Rappresentazione o Presentazione?
Attraverso sei pensieri intrecciati tra parola e immagine, Marcello Balzani esplora le tensioni della nostra epoca tra realtà e rappresentazione, identità e ambiguità, memoria e visione. In un mondo attraversato da crisi percettive e narrative, il gesto del rifiuto, dell’indecisione e della sospensione si trasforma in una forma inattesa di resistenza e creazione.
6
Preferirei di no…
Deleuze, Agamben, Hrabal, Carson e tanti altri per ricordare uno strano personaggio della letteratura che continua ad attraversare i secoli con la sua contagiosa affermazione. Forse nel bisogno ossessivo di una società (solo apparentemente) senza dolore, senza errori e volta alla valorizzazione della prestazione individuale l’indecisione di Bartleby farebbe bene.
Preferirei di no… I would prefer not to…
Violentemente comico e parzialmente agrammaticale (alla E. E. Cummings). Non è una parola baule (mot-valise) come crea mirabilmente Lewis Caroll in Alice. Per dieci volte questa formula si ripete e varia, “germina e prolifera”, devasta “lasciando il vuoto dietro di sé”. È contagiosa… perché non afferma e non nega. Forse chi si è “guadagnato il diritto di sopravvivere”... Forse la lingua scritta deve diventare balbuziente per far affiorare altro? Inghiotte e disattiva, sconnette, trasforma le linee di fuga, lascia in sospeso, si tiene “caparbiamente in bilico tra l’accettazione e il rifiuto”, esprime un proprio “archetipo scettico”…
L’editore maceratese Quodlibet ha a catalogo un delizioso libretto di neppure 90 pagine in cui, solo per gli affezionati della lettura/scrittura (quello sport necessario per una specie in rapida estinzione nello sciame dei social), si mettono a confronto Gilles Deleuze e Giorgio Agamben su “Bartleby. La formula della creazione”. Bartleby è un modernissimo enigma. Scritto da Herman Melville (quello di “Moby Dick”), nel 1853, il racconto “Bartleby lo scrivano” rimane ancora un esperimento della chimica più alchemica.
Perché? Bartleby è lo Scapolo kafkiano, è l’uomo senza referenze e qualità, è l’Ulisse moderno, forse è psicotico ma sicuramente può risultare invisibile, è ambiguo ed estremo, è un uomo del sottosuolo alla Bohumil Hrabal, primigenio e originale (per Natura) è pragmatico e portato alla disobbedienza civile, chissà se è (universalmente) emigrato, “catatonico e anoressico non è malato”, forse (in realtà) è il Medico o il nostro (miglior) fratello. lo “scriba della natura che intinge la penna nel pensiero” allestisce l’esperimento della decreazione (direbbe Anne Carson) dietro il suo paravento verde, i “futuri contingenti” si azzuffano, il “ricordo di ciò che non è stato” prende il sopravvento, e l’atto incessante della copia annega Benjamin in Borges. A volte l’anarchia di Bartleby mi aiuta a vivere…
“I bei libri sono scritti in una specie di lingua straniera”, diceva Proust, e un “grande libro non è se non il rovescio di un altro libro che non si scrive che nell’anima, col silenzio e col sangue”.

Non so perché quell’angelico sguardo mi ricorda Bartleby…
5
Reale e concreto: Icaro dove sei?
Il dadaismo di Francis Picabia e l’esercizio di stile di Raymond Queneau si mescolano per offrire sfondo (narrativo, tematico e sintattico) alle relazioni astratto/concreto e reale/artificiale, così messe in crisi dall’incessante immersione digitale. La figura di Icaro, ironicamente attualizzato, diviene il soggetto per intravedere in questo mito anche una metafora del rapporto (creativo e consumistico) con l’espressione artistica.
