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Oltre l’ottimizzazione: la città come racconto nell’epoca dell’intelligenza artificiale

Le macchine generative trasformano i bozzetti in padiglioni stampati, ma l’architettura resta un racconto corale: memoria, potere e imprevisto definiscono la città più di qualsiasi algoritmo. Dal caso che mi ha fatto incontrare mia moglie ai datacenter che decidono il traffico, esploro come l’IA cambi il patto urbano che ci unisce e plasmi nuovi futuri condivisi per tutti i cittadini.

Questo mio articolo nasce come riflessione a partire dall’articolo “AI is pushing the limits of the physical world” apparso sul MIT Technology Review il 21 aprile 2025: una delle tante scintille che mi stano inducendo a interrogare sociologicamente il progetto urbano alla luce dell’intelligenza artificiale.

Ecco perchè a questa ulteriore sollecitazione ho intrecciato i temi che ho recentemente sviluppato sulle pagine di Ingenio—dall’allarme di una “architettura senza narrazione” all’indagine sull’autenticità ai tempi dei linguaggi digitali, fino ai nodi di potere ed esperienza artificiale—per ricostruire il passaggio cruciale che ci porta dalla storica paper architecture alla odierna città aumentata: un continuum in cui l’immaginario progettuale, grazie all’IA, può tradursi quasi senza soluzione di continuità in materia costruita e in conseguenze sociali che non possiamo più dare per scontate.

   

Quando un’idea architettonica può passare in meno di ventiquattr’ore dal vagheggio d’inchiostro alla prova strutturale su banco‑robotico, non è solo la tecnologia a cambiare: si ridisegna l’intero patto sociale intorno alla forma urbana.

Dal “paper‑city” alla città aumentata — Versione estesa

La genealogia del disegno senza costruzione

Negli anni ’60‑’70 il fenomeno della paper architecture—da Archigram a Superstudio—mostrò come l’utopia potesse vivere soltanto sulla carta: visioni di “Plug‑in City” o di città‑robot nomadi che sfidavano i limiti tecnici ed economici dell’epoca .  Quei progetti, benché irrealizzabili, svolgevano una funzione critica: smascheravano le rigidità della produzione edilizia e liberavano l’immaginario urbano da vincoli che allora parevano insormontabili.

Oggi la situazione si è ribaltata.

Come osserva Allison Arieff su MIT Technology Review, strumenti generativi come Stable Diffusion o Midjourney non soltanto visualizzano un concept, ma alimentano flussi CAD/BIM, simulazioni strutturali e robotica additiva, trasformando l’“idea di carta” in un proof‑of‑concept fisico in poche ore . 

L’architetto non delega la propria creatività all’algoritmo: la estende lungo l’intera catena che va dal testo al modello 3D, dal gemello digitale al cantiere automatizzato.

“Transductions” e la co‑evoluzione uomo‑macchina

Un esempio emblematico è la mostra Transductions (Pratt Institute, febbraio – marzo 2025), che riunisce oltre trenta progettisti impegnati a far dialogare prompt testuali, animazioni in mixed reality e prototipi robotici.

La curatela parla di “feedback co‑evolutivi” fra discorso architettonico, media visivi e tectonics materiali  .  Qui la differenza rispetto agli anni Settanta è evidente: l’utopia non viene semplicemente “disegnata”, ma sperimentata in scala 1:1 dentro laboratori di stampa 3D, banchi CNC e camere climatiche che testano la resistenza dei nuovi bio‑materiali.

Il salto qualitativo non sta solo nella velocità. Progetti come Text2Robot (Duke University, 2025) mostrano come le reti neurali possano incorporare vincoli di fisica, cinematica e fabbricazione, generando forme già fabrication‑ready: il codice produce geometrie, ne analizza la meccanica, ottimizza l’articolazione dei giunti e infine ne invia i file a una stampante 3D .

Di fatto, la distinzione classica tra “fase creativa” e “fase esecutiva” evapora in un’unica sequenza algoritmica che riscrive le categorie stesse di progetto.

Sul piano sociale questo passaggio segna il tramonto dell’architettura come puro medium simbolico e inaugura la stagione della “città aumentata”: uno spazio dove l’immaginario è immediatamente verificabile e, dunque, politicamente negoziabile.

Se la paper‑city degli anni Settanta era un pamphlet rivolto soprattutto alla critica disciplinare, la città aumentata è un manoscritto vivo in cui cittadini, sensori e modelli predittivi possono intervenire in tempo reale.  L’utopia non è più differita; è un iter continuo di versioni che ridefinisce il concetto di “limite” come soglia mobile, non più come frontiera invalicabile.

