Codice Appalti | Appalti Pubblici
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Nel Nuovo Codice dei Contratti Pubblici i principi ci sono, adesso bisogna applicarli

Analisi dei primi principi del Nuovo Codice Appalti, particolarmente significativi e certamente generali
(e che ben possono essere estesi a tutta l’attività della Pubblica Amministrazione): il principio del risultato e il principio della fiducia.

In modo innovativo il Codice appena approvato dedica un intero Titolo ai Principi che devono regolare la materia (e i comportamenti) degli operatori.

Questa non è una novità in assoluto, ma appare particolarmente significativa perché richiama concetti di etica che devono essere riaffermati nell’operatività di tutti i giorni a superamento di una tecnica legislativa che nei tempi recenti si è sempre più involuta nella regolamentazione di dettaglio.

Un salto culturale che l’Autore condivide auspicando che l’attenzione ai principi non si risolva – come purtroppo è successo in passato – in meri commenti accademici della prim’ora, ma diventi “prassi” applicativa sorretta necessariamente da adeguata professionalità che ne costituisce requisito.


I principi sono quei concetti fondamentali (quelle regole di comportamento) talmente radicati nella coscienza civile di un popolo da non dover essere dimostrabili (sono appunto “principi”, cioè ciò che sta al “principio”, all’“origine”) e che quindi non ci sarebbe neppure bisogno di scrivere.

Però a volte se ne perde la coscienza e forse valeva la pena metterli nero su bianco in un campo così tormentato perché palestra di poteri e di interessi (sociali ed economici) rilevanti.

Il nuovo Codice dei Contratti Pubblici lo fa ed esordisce con la proposizione dei principi fondanti della materia e col proposito di riformarne (o, quantomeno, di consolidarne) le fondamenta.

Principi nuovi (o vecchi?)

Ne elenca dieci nei primi dodici articoli, ma ci limiteremo a commentare i primi due che mi paiono particolarmente significativi e certamente generali (e che ben possono essere estesi a tutta l’attività della Pubblica Amministrazione): il principio del risultato e il principio della fiducia.

Sono una novità?

No. O, forse, sì.

Non è una novità il primo (quello del “risultato”) perché già nella riforma della Pubblica Amministrazione (leggi n. 142/90 e 241/90) erano stati posti i “principi” dell’“efficienza, efficacia, economicità” tanto che lo stesso Codice all’articolo 1, comma 3 riconosce che il principio del risultato altro non è che una “specificazione” di quelli appena richiamati.

Non lo è nemmeno il secondo (quello della fiducia).

Forse però una novità c’è e consiste nel fatto che, mentre nella leggi di riforma della P.A., questi principi erano sottesi e non diventavano criteri interpretativi espressi della norma, adesso il Legislatore li “impone” come tali per la “valutazione” degli operatori pubblici.

Lo fa incidentalmente all’art. 1, co. 4, ma poi lo sottolinea in modo perentorio all’articolo 4 quando afferma che i principi degli articoli 1, 2 (e 3) sono criteri interpretativi del Codice.

Non si era mai vista una volontà dichiarata in maniera così tassativa tanto che, per richiamarne l’attenzione e sottolinearne l’importanza e la inderogabilità, usa un solo articolo, di un solo comma, di una sola riga !

Laconico ma inequivocabile.

Sono solo questi i principi?

Ma i principi enunciati non sono i soli e trascinano all’attenzione anche gli altri connessi che presidiano il comportamento della Pubblica Amministrazione, in parte richiamati qua e là nel testo dei dodici articoli, in parte comunque sottesi e impliciti.

Tanto per citarne alcuni: la buona fede, la leale collaborazione, il giusto procedimento, la trasparenza, la par condicio, la rotazione, …..

Sovrano e imprescindibile è comunque quello della “legalità”, inviolabile e che detta le regole dell’ambito discrezionale in cui invece occorrerà far convivere gli altri.

Infatti non hanno tutti lo stesso peso. La loro attualizzazione dipende dai casi concreti e dalla valutazione che ne farà l’operatore.

Un principio che è anche obiettivo

A tal fine mi piace suddividerli in relazione al ruolo che assumono nel procedimento perché

  • alcuni sono requisiti imprescindibili dell’attività (la legalità, la trasparenza, la par condicio),
  • altri criteri di comportamento (la buona fede, la leale collaborazione, il giusto procedimento) in relazione al raggiungimento del risultato (la realizzazione dell’opera)

Vediamo così che il principio del risultato assume anche la configurazione di un “obiettivo”; in altri termini mentre gli altri principi si concretizzano nell’attività svolta, non è detto che l’applicazione del principio del risultato concretizzi davvero il suo raggiungimento.

La riforma della tecnica legislativa presuppone un’elevata professionalità

Un siffatto impianto riforma la tecnica legislativa da analitico-dispositiva a generale e implementabile in concreto in base appunto a criteri generali di interpretazione.

Amo la legislazione di principi quanto detesto quella analitica (la legislazione-regolamento). E’ più libera e più adattabile alle situazioni, più aderente al caso in esame; è come un vestito sartoriale rispetto ad uno preconfezionato.

Ma, come nell’alta sartoria, presuppone un’elevata professionalità.

Una professionalità non da manuale, ma di concetto, che sappia correttamente interpretare i principi (tutti i principi) graduandoli in relazione alla situazione specifica.

Laddove la legge non dispone la valutazione delle possibili vie da percorrere è lasciata alla sensibile interpretazione dell’operatore e …. alla sua responsabilità, che andrà sindacata in relazione alla ragionevolezza e opportunità delle scelte discrezionali possibili (legali) finalizzata al raggiungimento del risultato in base appunto ai principi di cui agli articoli 1, 2, 3.