“Icaro, dove sei? Dove sei finito? Icaro! Icaro!” Chi è? Cos’è? Sembrerebbe un uomo… È un uomo. Chi è? Chi è? Icaro, naturalmente... Icaro sale più in alto. Eccolo al di sopra della Senna. Batte ogni record. Sale! Sale! Sale! Si vede appena. Scompare tra le nuvole! Riappare! Sale ancora! Sale troppo in alto! Gli succederà qualche cosa. Ma… ma… ridiscende! Non ridiscende; cade! Cade! Cade! Si schiaccerà… L’arte è come una malattia che dona bei capelli, begli occhi, un bel colorito, una pelle di seta a chi ne è colpito, privandolo, dall’altra parte, di ogni possibilità di contatto con la vita e le sue manifestazioni. I «malati» portano all’esterno la propria interiorità, sembrano non poter più amare, camminare, ridere, (volare)! Una poesia impalpabile (come l’aria). Il nostro cervello ruota su se stesso, diventa la gabbia del criceto intelligente. Capisci? Di reale c’è solo l’astratto, l’astratto si mescola sempre al concreto. Il reale gioca a mosca cieca, avvolge la mobilità (volante) della nostra vita, ma solo se la materia diventa soggettiva. Quindi hai le ali? Veramente? Sei proprio sicuro? O sono come bozze scritte su carta intestata. La paura e la speranza in fondo si somigliano. Il “protagonista” del romanzo è scomparso. Icaro beve superalcolici, cammina tra i pericoli del traffico, impara ad andare in bicicletta e a rigonfiare le gomme, si innamora. Se lo ritroverò, a chi devo restituirlo?
Francis Picabia scrive nel 1924 “Caravanserraglio”, il suo unico romanzo, tradotto da Tommaso Gurrieri e Tania Spagnoli per le Edizioni Clichy. Ho mescolato il suo straordinario dadaismo letterario con brani del testo teatrale “Icaro involato” che Raymond Queneau redige nel 1968, tradotto da Clara Lusignoli per Einaudi. Se la benzina è Dada il motore è il pubblico, ma attenzione ai carburatori!
Oggi abbiamo a che fare con la non-letteratura a consumo immediato e gli autori, disorientati dalla fuga dei personaggi (e dei contesti) approdano continuamente a terapie (idee) sado masochistiche.
Non è una questione tecnica (luoghi, nomi, trattini, virgolette). Dietro c’è (sempre) una persona viva. La questione tecnica è (forse) una maschera. Un artificio per ingannare il pubblico. Il sole riesce finalmente a squarciare il manto di nuvole. Scorgi le penne sui flutti e maledici l’arte.

Un grande olio su tela (182x300 cm) dipinto nel 1925 ed oggi conservato nella collezione del Novecento di Palazzo Ricci a Macerata.
Ho ribaltato di 180 gradi l’immagine e l’ho virata cromaticamente. Tutti stanno cadendo come tanti Icaro, più o meno consapevolmente. Tutti immersi nella medesima “aria elettronica” avvoltolati (tecnicamente) nel proprio individualismo alla ricerca della soddisfazione di molti bisogni (ma di pochissimi desideri).
Come potete notare nessuno, ahimè, porta più delle ali.
4
Identità e ambiguità
Si può crescere solo per se stessi? Identità e ambiguità sono complici? il mito di Venere e Adone, nella forma magicamente interpretata da Shakespeare ripercorrendo le parole di Ovidio, ci aiuta a comprendere come una sfaccettatura della vita (affettiva e non solo) possa esprimere uno straordinario gioco di specchi e di contraddizioni.
Siediti qui con me che ti soffoco di baci e le tue labbra non si stancheranno mai, anzi, le affamerò di piacere, prima le faccio rosse, poi le sbianco; poi dieci baci piccolissimi in un solo bacio… e se protesti non ti faccio più aprir la bocca! Dai tocca con quelle dolci labbra le mie labbra! Guarda nello specchio dei miei occhi la tua bellezza! Ecco, occhi negli occhi, e perché non labbra su labbra? Ti vergogni di baciare? Allora chiudi gli occhi… L’amore è leggero, dolce ragazzo, ma devi pensarlo pesante solo tu? Hai caldo? Il sole ti sta bruciando? Ti farò ombra con i miei capelli e se ancora scotta, lo spegnerò con le lacrime.
Ti ho stretto nel recinto d’avorio delle mie braccia, io sarò il parco e tu sarai il mio cervo, pascola dove ti pare, pasciti delle mie labbra, scendi giù dove stanno le dolci sorgenti… nessun cane ti stanerà, latrassero in mille!