Ma l’accelerazione ha un prezzo.

Il rischio di over‑design—forme perfette sul monitor ma ecologicamente o culturalmente fragili—cresce proporzionalmente alla potenza di calcolo disponibile. 

Se, come sostiene la sociologia dell’innovazione, la tecnica non è neutrale, allora la città aumentata diventa un campo di forze dove si misurano interessi industriali, algoritmi proprietari e nuove disuguaglianze di accesso alla competenza digitale.  Tornare a interrogare “chi” controlla la pipeline significa ribadire la centralità della decisione politica nel tempo dell’automazione creativa.

   

Il passaggio dalla paper‑city alla città aumentata segna la fine del divorzio tra fantasia e costruzione.  Grazie all’IA, il progetto urbano non è più una promessa astratta ma un processo iterativo, dove idea e materia si rispondono in un feedback continuo.  Compito del filosofo della città è vigilare affinché questo nuovo potere immaginativo non si esaurisca in un esercizio estetico, ma diventi occasione di democrazia progettuale e di cura condivisa del territorio.

    

Architettura senza narrazione — versione estesa

L’articolo del MIT Technology Review mi ha colpito per la rapidità con cui l’IA consente di trasformare qualunque “sketch” in prototipo; ma proprio quell’accelerazione rende ancora più urgente chiedersi quale racconto accompagni la forma.

Già nel mio articolo Architettura senza narrazione avvertivo che, se il progetto smette di raccontare, l’edificio diventa un «selfie dello spazio costruito» – un involucro ottimizzato che riflette soltanto il presente .

Riparto da lì, con tre osservazioni:

  1. La narrazione è un contratto inter‑generazionale. Senza un intreccio di storie – personali, collettive, mitiche – la città perde la capacità di riconoscersi nel tempo. Byung‑Chul Han lo formula con lucidità: «Il tempo narrato non trapassa; quando la narrazione si eclissa, cresce la contingenza».
    Il dato è sociale prima ancora che estetico: quartieri concepiti come assets ottimizzati finiscono per produrre spaesamento, non appartenenza.
  2. Il paradosso dell’algoritmo. Gli stessi sistemi che promettono personalizzazione lavorano su dataset globali e sincroni; ogni scelta di stile viene “flattened” in un output statisticamente medio.
    Il risultato è una città di icone istantanee ma decontestualizzate: superfici lucide, veloci da consumare e altrettanto veloci da dimenticare.
  3. L’esempio del BAM e di Palombara Sabina. Al BAM di Milano la natura è codificata in pattern geometrici rigidissimi: il parco “funziona”, ma non genera appartenenza. A pochi metri, su un prato non progettato, i ragazzi inventano un luogo autentico di gioco: dimostrazione plastica di come la narrazione emerga dal basso e non possa essere prescritta dall’algoritmo.
    Il controcampo è Palombara Sabina: vicoli imperfetti, pietre che “parlano”, un gatto che si aggira come custode di storie sedimentate. Qui l’architettura è racconto continuo, non performance. Se la città aumentata vuole essere abitabile, dovrà imparare da questi interstizi dove la vita narrante resiste.

   

L’IA non va demonizzata, ma ricondotta dentro un patto narrativo: ogni edificio dovrebbe portare in dote una memoria e aprire uno spazio di futuro condivisibile. Se perdiamo la trama, resterà soltanto la velocità dell’algoritmo – e un infinito feed di immagini senza radici.

    

Codificare l’autenticità — versione estesa

Nel mio articolo «L’autenticità in architettura ai tempi dei linguaggi digitali» su Ingenio osservavo che l’IA “parla” splendidamente la lingua dei numeri, ma inciampa quando deve esprimere autenticità.

