La forma e l'estetica della città dalle tipologie alla norma astratta
Partendo dai vecchi piani regolatori e dallo studio delle forme della città, l'autore intraprende un percorso dentro l'evoluzione delle tecniche di pianificazione delle città, fornendo qualche esempio del passato e affrontando il passaggio alla zonizzazione come unica modalità riconosciuta di pianificazione urbanistica, per poi virare verso la pianificazione d'ambito, la norma astratta, l'identità dell'ambiente costruito e la progettazione d'insieme.
Le norme astratte hanno talmente condizionato la progettualità tanto (di fatto) da sostituirla, come se il loro rispetto fosse garanzia di buona costruzione. Ne va però della “forma della città”.
L’Autore mette in evidenza questo rischio insito anche nell’eccessiva frammentazione della pianificazione che sempre più privilegia la progettazione del singolo edificio rispetto all’insieme urbano.
Le tecniche di pianificazione e la forma della città
Se andiamo a rispolverare i vecchi piani regolatori troveremo una sostanziale diversità di contenuti e di tecniche di rappresentazione che potranno apparirci superate e, a volte, anche un po’ ingenue, e che invece meritano alcune riflessioni attente.
La forma della città è stato un elemento di studio teorico in particolare a partire dal ‘500 quando letterati, filosofi, architetti, costruttori, pittori, scultori, … (all’epoca non esisteva la settorializzazione professionale per materia) hanno speso energie alla ricerca della “città ideale” come sintesi di forma, funzionalità ed estetica.
Anche i modelli di città giardino di Hebenezer Howard o della città lineare di Soria Y Mata perseguivano ancora schemi ideali di funzionalità ed estetica (di forma della città) e ancora ne troviamo i postumi nelle prime pianificazioni dell’Italia post unitaria quando l’evoluzione dell’urbanistica dall’architettura si è manifestata in maniera significativa nelle modalità di espressione tecnica. Di questo abbiamo già scritto in precedenza (v. InGenio – 04.11.2020 – “Quando l’urbanistica era un’arte”).
Però anche quando si è passati da una visione concettuale (a volte anche utopistica) della forma della città, ad una normazione grafica - attraverso l’adozione della metodica della suddivisione del territorio per “zone” - l’attenzione all’estetica si è comunque protratta anche nella formulazione dei piani.
Qualche esempio del passato?
La zonizzazione “tecnica” prima della codifica giuridica del decreto ministeriale del 1968 si esprimeva sì anche tramite le destinazioni d’uso (pur ancora sommarie e indistinte tra quelle private e pubbliche), ma anche - direi soprattutto – per individuazione delle diverse tipologie costruttive imposte alle diverse zone.
Nel piano regolatore di Foggia di Luigi Piccinato del 1928 (ad esempio) la rappresentazione grafica delle “zone” era corredata da soluzioni architettoniche (di massima) di alcuni significativi luoghi della città (quali la Stazione, il Politeama, il Foro).
Anche il piano di Bologna del 1938 di Plinio Marconi era corredato da una esemplificazione planivolumetrica distributiva degli edifici di nuovo impianto e addirittura la Regolamentazione Edilizia era sostanzialmente costituita da un abaco in cui le varie tipologie edilizie erano corredate da schemi plano altimetrici riportanti (per ognuna di esse) altezze e distacchi dai confini e tra le costruzioni.
Il controllo della forma avveniva così tramite lo strumento di pianificazione generale garantendo nel contempo anche il rispetto delle norme igienico sanitarie.
Quella suddivisione tipologica oggi fa forse un po’ sorridere, ma non era banale; si articolava in: edilizia intensiva, semintensiva, estensiva, case a schiera, case orti, ville signorili, …
Zonizzazione ancora grezza forse, se la vediamo con gli occhi di oggi (però non è mai bene sorridere del passato, meglio cercare di capirlo), ma in assenza di una disposizione legislativa ogni progettista la interpretava a modo suo e la dettava non solo in base alle destinazioni d’uso, ma anche tramite le “tipologie edilizie”.
Salvaguardando quindi una forma riconoscibile della città e la cultura dell’epoca.
La zonizzazione da modalità meramente tecnica a regolamentazione giuridica
Nel 1942 avviene un salto concettuale importante perché la zonizzazione (ex articolo 7, comma 2, p.to 2 della legge n. 1150/42) diventa unica modalità giuridicamente riconosciuta di pianificazione urbanistica: il piano regolatore “deve” esprimersi tramite la zonizzazione.
Ancora però l’obbligo giuridico non formalizza né “la classificazione” né il “contenuto” delle “zone” che rimangono nella libera interpretazione del pianificatore.