L’amore è incredibile, è proprio strano, non crede a niente e poi crede a tutto! (O hard-believing love, how strange it seems, not to believe, and yet too credulous!)
È William Shakespeare nel famosissimo poemetto “Venere e Adone”, tradotto ora per Einaudi da Valter Malosti, che ne cura questa versione teatrale superba. Scritto mentre la peste devasta Londra e i teatri sono chiusi, “diventerà un best seller” della letteratura erotico-mitologica. Diversa da quella di Ovidio, la versione di Shakespeare è uno straordinario gioco di specchi e di contraddizioni.
Amore e Morte si confrontano e nel finale (di fronte al corpo senza vita di Adone che svanisce come respiro lasciando al posto di alcune sue gocce di sangue spuntare un fiore purpureo screziato di bianco) Venere profetizza che l’amore, da questo momento, si accompagnerà sempre al dolore e sarà scortato dall’ansia e dalla gelosia, sarà dolce inizio, ma amaro finale; sarà incostante, falso e disonesto, fiorirà e sarà schiantato all’istante, sarà una trappola piena di miele in superficie, ma dentro mortale; sarà avaro e anche debosciato; l’amore sarà sospettoso senza motivo, fiducioso quando dovrà essere diffidente…
Si può crescere solo per se stessi? O identità e ambiguità si frantumano, complici, quando si incontrano? La voce della pazza dea dell’amore e d’amore divora vertiginosamente tutte le altre voci (narranti), in un unico respiro.
La passione è come brace, deve essere spenta, se la trascuri l’incendio ti devasterà il cuore.
La bacia, e lei non si alzerebbe mai più, per far sì che quel bacio duri eterno.
Con gusto dolce della preda in bocca, selvaggiamente prende a sfamarsi…

Vi chiederete perché questa calma con un testo così passionale. Forse le contraddizioni si elidono e come nella “sex machine barocca” tutto viene triturato, nel lago di petali di fiori di loto tutto può essere naturalmente (con l’ironia dell’astratto) ricomposto…
3
Il mondo è umano
Quanto incide la nostra umanità e disumanità nella percezione del mondo e nella creazione delle narrazioni che tentano di descriverlo? Tra il cinema di Yorgos Lanthimos che interpreta Alasdair Gray e gli allestimenti iperrealisti surreali di Giampaolo Bertozzi e Stefano Dal Monte Casoni si cucino dei fili rossi capaci di farci ragionare sulla dantesca incessante caduta (non di Lucifero) ma di un Frankenstein continuamente rigenerato.
Il mondo è umano. Affermazione dura se si pensa a quanto ecologismo e bisogno di sostenibilità inclusiva interseca le più giovani generazioni. Ma il mondo è umano. Le cose sono mute e i sensi sono solo degli uomini. Così è ancora tanto (troppo) evidente. E se esistono mondi devono esistere anche intermondi e giunture, connessioni, integrazioni e mediazioni assumono un rilievo (potere) particolare.
Ogni nostro mondo sembra “colare” verso gli altri, in stati di disagio continui, perenni, come in una specie di “emorragia interna”: un tempo rappresentazione della fuga, oggi del transitorio eternizzato nel presente. Punti di vista mescolati ai nostri a volte comprensibili, altre volte presenti ma inammissibili. Come un ingranaggio senza coincidenza. Isole di coscienza? O forse arcipelaghi? O meglio sciami Ambiguità e indeterminazione prendono il sopravvento.
Esattamente un anno fa uscivo (per la seconda volta perché lo meritava immensamente) dalla straordinaria mostra d’arte ceramica “Tranche de vie” di Bertozzi&Casoni nella triplice sede imolese del Museo San Domenico, Palazzo Tozzoni e Rocca Sforzesca e tra la nebbia mi imbuiavo nel premiato “Povere creature!” di Yorgos Lanthimos con una Emma Stone (Prometea liberata) da oscar! … E sentivo ancora che il mondo è umano.
A volte i social sembrano possedere un eccessivo “tatto fisognomico”, consentendo un disprezzo autorizzato, innervato da reminiscenze d’infanzia più che di maturità, altre volte il propagarsi dell’iper-realtà autoreferenziale affatica e disturba nella contagiosa accelerazione consumistica del visivo digitale.
