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Il corpo e il ponte

Attraverso porte, muri, ponti e volti, la narrazione intreccia memorie, desideri e mitologie urbane, dove l’architettura diventa corpo simbolico e custode di soglie interiori. Le città si rivelano organismi sensibili e stratificati, teatro di rivelazioni intime e conflitti collettivi. La parola scritta abita e costruisce lo spazio come un atto di resistenza poetica e visione metamorfica del reale.

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Parole e porte

“Tra i gesti del mondo ho avuto quelli che offrono le porte.”

Sbarrate, semichiuse, aperte come una melagrana.

Sembrano delle Sibille piene di polvere a volte. A volte molluschi senza marea. Sono girate in modo mi girino le spalle, soffocate nel loro legno. “Quando busso esse mi turbano come già la prima volta.” Tuniche verticali o sigillati pozzi, con battetti rianimati come gazzelle e il canto dei cardini. Se le attraverso, nuvole nella tormenta, sono salvezza o condanna?

Gabriela Mistral cammina con me nella mia casa di libri a tarda sera e mescola le mie con le sue parole come capelli in un abbraccio di diverse età.

Impronte dei muri calcano l’umido respiro dove aspetto di essere raccolto al sonno. Mi rivedo bambino correre tra le porte nel buio. E mia madre, dal fondo del corridoio, mi chiama per darmi sicurezza al percorso tenuto con un filo di favola stretto alle sue riverberanti parole. Come un aquilone nel cielo.

 

Un mio scatto rapito dalla spiaggia verso la duna dell’ex Colonia Varese, dove i ricordi di un’infanzia bambina rendevano possibili gli aquiloni in cielo.
Un mio scatto rapito dalla spiaggia verso la duna dell’ex Colonia Varese, dove i ricordi di un’infanzia bambina rendevano possibili gli aquiloni in cielo. (Marcello Balzani)

  


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Riempire la stanza imbiancata di parole

La metafora è ovunque intorno a noi, imbianca e sbianca ogni superficie convenzionale, può demolire ipocrisie e rigenerare tessuti di significati. Percepisci come ti abbraccia e ti stringe? Penetra in ogni progetto e sorride e allude in ogni relazione. Probabilmente Anne SEXton è, insieme a Sylvia Plath, un’anti-icona indelebile di quel mondo (e modo) poetico di cui abbiamo bisogno di confessarne l’esistenza!

Eccola, arriva, all’orologio si inceppa il motore, come se una rana sulla meridiana le prendesse un colpo apoplettico.

Doktor basta con la tua scienza! Non mi imburra! Dici che il mio cuore è “malatissimo”? Dovresti avere più rispetto! Il Picchiamogli si aggira masticando pezzetti rossi del mio cuore. Con la lingua rasoio bacerà la madre e la bambina. Il mio arco è teso. Il mio arco è pronto. Io sono la pallottola e il gancio. Sono armata e pronta. Io sono al centro della sensazione. Sono stata io a farti ammattire? I miei piedi caricati a molla come un cobra che ti fissa, due isole durante il terremoto, due navi in collisione… Adesso lei aveva una grande coscienza: era incinta dei suoi istinti. Sto riempiendo la stanza imbiancata con le parole che escono dalla penna. Il mio uccello dell’ambizione vuole volare sulla mano di Michelangelo per riuscirne dipinto sulla volta. Sono un’Accumulatrice seriale di parole!

Queste sono le parole incendiarie di Anne SEXton ne “The Book of Folly” con la prima traduzione integrale in italiano curata da Rosaria Lo Russo per La nave di Teseo. Amo il sarcasmo blasfemo, adoro l’ironia tragica, mi fa impazzire l’allegoria psichedelica di Anne SEXton.

Come il sonetto in una barzelletta sconcia.
Come ingoiare la mia carne acerba e ritornare ogni primavera.
Come essere insieme a te un paio di forbici e dividere in due l’oceano.

Scorrete le pagine de “Il Libro della follia” in qualunque momento abbiate bisogno di dare un senso diverso al quotidiano: quale delizia! Non puoi mettere il tempo alla catena.

Anne SEXton sai che le onde a volte nuotando nel mare (mia abitudine e godimento massimo) le sento anch’io profonde come balene avvistate in branco? Sono passati oltre cinquant’anni dalla stampa de “The Book” e come il Mister Eliot di una sua stupenda lirica vorrei arrivare in volo dall’Australia e fare un’unica domanda alla dogana una volta atterrato: è ancora viva la SEXton?

