Sostenibilità
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Il piano globale di Biden per i chip americani per computer punta sul welfare

Il CHIPS and Science Act di Biden è il grande piano per riportare l’industria americana ad essere protagonista dell’evoluzione digitale mondiale. 52,7 miliardi di dollari sono gli incentivi dedicati solo al settore dei semiconduttori.

Il CHIPS and Science Act di Biden è il grande piano per riportare l’industria americana ad essere protagonista dell’evoluzione digitale mondiale. 

Il CHIPS Act riguarda 280 miliardi di dollari di spesa nei prossimi dieci anni.

La maggior parte - 200 miliardi di dollari - è per la ricerca e lo sviluppo scientifico e la commercializzazione.

Circa 52,7 miliardi di dollari sono per la produzione di semiconduttori, la ricerca e lo sviluppo della forza lavoro, con altri 24 miliardi di dollari di crediti d'imposta per la produzione di chip. E ci sono 3 miliardi di dollari previsti per programmi volti alla tecnologia all'avanguardia e alle catene di approvvigionamento wireless.

I 52,7 miliardi di dollari per l’industria dei semiconduttori

I 52,7 miliardi di dollari in credito d'imposta e finanziamenti per ricerca, sviluppo, produzione e forza lavoro nel campo dei semiconduttori sono suddivisi in:

  • 39 miliardi di dollari: incentivi nella produzione, di cui2 miliardi di dollari per i chip in ambito automotive e sistemi di difesa
  • 13,2 miliardi di dollari in ricerca e sviluppo e nella forza lavoro
  • 500 milioni di dollari per comunicazione e attività lungo la catena di approvvigionamento

Per avere i sussidi non bastano gli investimenti in ricerca

Ma la notizia è che in cambio dei vasti sussidi suddetti l'amministrazione Biden sta chiedendo ai produttori di chip di fare promesse sui loro lavoratori e sulle loro finanze, compresa la fornitura di assistenza all'infanzia a prezzi accessibili.

Biden sta usando questi soldi quindi non solo per sostenere l’innovazione industriale ma anche per cambiare il modo in cui le aziende si comportano.

Se i produttori di semiconduttori vogliono una parte dei quasi 40 miliardi di dollari di aiuti che l'amministrazione di Biden ha iniziato il processo di somministrazione martedì, dovranno fornire assistenza all'infanzia per i dipendenti, gestire i loro impianti con fonti di energia a basse emissioni, pagare i salari sindacali per i lavoratori edili, evitare i riacquisti di azioni e potenzialmente condividere determinati profitti con il governo

Si tratta di una decisione di portata incredibile, che sta raccogliendo non solo apprezzamenti ma anche forti perplessità e contestazioni, perchè è una vera e propria scommessa sul potere del governo federale di trasformare l'industria privata.

Biden sostiene che i soldi e le linee guida guideranno l'industria americana verso un'economia non solo con più produzione statunitense, ma anche migliori condizioni per i lavoratori e meno emissioni di combustibili fossili che guidano il cambiamento climatico.

Contemporaneamente vi una parte di economisti che affermano che Biden rischia di annegare i suoi obiettivi economici fondamentali, ovvero disperdere su troppi obiettivi lo sforzo del governo.

Una svolta epocale: l’industria diventa più forte solo se è socialmente impegnata

La svolta di Biden è importantissima e chissà se avrà qualche riflesso nella welfarissimo vecchio continente.

Ricordiamo infatti che dall’agosto 2022 anche l’Europa ha il suo Chips Act, un pacchetto legislativo europeo sui semiconduttori. Approvato l’8 febbraio 2022 dalla Commissione Europea prevede 43 miliardi di euro per raddoppiare entro il 2030 la produzione europea di chip e rendere autonomi gli Stati membri dalle forniture extraUE.

Ma il principio che BIDEN sposa è che non c’è futuro per l’industria se l’industria stessa non evolve da un punto di vista sociale.