Voglio approfondire quel paradosso con quattro passaggi:

  1. Dal cabalista al data‑scientist. In cabala ad ogni lettera corrisponde un numero; oggi la progettazione algoritmica rovescia la relazione: è la nube di numeri a generare sequenze di “lettere” (forme).
    Finché l’architetto codificava l’idea e la comunità la decodificava, il processo restava circolare. Con l’IA rischiamo un loop chiuso sulla codifica, dove la decodifica umana arriva troppo tardi o non arriva affatto.
  2. L’imitatore probabilistico. L’algoritmo apprende stili, li ricombina, li ottimizza; ma – come ammoniva Platone – l’imitazione priva di logos produce simulacri.
    Un edificio generato per ‘similarità statistica’ può apparire originale, ma senza un ancoraggio di senso risulta intercambiabile con migliaia di varianti generate un istante dopo.
    È la differenza fra un ponte di Calatrava e la Pont Neuf: il primo è replicabile, il secondo è inestricabile dalla storia di Parigi.
  3. Autenticità come relazione, non come firma. L’autenticità che mi interessa non coincide con la paternità dell’autore, ma con la relazione tra opera, contesto e comunità.
    Un algoritmo potrà anche inventare un frontespizio in stile gotico high‑tech; ciò che manca è il patto simbolico che lo rende credibile per chi lo abiterà. Senza quel patto, la città si popola di “icone performative” – showrooms del contemporaneo più che luoghi vissuti.
  4. Verso una grammatica ibrida. Il problema non è sostituire il calcolo con la poesia, ma intrecciarli. Immagino workflow dove i dataset includano memorie orali, mappe emotive, tradizioni costruttive locali; dove l’output algoritmico sia solo la prima bozza che il progettista rielabora con criteri narrativi e politici. In questo senso il modello generativo diventa una protesi ermeneutica, non un autore.

Ecco il passaggio che propongo: accettare che la codifica algoritmica sia potente, purché rimanga aperta alla decodifica culturale. In gioco non c’è soltanto l’estetica, ma la tenuta identitaria delle nostre città.

Un’architettura che non sa più dirsi autentica rischia di ridursi a pura infrastruttura di consumo – brillante, efficiente, ma priva di quell’alito di umanità che trasforma lo spazio in luogo.

    

How many roads must a man walk down
Before you call him a man?
How many seas must a white dove sail
Before she sleeps in the sand?
Yes, 'n' how many times must the cannon balls fly
Before they're forever banned?
The answer, my friend, is blowin' in the wind,
The answer is blowin' in the wind.

   

Memoria aumentata e falsi ricordi

Nel pezzo del MIT Technology Review (“AI is pushing the limits of the physical world”, 21 aprile 2025) l’IA è celebrata perché sutura lo iato fra idea e materia, traducendo un prompt in prototipo esposto alla mostra “Transductions”; la stessa logica, ricordo nel mio articolo «L’Intelligenza Artificiale può rivoluzionare la storia dell’Arte», ha permesso di rigenerare Medicine di Gustav Klimt: reti neurali allenate su bozzetti monocromi e su migliaia di opere secessioniste hanno ricostruito colori, velature d’oro e persino la pennellata, dando al dipinto – distrutto nel 1945 – una nuova vita sulla facciata della MedUni di Vienna. 

La stessa pipeline viene ora impiegata per quartieri e infrastrutture: team polacchi hanno ricreato in VR la Varsavia del 1935, mentre in Ucraina si sperimentano “virtual twins” per pianificare la ricostruzione post‑bellica; un gemello digitale integra foto d’epoca, rilievi lidar e simulazioni climatiche e poi guida robot di cantiere, traducendo il passato in istruzioni di montaggio  .

Ma qui nasce il rischio della nostalgia sintetica: ciò che appare come ricordo collettivo è in realtà una probabilità calcolata; l’algoritmo seleziona quali tracce conservare e quali scartare, consegnando alla città non la memoria vissuta bensì un rendering plausibile.

Il pericolo non è solo estetico: se i dataset sono sbilanciati o se la committenza privilegia versioni “instagrammabili” del passato, la comunità finisce per commemorare uno scenario che non ha mai abitato, mentre memorie scomode vengono espunte senza rumore. Occorre dunque affiancare al gemello digitale un gemello critico – archivi orali, controlli civici sul training‑set, protocolli di trasparenza – perché il futuro aumentato non si trasformi in un museo di repliche consolatorie, curato da chi possiede la GPU più potente.

       

Senza un gemello critico, il gemello digitale trasforma la storia in un rendering seducente, sostituendo la memoria vissuta con una nostalgia sintetica.

    

Potere, nomos e cloud

In «Cosa è il potere nell’era dell’intelligenza artificiale» ho argomentato che il nuovo nomos si scrive nei datacenter: non più “prendere terra” ma “prenotare GPU”. Il pezzo del MIT Technology Review, «AI is pushing the limits of the physical world», conferma che la catena test‑to‑GCode che stampa interi volumi in 3D vive dentro hyperscaler transcontinentali; chi controlla quel calcolo decide quali forme arrivano sul mercato dell’edilizia e quali restano bozzetti nel feed di Midjourney.