Nel 1968 però, con il d.m. n. 1444, la “zonizzazione” viene vincolata nelle tipologie (sei in totale: da “A” a “F”) e nei contenuti e tale rimane – pur con qualche marginale implementazione/specificazione ad opera di legislazioni regionali o dei singoli PRG – sostanzialmente inalterata fino ad oggi, anche perché sarà ritenuta “norma di principio” che vincola la legittimità (e quindi l’approvabilità) dei piani.
Questo “vincolo” giuridico irrigidisce (e forse isterilisce) la zonizzazione che d’ora in poi abbandonerà progressivamente ogni prefigurazione urbana tramite l’orientamento della forma grafica disegnata nel piano, affidando l’edificando unicamente alla norma astratta e generale.
L’evoluzione (e sostituzione) con la norma astratta
Da quella data in poi il sistema normativo si è evoluto sottraendo alle Norme Tecniche di Attuazione dei piani ogni riferimento a tipizzazioni architettoniche e arricchendo la Regolamentazione edilizia con norme astratte di natura prevalentemente igienico-sanitaria o procedurale in ossequio alla costante preoccupazione di garantire salubrità ai luoghi.
Una cautela però il Legislatore l’aveva posta affidando l’armonizzazione tipologico-estetica esclusivamente alla Commissione Edilizia che doveva (rectius: avrebbe dovuto) garantire la coerenza con l’ambiente (esistente o nuovo).
Come è finita è sotto gli occhi di tutti.
La Commissione Edilizia è oggi molto ridimensionata, neppure obbligatoria ma solo facoltativa a discrezione del comune (ex articolo 4, co. 2 del Testo Unico dell’Edilizia), perché, se ne valutiamo gli esiti sui fatti, ha dato di sé prove deludenti.
E ciò sia per l’individualità dei pareri singoli, sia perché spesso è mancata la professionalità adeguata e, quindi, l’autorevolezza dei pareri, sia per eccessiva discrezionalità e mancanza di adeguata motivazione che ha reso i pareri non inattaccabili a fronte di ricorsi di merito, sia per inevitabili influenze/condizionamenti (per così dire) localistici e “ambientali”. (Troppo vicino il potere al luogo del suo esercizio).
Così le sole norme astratte (in quanto oggettive) hanno preso il totale sopravvento garantendo (questo forse sì) il rispetto dei requisiti igienico-sanitari, ma certamente non quelli estetico-formali-tipologici dei luoghi.
Le norme non bastano a fare qualità architettonica.
La risorsa della pianificazione d’ambito
Se è vero che la zonizzazione ha consentito di superare la tipizzazione formale degli ambiti urbani sostituendola con norme astratte, è anche vero però che il Legislatore del 1942 non vi ha rinunciato del tutto in quanto la legge urbanistica fondamentale conteneva (e ancora contiene) un’innovazione sostanziale (all’epoca) a tutela della qualità urbana laddove istituiva la progettazione urbanistica di ambiti ristretti tramite lo strumento del piano particolareggiato con definizione planivolumetrica. (A questo in effetti preludevano gli schemi distributivi delle pianificazioni ante legge n. 1150/’42 cui si è accennato in esordio).
Non solo la prevedeva, ma la imponeva (articolo 13 della legge n. 1150/42) come unica modalità di attuazione del piano regolatore generale.
Nel piano particolareggiato riprendeva così respiro la necessità di un coordinamento architettonico-tipologico di un (pur ristretto) ambito urbano in quanto la coerenza di un’unica mano e un’unica visione compositiva di un insieme di edifici diventava imprescindibile condizione progettuale ed anche il parere della Commissione edilizia poteva esprimersi con motivazioni più solide, più generali e meno opinabili.
Il piano particolareggiato (obbligatorio) ben poteva surrogare il superamento della pianificazione per abaco delle tipologie o i meri suggerimenti distributivi esemplificativi di cui si è detto. In esso si concentrava il rispetto delle norme a presidio della salubrità dei luoghi e si prestava anche ad una dinamica evolutiva.
Non a caso lo stesso Legislatore aveva previsto la derogabilità delle norme astratte all’interno dei piani particolareggiati con previsioni planivolumetriche. (v. d.m. n. 1444/68). Una sorta di delega normativa alla progettualità dell’insieme.
Ma le cose non sono andate sempre così, come la realtà dimostra.
Complice una innata insofferenza per la pianificazione di dettaglio (che cela fors’anche una impreparazione culturale e professionale) e una parcellizzazione della proprietà immobiliare, l’attuazione dei piani è di fatto avvenuta (o a volte anche favorita) per interventi singoli, rispettosi certamente delle norme astratte di zonizzazione e di tutela igienico-sanitaria, ma sostanzialmente avulsi da un controllo estetico-tipologico della forma urbana.