Non si può parlare di parità di genere se le industrie non sono in grado di supportare le lavoratrici donne nella risoluzione dei problemi basilari, a partire dagli asili, ma non solo.

Biden chiede anche una transizione ecologica, a partire dalla fonte energetiche.

E la verifica che poi le industrie non utilizzano i fondi per operazioni finanziarie, a cominciare dal buyback è un’altra passaggio fondamentale di questo processo. Le limitazioni sui riacquisti di azioni impediranno ai dollari dei contribuenti di arricchire gli azionisti e gli amministratori delegati della società.

Si tratta peraltro di contrastare delle situazioni che la storia ha insegnato hanno danneggiato alla fine proprio le aziende.

Inoltre verrà richiesto alle aziende di condivider parte di questi ultraprofitti con il governo. Se l’industria guadagna devono poi guadagnare anche i cittadini.

Alcune considerazioni sugli incentivi italiani

Negli ultimi anni l’industria e l’artigianato del nostro Paese è stato fortemente sostenuto dagli incentivi del governo.

Per capirlo basta osservare i numeri dei bonus edilizi.

Di fatto le politiche finanziare dei tanti governi che si sono succeduti negli ultimi vent’anni sono state quelle di sostenere lo sviluppo industriale attraverso incentivi, alcuni di supporto all’innovazione, come industria 4.0, altri di supporto alle vendite, come i bonus alle auto e quelli in ambito edilizio.

Ma la mancanza di un piano industriale complessivo collegato a questi incentivi ha di fatto portato a una perdita di posti di lavoro in alcuni ambiti, così come a una destrutturazione dei settori.

Il principio seguito è stato: vi diamo i soldi per robotizzare la produzione, per digitalizzare i processi, per cambiare le macchine, ma poi cosa succede da un punto di vista delle risorse umane e come investite gli ultra profitti è un “problema” vostro.

E le conseguenze sociali sono sotto gli occhi di tutti.

Si osservi cosa accaduto nel settore delle costruzioni con il Superbonus e il Bonus Facciate: sono nate migliaia di partite iva, di microimprese con sede in un furgone e segretaria nel cellulare che a dispetto di qualsiasi principio di welfare, di competenza e specializzazione, di strutturazione imprenditoriale hanno operato per un lungo periodo senza reale controllo. Il passaggio alle imprese con SOA è avvenuto troppo tardi.

Si è fatto uno degli investimenti più importanti della recente storia senza pensare a una strategia industriale e sociale di medio e lungo periodo. E’ l’effetto del populismo e della mancanza di competenza strategica nella classe dirigente.

E il risultato che oggi, dopo alcuni anni di spesa senza precedenti - al di là degli innegabili vantaggi da un punto di vista della rigenerazione urbana - il settore è meno strutturato, più fragile, meno preparato per sostenere un cambiamento guidato dalla digitalizzazione, dall’ambiente, dalla valorizzazione delle persone, dal welfare. Un settore pronto a saltare se lo Stato non ci mette velocemente ulteriori soldi (lo Stato, ovvero noi) per disincagliare i crediti.

Il prossimo piano di incentivazione delle costruzioni, un percorso ineludibile se vogliamo raggiungere gli obiettivi del 2030 e del 2050, dovrà bidenizzarsi e occuparsi non solo del risultato industriale, ovvero della rigenerazione immobiliare e urbana, ma anche di favorire una conversione di un tessuto industriale delle costruzioni, con un ritorno forse al passato, in cui l’impresa edile aveva un ufficio tecnico, operai dipendenti, macchine proprie e welfare privato interno. Un passato in cui il dipendente che aveva bisogno di risorse per un fatto imprevisto spesso le trovava direttamente all’interno dell’azienda, dall’imprenditore, ancor prima che dallo stato. 

La rivoluzione sociale e la parità di genere non si raggiunge semplicemente storpiando i sostantivi e mettendo le quote rosa.

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