I limiti di legalità e … di opportunità

Il primo compito dell’operatore/interprete è allora quello di individuare i limiti della legalità entro cui è possibile effettuare le scelte ovvero gli spazi di operatività della discrezionalità.

E questo mi pare sconcerti un po’ gli addetti ai lavori.

Trascuro le norme penali il cui rispetto appare ovvio (sono un requisito imprescindibile di cui abbiamo già detto essendo costitutive della “legalità”).

Farei solo notare che tra gli ambiti proibiti dalla norma penale (illiceità) e dalla norma civile e amministrativa (illegittimità) c’è pur sempre una zona di confine che è quella dell’inopportunità) nella quale consiglierei comunque di non avventurarsi.

Per non inficiare il secondo principio di cui diremo tra poco che è quello della “fiducia”.

L’inopportunità è quello spazio discrezionale, non codificato se non dalla coscienza individuale e dal comune sentire, che rende sconsigliabile un certo comportamento.

Parlo dell’Etica ovvero di quei comportamenti non vietati dalle norme di legge e, dunque, non soggetti alla valutazione del giudice, ma alle norme deontologiche di competenza delle Amministrazioni e/o degli Ordini professionali che possono dar luogo a procedimenti sanzionatori in sede disciplinare o, ancor meglio, regolati dalla coscienza individuale.

In molti allora sono chiamati a concorrere all’applicazione delle nuove norme del Codice per cui tra i principi cui ispirarsi aggiungerei quello dell’opportunità che anch’esso deriva dalla declinazione di un principio più ampio che è il “buon andamento” (correttezza e coerenza) dell’attività della Pubblica Amministrazione.

Il principio della fiducia

Siamo così scivolati senza neppure accorgercene nel secondo principio, quello della fiducia anch’esso declinazione di un altro principio generale quello della “buona fede” e della “leale collaborazione” che però funziona bene se è a doppio senso (dal pubblico verso il privato, ma anche dal privato verso il pubblico).

Anzi, stando alla lettera dell’articolo 2 è un principio circolare che lega e investe (deve investire) l’amministrazione, i suoi funzionari, gli operatori privati.

Anche questo in capo alla PA dovrebbe essere un presupposto essenziale caratterizzante da sempre l’attività pubblica e di diretta derivazione dell’“eticità” di cui abbiamo appena detto.

Dovrebbe esser implicito: ho sempre sostenuto e interpretato che la Pubblica Amministrazione deve essere etica per definizione: chi svolge un’attività pubblica dovrebbe sentirsi orgoglioso di fare un’attività a servizio della collettività e investito sì di un “potere” che proprio per questo deve essere improntato al “pubblico interesse”.

Se il comportamento è “etico” la “fiducia” è implicita.

Purtroppo questo principio si è stemperato nel tempo e nel comune sentire la Pubblica amministrazione non gode più di una fiducia “a prescindere”.

Fare scelte discrezionali - come oggi vuole il Legislatore - vuol dire avere autorità e potere, ma non basta; occorre avere condivisione e autorevolezza e senza professionalità non c’è autorevolezza.

La perdita di credibilità ha comportato la perdita di autorevolezza e senza autorevolezza non c’è autorità che tenga.

Bene ha fatto il Codice a riaffermare questo principio come “presupposto” dell’attività pubblica, ma non si acquisisce in automatico per legge; bisogna coltivarlo e conquistarlo con l’etica e la professionalità.

Diciamo che se il principio del risultato va perseguito (e quindi dipende dalla volontà degli operatori) quello della fiducia va premesso per cui dipende da un “apprezzamento” esterno e va conquistato (o, se si preferisce, ri-conquistato).

Gli episodi corruttivi hanno minato la fiducia nelle istituzioni e indotto un pre-giudizio

Diciamo che la legislazione di dettaglio è stata dettata anche dalla preoccupazione dei prevenire la corruzione.

E la conseguenza è stata una progressiva restrizione e regolamentazione dei comportamenti fino a soffocare l’autonomia decisionale ritenuta intrinsecamente foriera di illegalità se non addirittura di corruzione. Ma questo succede solo se manca l’“etica”.

I risultati non sono stati soddisfacenti: né sul piano dell’efficienza, ma neppure su quello della prevenzione della corruzione

Il nuovo Codice cerca di uscire da questa spirale perversa (e anche ingiusta) che ha indotto a pensare che il campo degli appalti pubblici fosse il terreno privilegiato della corruzione.

Nel recente passato l’ombra della corruzione incombeva a prescindere sugli appalti pubblici, tanto che anche l’Autorità preposta era passata da Autorità di Vigilanza sui Contratti Pubblici (AVCP) ad Autorità Nazionale Anti Corruzione (ANAC) quasi che la corruzione fosse un corollario implicito degli appalti pubblici. Se le denominazioni hanno un senso il significato era chiaro: “Nomina sunt consequentia rerum” dicevano i latini.

Pregiudizio (nel senso di giudizio “a priori”) purtroppo testimoniato da disdicevoli e inammissibili episodi ma ingeneroso nei confronti della totalità degli operatori che in questo campo lavorano correttamente.

E’ superfluo dire che gli episodi corruttivi vanno duramente perseguiti e repressi proprio a favore di quanti (la maggioranza) operano correttamente (e con grande responsabilità).

Non sarà facile affermare il principio della fiducia nella collettività, però intanto applichiamolo da parte di chi deve operare e soprattutto, da parte di chi deve giudicare, quanto meno perché oggi lo impone la legge!

Applicare i principi presuppone anche uscire dai pregiudizi.

Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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