Cina leader dell’energia pulita: la sfida globale al dominio fossile USA
Mentre la Cina accelera sulla produzione e l’export di tecnologie green, gli Stati Uniti investono ancora nei combustibili fossili. Il New York Times traccia il divario strategico tra due superpotenze che plasmeranno il futuro energetico del pianeta. Il risultato? Un mondo sempre più diviso tra chi punta sull'elettrico e chi resta agganciato al petrolio.
Cina contro USA: due strategie opposte per alimentare il mondo
Premessa ampia e contestualizzata
Nel 2023, la Cina ha installato più pannelli solari e turbine eoliche rispetto al resto del mondo sommato. Un dato che sintetizza un cambiamento epocale nel panorama energetico globale: la transizione verso le rinnovabili non è solo una questione climatica, ma una sfida economica, geopolitica e industriale.
Il mondo si trova oggi davanti a un bivio, e le due potenze dominanti, Stati Uniti e Cina, stanno percorrendo strade diametralmente opposte.
Da una parte, Pechino investe massicciamente in tecnologie pulite e nella loro esportazione; dall’altra, Washington — con l’amministrazione Trump — scommette ancora su gas, petrolio e carbone.
Questa divergenza non è solo simbolica: riguarda miliardi in investimenti, milioni di posti di lavoro e l’influenza sulle future alleanze internazionali.
Secondo l’articolo “China’s Clean Energy Boom Could Win the Race to Power the Future” di Harry Stevens, pubblicato sul New York Times il 30 giugno 2025 (link all’articolo), il divario tra USA e Cina nelle politiche energetiche non è mai stato così netto.

Il Report sulla corsa sostenibile della Cina
Il reportage evidenzia come Pechino stia costruendo la propria leadership sulla diffusione globale di energia a basso costo e a basse emissioni, esportando:
- Batterie al litio per un valore di 65 miliardi di dollari (contro i 3 miliardi degli USA)
- Pannelli solari per 40 miliardi (contro soli 69 milioni degli USA)
- Veicoli elettrici per 38 miliardi (USA: 12 miliardi)
“China is huge,” afferma Praveer Sinha di Tata Power. “No one in the world can compete with that.”
Nel frattempo, gli Stati Uniti riaprono concessioni per trivellazioni, promuovono progetti di esportazione di gas naturale verso l’Asia e cancellano investimenti previsti in componentistica per veicoli elettrici. General Motors, ad esempio, ha rinunciato a costruire motori elettrici a Buffalo per investire 888 milioni in motori V-8 a benzina.
L’articolo sottolinea anche che la Cina possiede oltre 700.000 brevetti nel settore dell’energia pulita, più della metà del totale mondiale, e sta rapidamente avanzando anche nel nucleare, con 31 reattori in costruzione e progressi nella fusione.
Non mancano implicazioni strategiche: Pechino ha imposto limiti all’esportazione di magneti a terre rare — essenziali per eolico e auto elettriche — consolidando un potere negoziale che rischia di lasciare l’Occidente in una posizione di dipendenza tecnologica.
Approfondimento / Analisi
La posta in gioco nella sfida energetica tra Cina e Stati Uniti va ben oltre la questione ambientale. Si tratta, piuttosto, di una ridefinizione sistemica delle filiere industriali globali, delle sfere di influenza geopolitica e del modello stesso di sviluppo economico su cui si fonderà la seconda metà del XXI secolo.
Da un lato, la Cina sta puntando su un futuro low-carbon integrando strategicamente tre elementi chiave: il controllo delle tecnologie core (batterie, inverter, turbine, reattori), delle materie prime critiche (terre rare, silicio, litio) e delle catene produttive complete, dalla ricerca al prodotto finito. Questo approccio integrato consente non solo economie di scala, ma anche una proiezione globale in mercati emergenti affamati di infrastrutture energetiche accessibili.
È ciò che sta accadendo in India, Marocco, Brasile, Sudafrica, dove le tecnologie verdi cinesi rappresentano oggi la via più rapida e conveniente per elettrificare l’economia.