 

Dettaglio de “La morte di Chione” mirabile olio su tela di Nicolas Poussin dipinto nel 1622 e tematicamente tratto dal XI Libro delle “Metamorfosi” di Ovidio.
Un mio scatto di un dettaglio de “La morte di Chione” mirabile olio su tela di Nicolas Poussin dipinto nel 1622 e tematicamente tratto dal XI Libro delle “Metamorfosi” di Ovidio. Non so se ad Anne SEXton sarebbe piaciuto vedersi paragonata a Diana: sospesa divinità della letteratura del Novecento con il suo arco in cui inforcare frecce di metaforiche parole così perfette da eliminare ogni ipocrita antagonista! Vedi come il suo arco è teso? Il suo arco è prontissimo! Ancora e sempre. (Marcello Balzani)

  


4

Uno strip-tease a rovescio

La città forse è solo come una casa nuda che a poco a poco viene vestita e diviene un romanzo. Jorge Mario Pedro Vargas Llosa aiuta a percorre questa metafora della creazione e a perdersi dentro come in una foresta in cui i segreti appaiono al mutare del vento e della luce ad ogni incrocio (anche con se stessi).

In ogni storia c’è sempre un segreto. A volte serve la loquacità di un momento (della vita) per farlo emergere.

Nasconderlo è una condotta comune. Rovente appare ogni ricordo quando, nel saccheggio del desiderio, si rimette in libertà. Le città possiedono una vita interiore e odiano l’isolamento, come ciascuno di noi. Quindi anch’esse morsicano e increspano da predatore o da mare. Le città fingono e criptano, aspettano, scendono a compromessi, insultano, annuiscono e inorgoglite espongono un nuovo taglio di capelli, come gli occhi che lacrimano. Si può tentare di tradurle, ma vengono sempre tradite. Scrivere un romanzo è una cerimonia.

È uno strip-tease a rovescio, diceva Mario Vargas Llosa, e tutti i romanzieri sono discreti esibizionisti. Come la ragazza che, sotto impudichi riflettori, si libera dei propri indumenti e mostra, a uno a uno, i suoi incanti segreti. Così si mette a nudo la propria intimità in pubblico, fatta di nostalgie, colpe e rancori.

Ma in realtà all’inizio dello scrivere si è nudi e poi alla fine vestiti. Tutto viene, un po’ per volta, maliziosamente mascherato. E il cuore della propria vita è perso nella finzione. Quando l’atmosfera si addensa e sembra sul punto di esplodere con tuoni, pioggia e fulmini, è bello mettersi nel terrazzo a cenare. Il cibo caldo veste e riempie. I pensieri crepitano. Le labbra sono fragranti come la pioggia nella calda estate. Aspettarsi con dolcezza. Reggersi forte alla vita.

Respirare il profumo che emana la pelle bagnata (come di terra e di strade).

Parlarsi teneramente all’orecchio.

Afferrarsi. Stringersi…

La città forse è solo una casa (nuda e poco a poco vestita) e diviene un romanzo. “La Casa Verde” e “Storia segreta di un romanzo”, (del grande premio nobel peruviano da poco scomparso) tradotti da Glauco Felici e Enrico Cicogna per Einaudi, accarezzano i miei capelli mentre la testa si piega sulla tua spalla. Baciala! Non ci sono inganni. Il segreto sorgerà all’orizzonte come un arcobaleno.

  

Mostra su “Casorati” curata da Giorgina Bertolino, Fernando Mazzocca e Francesco Poli.
Un mio scatto di dettaglio realizzato in Palazzo Reale a Milano nella recente e bella mostra su “Casorati” curata da Giorgina Bertolino, Fernando Mazzocca e Francesco Poli. Lo sguardo sulla realtà è sempre (in qualche modo) “magico” e il “corporeo” (nudo e vestito) assume un ruolo incessantemente “attivo” nel strutturare metafore e leggende. (Marcello Balzani)

 


3

Muri

“Per chi e che cosa costruiamo muri? L’architettura non lo sa, agisce semplicemente, dilata, altera, frammenta, compie azioni meccanicamente, risponde al potere delle armi, della natura o della politica. L’architettura non lo sa, cambia lo spazio e le vite degli uomini, il muro contiene lo spazio e per farlo fino in fondo, diviene profondità nella nostra corteccia cerebrale.” (Da Simone Gobbo, “L’innocenza del muro”)

Continua ad alimentare la storia incessante del confine, dai concatenamenti di Gilles Deleuze all’ideologia culturale del muro, elasticamente come lo definisce Eyal Weizman o rappresentativamente come lo struttura Étienne Balibar. È un marker territoriale. Può smaterializzarsi? Registra i conflitti nelle sue entità contrapposte? O indica una coabitazione mediata? Solco sacro e misura del mondo non è un terminal ma uno strato, un buffer intermedio. Stupro naturale di sequenze discontinue, innocente o profanante? Il muro pecca leopardianamente “senza rimorso”?