Che poi la tipologia sia o no un valore da salvaguardare potrà anche essere oggetto di discussione culturale; sta di fatto però che abbiamo eluso il tema in modo pressoché inconsapevole.
L’identità dell’ambiente costruito
L’ambiente non è fatto di manufatti singoli, ma del loro insieme e qui sta la differenza (una delle differenze) tra architettura e urbanistica. Se non sbaglio gli esempi passati di costruzioni coordinate che hanno espresso l’anima di una comunità in un certo periodo storico e tipizzato le caratteristiche del luoghi diventano “patrimonio dell’UNESCO”.
Vero è che l’evoluzione tecnologica ha dato nuove libertà di espressione progettuale, ma spesso le nostre città risultano sgraziate perché questa “libertà compositiva” si manifesta spesso (come si dice) fuori contesto.
Il protagonismo – a volte meramente esibizionistico - di alcuni progettisti ha fatto il resto.
E’ giusto allora chiedersi come ciò sia accaduto e se vada proprio bene così, anche perché mi pare che il tema del controllo torni ad essere centrale proprio in questo momento in cui vedo affacciarsi nuove (o, meglio, rinnovate) insofferenze per la pianificazione d’ambito, motivate (ufficialmente) dall’esigenza della celerità di intervento che la progettazione urbanistica di dettaglio inibirebbe, ma in realtà sottese da motivazioni più terra-terra.
Un vecchio dilemma: Celerità contro Qualità, e siccome il tempo è denaro …….
Per questo vale la pena riflettere oggi sul tema, perché c’è il fondato rischio di rinunciare alla bellezza dell’insieme a favore di quella del singolo (pure ammesso che di bellezza si tratti).
Torneremo alle tipologie edilizie?
Certamente non torneremo alle tipologie edilizie, anche perché l’evoluzione tecnologica ne ha stravolto quei connotati che in passato erano riconoscibili in quanto consolidati da una tradizione costruttiva in lenta evoluzione e dalla tradizione insediativa. Erano frutto di una cultura condivisa.
Oggi l’evoluzione tecnologica ha innovato e stravolto (e continua a stravolgere) le tecniche costruttive e non è giusto (né sarebbe possibile) limitarle e contenerle. Sono il progresso e non si può limitare la libertà espressiva progettuale.
Inquadrarla in un sistema urbano però si può. Anzi si deve.
Il progresso non può essere concentrato e ridotto all’individualismo esasperato e il costruire del singolo non può non essere inquadrato in una visione urbanistica dell’insieme.
L’innovazione, se innovazione c’è, deve coinvolgere la città, o, per lo meno, sue porzioni significative. E nella rigenerazione urbana di cui tanto si parla il tema diventa cruciale.
Igienicità contro estetica?
Oggi le norme tecniche di attuazione dei piani si sono ridotte a dettare parametri di altezza, distanze tra fabbricati e destinazioni d’uso. Ovvero sono norme sui servizi (standards) e igienico-sanitarie, perché va detto che anche sulle destinazioni d’uso la recente legge Salva-Casa sta ponendo un’importante ipoteca.
Le norme igienico-sanitarie o le norme sul contenimento energetico (singolarmente prese) su cui si appuntano oggi le (pur giuste) premure non aggiungono caratteristiche di identificazione dei luoghi; sono altra cosa, sono mera tecnologia e non danno un’idea di stile e qualità di vita urbana come erano in grado di dare le vecchie tipologie edilizie.
Nel bene o nel male erano espressione di cultura identificativa della città.
La progettazione d’insieme
L’unica tutela che pare oggi residuare sta solo nella progettazione urbanistica d’ambito dove davvero la progettazione “deve” dilatarsi dal singolo al collettivo e dove il parere estetico-qualitativo (e anche tipologico) della Commissione Edilizia può esprimersi in modo compiuto e significativo.
Non a caso la legge urbanistica fondamentale e il suo decreto attuativo ne imponevano (e ne impongono) l’obbligatoria preventiva redazione qualora si superino certi parametri dimensionali.
Ma è proprio questo lo strumento che oggi pare si voglia mettere in discussione (anzi “dismettere”) perché, si dice, espressione di metodiche superate.
Il che sarà anche vero, ma se così è le metodiche vanno “sostituite” e non banalmente eliminate.
Come diceva una vecchia pubblicità: “ci vuole un’idea”.
Ma non vedo granché all’orizzonte.
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