebbe un peso cumulato sul margine operativo lordo tra l 8 e il 20% al 2030. 

Ecco perchè, ha evidenziato Gozzi, la strada è quella di “dotarsi di strumenti che consentano di ridurre l impronta carbonica di questi settori: invece di comprare quote, bisogna fare investimenti” e ha aggiunto «il settore ha già fatto tanto, e spesso non è stato in grado di comunicare in maniera efficace il suo impegno nella riduzione delle emissioni. Ma per implementare le tecnologie necessarie nei prossimi 10 anni servono 15 miliardi di euro, e senza aiuti si mette in forse la competitività della manifattura italiana, che include tante eccellenze a livello mondiale. I fondi del Pnrr dedicati agli hard-to-abate non sono molti, c è bisogno di fondi complementari, iniziative di finanza green che stanno riscuotendo molto successo, e anche trovare soluzionia costo zero, che richiedono soltanto delle semplificazioni normative». 

Al 2030, leve tradizionali e leve innovative potrebbero permettere agli energivori di ridurre le emissioni di CO2 del 40% e secondo lo studio, al 2050 le sole leve innovative consentirebbero di tagliare del 70 o 80% le emissioni.  Un ulteriore riduzione del 15 o 20% verrebbe dalle leve tradizionali. 

Ma Gozzi ha sottolineato "noi dobbiamo arrivare vivi al 2030” perchè “scaricare su questi settori – senza aiuti – 10 miliardi di investimenti in 10 anni, rischia di mettere a repentaglio la loro produttività”. 

Come finanziare la decarbonizzazione dell industria energivora? “I fondi del Piano di ripresa per i settori hard to abate non sono molti, contrariamente a quanto avviene in Germania, Francia e Spagna”, ha detto Gozzi. E ha continuato: “nel Pnrr italiano c è qualcosa per l'idrogeno all'Ilva di Taranto e poco altro, quindi forse bisogna pensare a fondi complementari e a progetti di finanza green”. 

 

La reazione del governo

Gozzi si è detto fiducioso sul lavoro del Governo: “Cingolani ha riconosciuto che, rispetto ad altri Paesi, i fondi per le industrie hard to abate nel Piano di ripresa sono molto scarsi. Riconoscendo questa cosa, ha fatto riferimento a possibili fondi complementari. Credo che siano fondi europei già nella disponibilità del nostro Paese finalizzati a particolari obiettivi. Stiamo cercando di capire di cosa si tratta”.

 

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