Si ammala nell’abbandono perché non viene abbracciato, inciso, segnato, sovrascrivendo la realtà, svelando nuove appartenenze, in ogni crepa di un sistema così apparentemente continuo. Nel movimento del tempo emerge come uno spazio del conflitto, ma poi aiuta ad esplorare nuove potenzialità di adattamento. Camminando nel paesaggio si riconosce il muro come “rovina persistente”: una “formula antica” che ha reso possibile l’addensarsi, il precipitare della materia. Corpo e coscienza si neutralizzano: controllato e controllore si scambiano i ruoli. Dove ti trovi? In quale dentro? Sei fuori? Nella geografia dei vuoti l’internità dell’esterno, di cui scrive Giancarlo Consonni, rende possibile la ricerca di nuove stabilità.

Simone Gobbo nel suo saggio “L’innocenza del muro” edito da Quodlibet mia aiuta a comprendere come da sempre sono un “viaggiatore nel confine”: di fondo (nel mare) o di crinale (anche nell’increspar d’onde quanto di colline).

Cerco i fianchi, le scoscese, raggiungo le linee che in parte io stesso disegno, come tracce.
Con me porto la porosità della mente: assimilo, assorbo, congiungo, dilato e interseco. Desidero. Sempre.

 

Un’opera di Damien Hirst presentata all’interno della sua mostra “Archaeology Now” allestita qualche anno fa in Galleria Borghese a cura di Anna Coliva e Mario Codognato.
L’immagine è un mio scatto cromaticamente rielaborato di un’opera di Damien Hirst presentata all’interno della sua mostra “Archaeology Now” allestita qualche anno fa in Galleria Borghese a cura di Anna Coliva e Mario Codognato. I muri sono dentro e sopra e intorno a noi. Disegnano il nostro corpo come lo spazio che immaginiamo e costruiamo. (Marcello Balzani)

  


2

Puro volto

“Era di eccezionale bellezza Medusa, desiderata e contesa da molti pretendenti, e in tutta la sua persona nulla era più splendido dei suoi capelli: ho conosciuto chi sosteneva di averla vista. Si dice che il signore del mare la violasse in un tempio di Atena: inorridita la casta figlia di Zeus con l’egida si coprì il volto, ma perché il fatto non restasse impunito mutò i capelli della Gorgone in ripugnanti serpenti.” (Ovidio, IV libro delle “Metamorfosi”)

Puro volto. Rappresentato sempre frontalmente, come una maschera. In equilibro tra due poli “l’orrore del terrifico, il ridicolo del grottesco” in una affinità con “la rappresentazione brutale del sesso, femminile o maschile”. Per la dimensione femminile c’è una affinità con la dea Baubo, nel suo carattere doppio e simmetrico di Ecate infernale ma contemporaneamente di donna indecente e licenziosa nella sua risata, in grande correlazione con i Satiri e i Sileni.

Il sesso femminile si esibisce come il “phallós” maschile: “effetto liberatore di una sessualità sfrenata”. Il volto di Medusa possiede queste duplicità che scorre tra il mostruoso (criniera animalesca o irta di serpenti, orecchie bovine, bocca enorme ghignante con zanne o denti aguzzi, lingua protesa) e l’iniziatico gridante (deridente, sconcio, sfrenato, osceno scherzoso) di una processione eleusina. Il dionisiaco scorre nella funzione che Medusa acquisisce col tempo e che fa emerge quel “religioso primitivo” ancora potentissimo. L’egida di Atena e lo scudo di Agamennone hanno impressa questa maschera: un potente terrore sovrannaturale, allo stato puro che è anche grido di guerra, “voce di bronzo”, furore irradiato nello stridore dei denti dei mille serpenti. Un suono, quello dei serpenti di Medusa, che Atena imita quando inventa il flauto, strumento orgiastico e dionisiaco, che conduce alla trance e alla possessione.