Anche in «Architettura senza narrazione» mostravo come l’algoritmo, senza un racconto condiviso, riduca l’edificio a “selfie efficiente”: qui la posta in gioco è più alta, perché il selfie diventa infrastruttura di potere. Una riga di codice — un cambio di parametro in un’API cloud — può bloccare un intero quartiere più di un’ordinanza prefettizia.

L’architettura di questo potere è stratificata: rotte sottomarine dei cavi, zone franche fiscali che ospitano server‑farm, edge node che filtrano la micro‑mobilità, modelli di scoring che regolano mutui e affitti.

Nella stessa logica, l'articolo «Fare esperienza nell’epoca dell’intelligenza artificiale» mostrava come la promessa di una città “risk‑free” derivi da previsioni algoritmiche che anticipano l’errore e, di fatto, normalizzano il comportamento urbano. Se «L’autenticità in architettura ai tempi dei linguaggi digitali» denunciava la deriva simulacrale delle forme, qui la simulazione riguarda la sovranità stessa: confini invisibili ma rigidissimi, check‑point algoritmici che scorrono all’insaputa degli abitanti.

Per la sociologia urbana diventa allora cruciale un’archeologia del cloud: mappare data‑center, API, hyper‑parameters, rendere leggibili i flussi di banda e i criteri di allocazione energetica, istituire protocolli di trasparenza sul training dei modelli che orchestrano traffico, credito, reputazione e perfino i colori di un restauro come ricordato in «L’Intelligenza Artificiale può rivoluzionare la storia dell’Arte».

Architettura, diritto e filosofia devono riscrivere il patto territoriale: dai bastioni di pietra ai firewall, dagli usci urbani ai gatekeeper algoritmici, rivendicando un nomos del cloud in cui la linea di comando sia pubblica, discutibile e contestabile come lo era — e lo è ancora, simbolicamente — il vecchio confine tracciato sull’argilla.

   

Esperienza, rischio, apprendimento

In «Fare esperienza nell’epoca nell’era dell’intelligenza artificiale» ricordavo che experīre – “tentare fuori” – implica mettersi in gioco, sbagliare, cambiare prospettiva; l’errore non è uno scarto da eliminare ma il vero carburante della conoscenza. 

Il sogno dell’IA, al contrario, è la città risk‑free: i modelli predittivi letti dal MIT Technology Review in «AI is pushing the limits of the physical world» calcolano carichi strutturali, flussi pedonali, micro‑climi; la pipeline test‑to‑GCode descritta nell’articolo fa crescere padiglioni “senza sorprese”, dove ogni snodo è simulato milioni di volte prima che il robot deponga il primo strato di calcestruzzo  .  In superficie sembra un trionfo; in profondità rischia di produrre spazi anestetizzati, perché la città non è mera efficienza ma un tessuto di deviazioni, incontri casuali, attriti che educano alla convivenza.

Algoritmi di micro‑mobilità, per esempio, ottimizzano percorsi al centimetro: niente code, niente svolte impreviste; ma proprio quell’attrito evitato toglie l’occasione di negoziare lo spazio e sedimentare identità civiche. 

Lo stesso vale per gli “edifici gemello” che promettono manutenzione zero: se tutto è previsto, dove si annida l’invenzione sociale? Nella mia riflessione «Benchmark più affidabili per l’IA: cosa serve davvero per misurare l’intelligenza artificiale» mostravo che inseguire la classifica spinge i modelli a barare sul compito; in urbanistica il rischio è analogo: un KPI di fluidità può indurre a progettare luoghi perfetti per i dati ma poveri di vita  .

Per non perdere il tentare fuori occorre inserire nei workflow di progetto margini d’imprevisto, “zone di errore protetto” dove la città possa sperimentare stili di vita non ancora metricizzabili.  In pratica: porosità dei marciapiedi anziché percorsi rigidamente canalizzati; regolamenti che lascino spazi a usi temporanei e appropriazioni informali; dataset che traccino non solo efficienza ma capacità di generare relazioni inattese. 

Solo così l’IA da oracolo di certezze potrà diventare, per tornare al senso etimologico di experīre, una compagna di esplorazione che spinge la comunità “fuori” dai binari già calcolati – verso un apprendimento urbano davvero condiviso.