Ma i “rule breakers” Giampaolo Bertozzi e Stefano Dal Monte Casoni con i loro raffinatissimi ready-made iperrealisti surreali ci riconnettono alla più intensa “intimità del concreto”. Sto leggendo tante cose contemporaneamente (come sempre) e il ribaltamento concettuale di questo umanesimo intriso di Sartre, Merleau-Ponty e Simone de Beauvoir scorre da Terenzio a Byung-Chul Han.
In “Povere creature!” (tratto dall’omonimo romanzo di Alasdair Gray) con il sapore deformativo e da “grillografia medioevale” alla Tim Burton/Baltrusaitis, si può trovare “una” Ulisse (più joyciana che omerica), che si allontana dal “suo” Penelope/padre fatto a pezzi e ricucito freudianamente, per trovare la propria identità di madre/figlia chirurgicamente integrata e sovrapposta (Mary Shelly docet).
Quanti intermondi e micromondi! L’indeterminazione prende il sopravvento!
L’apparenza è realmente “infinibile” come nel tavolo apparecchiato di “stoviglie zozze” tutte ceramicamente “digerite” con ricchezza di particolati nel piano terra del palazzo settecentesco imolese!
Non dovete aver paura. “Dobbiamo bruciare Sade?” si chiedeva Simone De Beauvoir qualche anno fa… Oggi il tema/dramma etico della responsabilità dell’artista appare sicuramente… secondario!

2
Auden, Brodskij e il Colosseo: si può ancora corteggiare la vanitosa Musa del Tempo?
In un mondo progressivamente sempre più “digitalizzato” la distinzione tra tempo e cronologia sembra dissolversi e anche la storia viene stimolata a motivare la propria esistenza.
Ciò che passato e futuro hanno in comune è la nostra immaginazione, che li evoca: l’idea di antichità o di utopia. Un foglio di carta appallottolato mentre vola nel cestino potrebbe facilmente essere scambiato per una scheggia di civiltà, specie se siamo senza occhiali. Il tempo non è un puzzle, perché è fatto di pezzi deperibili. I resti, gli avanzi della necessità (o della vanità) sono residui di considerazioni sempre miopi. Inutile picchiare con le dita contro il marmo, non ci sono posti liberi.
È lo straordinario Iosif Brodskij in “Profilo di Clio” a cura di Arturo Cattaneo per Adelphi.
Clio è la Musa del Tempo e, come dice W.H. Auden, nel tempo nulla accade due volte. Un bersaglio non accetta il proiettile e la distinzione tra tempo e cronologia è andata perduta. Come banca dati del potenziale umano negativo la storia non ha rivali e comunque ogni qualvolta si muove ci coglie di sorpresa. La caratteristica principale della storia e del futuro è la nostra assenza: non si può essere certi di qualcosa di cui non si è mai stati parte. Ecco perché la Musa del tempo possiede quell’espressione vaga. Forse perché tanti occhi l’hanno fissata con incertezza? Perché ha visto tanta forza e confusione? Se avesse risposto allo sguardo dei suoi corteggiatori li avrebbe resi ciechi. Clio, la vanitosa Musa del Tempo, cammina in mezzo a noi e ci rende irrimediabilmente… assenti.
Nel “gigantesco cervello invecchiato”, come direbbe Brodskij, del Colosseo, i residui delle combinazioni spaziali dell’ipogeo ci interrogano incessantemente. Quanto più i “detriti dell’antichità” sono a nostra disposizione, quanto più a lungo li si guarda, tanto più sembra che ci venga negato l’accesso. Un puzzle temporale in 3D. Un tetris, destinato a durare più dei suoi costruttori, fatto per raggiungerci? “Mentre l’antichità esiste per noi, noi per l’antichità non esistiamo. Non siamo mai esistiti, né mai lo saremo”. Geneticamente la distanza è immensa. Ma la nostra immaginazione…

5
1
Rappresentazione o Presentazione?
Come la tautologia della realtà/verità si incarna divinamente nel rituale dell’uso e abuso di immagini e comunicazioni digitali.