Dall’altro lato, gli Stati Uniti, forti di una posizione storicamente dominante nel settore dei combustibili fossili, sembrano oggi cercare di cristallizzare quell’egemonia piuttosto che trasformarla.
L'amministrazione Trump ha scelto di rilanciare le esportazioni di gas naturale liquefatto (LNG), di aprire nuove concessioni per trivellazioni e di ritirarsi da investimenti nell'elettrico, come evidenziato dal caso GM a Buffalo. Si tratta di una strategia basata su realismo geoeconomico e controllo delle risorse, incentrata sull’idea che il mondo continuerà a dipendere ancora a lungo da petrolio e gas — e che l’America può trarne vantaggio.
Ma questa visione potrebbe rivelarsi miope. Le conseguenze sul piano geopolitico sono già visibili: mentre la Cina diventa fornitore privilegiato di tecnologie per la decarbonizzazione, gli Stati Uniti rischiano di apparire come il Paese che frena la transizione. Una posizione che potrebbe isolare Washington nel confronto con un crescente numero di Stati che non possono permettersi il lusso dell’attesa climatica, e che vedono nella Cina non solo un produttore, ma un partner strategico.
La stessa Agenzia Internazionale per l’Energia (IEA) prevede che entro il 2035 l’eolico e il solare saranno le principali fonti di generazione elettrica a livello globale, superando gas e carbone. Il trend non è quindi un’ipotesi, ma una traiettoria concreta, guidata dalla caduta dei costi delle rinnovabili e dalla crescente elettrificazione di mobilità, industria e abitazioni. In questo contesto, la leadership futura non si misurerà sulla quantità di barili esportati, ma sulla capacità di fornire sistemi energetici completi, interoperabili e sostenibili.
👉 Chi controllerà l’energia pulita, controllerà la prossima rivoluzione industriale.
Infine, è necessario considerare anche la dimensione normativa e finanziaria. L’Unione Europea e numerosi Paesi del Sud globale stanno varando carbon tax, standard ambientali e sistemi di incentivi legati a tecnologie green. La capacità di adattarsi a questi contesti e di offrire soluzioni compliant diventerà un fattore competitivo decisivo. Anche da questo punto di vista, la Cina è in vantaggio: non solo produce, ma diplomaticamente orienta i mercati attraverso investimenti bilaterali, accordi energetici e cooperazione infrastrutturale.
Conclusioni
La sfida tra Stati Uniti e Cina per il controllo del futuro energetico non è solo una questione di emissioni o di leadership tecnologica. È lo specchio di due modelli di civilizzazione industriale in competizione: uno, fondato sul prolungamento dell’era fossile in nome dell’autosufficienza energetica nazionale; l’altro, orientato a ridisegnare le catene del valore globali attorno a un nuovo paradigma elettrico, distribuito e digitale.
In questo scenario, l’Occidente — e in particolare l’Europa — si trova di fronte a un bivio strategico. Da un lato, può farsi terreno di conquista commerciale per tecnologie e materiali provenienti da Pechino, rinunciando alla propria autonomia industriale. Dall’altro, può cogliere l’opportunità per accelerare una propria transizione, costruendo alleanze con i Paesi più esposti al rischio climatico e promuovendo una sovranità energetica condivisa, fondata su innovazione, standard comuni e investimenti sistemici.
La grande domanda, oggi, non è solo chi vincerà la corsa alla supremazia energetica. È se il mondo — nel suo complesso — riuscirà a trasformare questa competizione in una leva per la cooperazione globale, anziché in una nuova trappola geopolitica. Perché, come la storia insegna, nessuna rivoluzione industriale è mai stata neutra: cambia i rapporti di forza, ridisegna i mercati, ma soprattutto, ridefinisce le possibilità del futuro.
Per questo, è urgente che l’Europa non resti spettatrice.
Servono politiche industriali lungimiranti, ricerca pubblica, filiere integrate e una visione strategica dell’energia come bene comune e infrastruttura di coesione. Solo così potremo partecipare da protagonisti alla costruzione del nuovo ordine energetico globale.
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