    

Non parlo dell’imprevisto soltanto in astratto: la prova l’ho davanti agli occhi ogni mattina. Ho incontrato mia moglie in un locale dove lei non era mai stata prima e dove io, in teoria, non sarei dovuto andare: un cambio di programma, un tavolo rimasto libero, uno sguardo incrociato per caso. Quella “sliding door” ha trasformato due estranei in una famiglia; un cigno nero—statisticamente improbabile—è diventato il cigno bianco che dà luce a ogni mio giorno. Le cose migliori della nostra vita nascono così: da incidenti di percorso che nessun algoritmo avrebbe potuto prevedere, da curve fuori traiettoria che allargano l’orizzonte invece di chiuderlo. Per questo difendo l’attrito, l’errore, la deviazione: perché l’urbanità è viva soltanto finché lasciamo aperta la porta all’inatteso.

   

Per una “città narrante” in tempi di IA

Se l’intelligenza artificiale sta accelerando ogni fase del progetto – dal primo prompt al getto di calcestruzzo pilotato da un G‑code – il compito che ci resta è tenere il passo con la nostra capacità di raccontare ciò che stiamo costruendo. Senza una trama condivisa, persino la forma più ardita rimane un “selfie” di efficienza, destinato a sbiadire alla prossima release del modello.

Una città narrante non è un museo di nostalgie sintetiche né un luna‑park di prototipi stampati overnight. È, piuttosto, un organismo che intreccia memorie vissute e visioni future, che accetta l’errore come scintilla di apprendimento e riconosce il potere nascosto nelle pieghe del cloud. È uno spazio dove l’imprevisto conserva diritto di cittadinanza: il tavolo libero che mi ha fatto incontrare mia moglie, la deviazione che trasforma un vicolo qualunque in un ricordo indelebile.

Per arrivarci servono scelte concrete: dataset aperti alle voci minori, workflow che lascino porosità all’uso spontaneo, infrastrutture digitali leggibili e contestabili come un vecchio regolamento edilizio.

Ma serve soprattutto un dibattito vigile, capace di unire tecnici, filosofi, cittadini – perché la sovranità sull’immaginario urbano non scivoli silenziosamente nelle mani di chi possiede la GPU più capace.

Ingenio è, da anni, il mio laboratorio a cielo aperto. Vi invito a usare la sezione commenti per mettere alla prova queste idee: portate esempi, critiche, proposte, storie personali di “cigni neri” diventati opportunità. Solo così, collettivamente, potremo dare alla città aumentata un racconto all’altezza della sua potenza di calcolo – e restituire al futuro quel brivido di sorpresa che rende la vita urbana, da sempre, qualcosa di più di una semplice previsione.


Fonti principali citate nell’articolo

#
Titolo
Autore
Testata / Sezione
Link completo
1
AI is pushing the limits of the physical world (21 aprile 2025)
Allison Arieff
MIT Technology Review
https://www.technologyreview.com/2025/04/21/1114764/ai-artificial-intelligence-architecture-building/
2
Architettura senza narrazione: il rischio di un futuro costruito dall’intelligenza artificiale (30 novembre 2024)
Andrea Dari
Ingenio → Architettura / AI
https://www.ingenio-web.it/articoli/architettura-senza-narrazione-il-rischio-di-un-futuro-costruito-dall-intelligenza-artificiale/
3
L’autenticità in architettura ai tempi dei linguaggi digitali (19 ottobre 2024)
Andrea Dari
Ingenio → Architettura / AI
https://www.ingenio-web.it/articoli/l-autenticita-in-architettura-ai-tempi-dei-linguaggi-digitali/
4
L’Intelligenza Artificiale può rivoluzionare la storia dell’Arte (26 novembre 2023)
Andrea Dari
Ingenio → Restauro & Conservazione / AI
https://www.ingenio-web.it/articoli/l-intelligenza-artificiale-puo-rivoluzionare-la-storia-dell-arte/
5
Cosa è il potere nell’era dell’intelligenza artificiale (1 maggio 2025)
Andrea Dari
Ingenio → AI
https://www.ingenio-web.it/articoli/cosa-e-il-potere-nell-era-dell-intelligenza-artificiale/
6
Fare esperienza nell’era dell’intelligenza artificiale (10 maggio 2025)
Andrea Dari
Ingenio → AI / Filosofia & Sociologia
https://www.ingenio-web.it/articoli/fare-esperienza-nell-epoca-nell-era-dell-intelligenza-artificiale/

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