A volte, guardando e riguardando la bulimia di immagini che divoriamo e rimettiamo in rete con una rapidità assurdamente ipertrofica, penso che la “Crisi della rappresentazione” abbia raggiunto il suo stadio di maturità. La fotografia, come Roland Barthes ricordava essere “emanazione del referente” con le proprie tracce di luce che impressionano materia da materia, con quella “immobilità amorosa o funebre, proprio in seno al mondo in movimento”, diviene mera “citazione e frammento” della realtà. La fotografia digitale segna la fine del Reale? Forse l’iper-realtà della iper-fotografia non rappresenta nulla, ma solo “presenta”? Sono “citazioni di Realtà” mescolate all’immaginario? La “trasmutazione delle apparenze” così cara al “ruolo magico” della rappresentazione, che con la fotografia (ossessionata dall’originale) perpetuava l’immagine della “durata”, vede non possedere più quella “impronta della somiglianza” che ne sapeva estrarre l’anima primitiva (Lévi-Bruhl), come un ghost incarnato. Il fotografo se era uno sciamano ora cos’è? La Realtà “a due facce” (una visibile e localizzata e l’altra rappresentata a cui rimanda biunivocamente) con cui siamo nati e abbiamo convissuto sembra essere diventata ubiquitaria e sfuggente, forse veramente “invisibile” nella sua mera “presentazione”.
Lo so, sono un po’ complesso… Ho usato le mie parole con le parole di Byung-Chul Han in “Nello sciame. Visioni del digitale” edito da Nottetempo per la traduzione di Federica Buongiorno con quelle di Philippe-Alain Michaud di “Anime primitive. Figure di celluloide, di peluche e di carta”, edito da Quodlibet nella traduzione di Andrea Pitozzi e Caterina Serra. E in questo tentativo di “thanatografia” ho lasciato talmente troppi “cadaveri” sulla scena, che neppure lo sguardo di Alfred Hitchcock mi può aiutare. Rimane il fatto che la domanda (“Ceci n’est pas une pipe”) di René Magritte sulla tautologia della realtà/verità forse oggi si incarna divinamente nel rituale frammentario e mosaicato che la selezione delle immagini dal nostro cellulare propone.
L’immagine è un mio dettaglio digitale virato di una bellissima fotografia (predigitale) di Helena Almeida dal titolo “Tela habitada” del 1976, esposta all’Istituto Moreira Salles di Sāo Paulo in Avenida Paulista nella mostra “Helena Almeida. Fotografa habitada”, curata da Isabel Carlos nell’estate del 2023. La dimensione tattile dell’immagine sembra confondersi con fantasmi sospesi e ritardati nella corporeità velata della membrana osmotica del Reale. La fotografa performer portoghese rappresenta (non presenta) contemporaneamente tante cose... e ce lo ricorda magnificamente.

Dalla rubrica «Marcello Balzani: tra Parola e Immagine»
C’è un numero che, più di altri, incarna l’idea di equilibrio e compiutezza: sei. È il primo numero perfetto, perché somma dei suoi divisori (1, 2, 3), ma è anche la metrica dell’esametro omerico, che ha guidato per secoli il racconto del viaggio, del mito, dell’umano.
A questo numero si ispira la struttura di “Perfetto Sei”, una rubrica che raccoglie i testi di Marcello Balzani come pensieri in cammino, intrecciati a immagini e citazioni che non illustrano, ma evocano, non spiegano, ma interrogano.
Il titolo è anche un gioco di specchi: si può leggere come “Sei perfetto”, allusione alla somiglianza divina dell’essere umano, fatto — secondo la tradizione — a immagine di Dio. Un invito, forse, a riscoprire nel frammento la traccia di un’armonia nascosta.
Ogni articolo della rubrica ospita progressivamente sei pensieri. Sei come unità compiuta, come sequenza che diventa ciclo. Quando l’articolo si completa, ne nasce uno nuovo. E ogni nuovo inizio si pone in cima alla serie, come il primo passo di un nuovo viaggio. L’intero progetto si dispiega così in una serie aperta di cerchi perfetti, ognuno con il proprio tema originario e la propria traiettoria di senso.

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