Quei vitali lunghi capelli come li portavano i giovani guerrieri spartani e che dovevano renderli più terribili. “Colui che è bello diviene più affascinante con i capelli lunghi, mentre chi è brutto diviene più orribile”, scriveva Licurgo. In fondo anche Artemide ha il suo lato gorgonico come Atena, ambedue vergini e selvatiche puledre mai ammansite. Riti di iniziazione per donne tenute virili e ipermascoline (non tanto nei tratti quanto nei caratteri), fatte di una femminilità “preliminare” e primitiva. Ecco quindi che il volto di Medusa possiede anche quel terrore e quel potere che associano la preda con il cacciatore, la causa con la vittima, l’uccisore con il suo ucciso.

Quando a Firenze vado per pura gioia e non per lavoro, non mi dimentico mai di restare sotto la Loggia dei Lanzi in piazza della Signoria a godere del perfetto corpo bronzeo fuso a cera persa di Perseo, che mostra la testa alzata di Medusa, come sognò Benvenuto Cellini. Rimango un po’ nell’ombra delle campate e cerco di non sentire l’urgano dei turisti che approdano come frotte di dannati sulle sponde dello Stige.

Immagino “La morte negli occhi”, come ebbe da scrivere Jean-Pierre Vernant in quel suo saggio memorabile, che qui cito più volte.

Immagino Perseo che mozza (con il medesimo falcetto che era servito a Crono per castrare Urano) la testa di Medusa, facendone uscire nel sangue, quasi fosse linfa materna, il cavallo alato Pegaso e suo fratello.

Immagino le parole del IV libro delle Metamorfosi di Ovidio, che si chiede perché solo Medusa fra le sorelle avesse i capelli irti di serpenti.

Immagino la pienezza vitale e la violenza mortale, ambedue smisurate, del femminile dionisiaco…

 

Dettaglio della statua di Perseo di Benvenuto Cellini che si trova a Firenze sotto la Loggia dei Lanzi.
É un’immagine, da me rielaborata digitalmente, di un dettaglio della statua di Perseo di Benvenuto Cellini che si trova a Firenze sotto la Loggia dei Lanzi. So che le Gorgoni discendono dall’enormità mostruosa di Forco e di Ceto e abitano e proteggono le frontiere del mondo e dell’Ade, ma ogni volta che il mio sguardo scorre su quei due profili rivedo il cacciatore celeste (tanto caro a Roberto Calasso) cacciato come una preda. E forse comprendo meglio l’ambivalenza che ci appartiene e che ci rende (anche) divini. (Marcello Balzani)

 


1

Il corpo e il ponte

Uno straordinario dettaglio monumentale del tessuto urbano può essere unità di misura (culturale e storica) della città di Rimini. E dopo oltre duemila anni sembra possedere il potere di curvare ancora la nostra scala abituale di percezione, perché è due cose contemporaneamente: contesto (ne determina il senso e la struttura del luogo) ed eccezione al contesto (forma e qualità appartengono ad una dimensione materiale che sfugge alla lettura immediata).

“Era di corporatura grande e robusta, di statura superiore alla media, largo di spalle e di torace e ben proporzionato in tutte le parti del corpo, fino ai piedi. Aveva la mano sinistra particolarmente agile e forte e le articolazioni così robuste da trapassare col dito una mela appena colta e sana. (…) I suoi occhi erano grandi e, cosa notevole, ci vedevano anche di notte al buio, ma per poco tempo, e solo quando si aprivano subito dopo il sonno…”.

Eccolo lì, un anellare di cerchi nessuno uguale all’altro, come una catena di pietra d’Istria che dalle dita degli imperatori sgrana ancora mitologie, resistenti al tempo, dimostrando di essere parte del corpo della città. Nell’asse della via Emilia sembra dividere l’universo terracqueo in orizzontale e verticale, freccia di una bussola che sa riconoscere il suo genius loci.

Quattro anno fa ha compiuto duemila di anni, dal termine della costruzione, il ponte romano di Rimini. Rileggendo la descrizione di Svetonio nel LXVIII della “Vita dei Cesari” sull’aspetto di Tiberio, emerge una metafora: il corpo e il ponte.

Cosa gravita in quel dettaglio urbano che può essere metro dell’universo dell’umanità? Possiede il potere di curvare la nostra scala abituale di percezione perché è contesto ed eccezione al contesto contemporaneamente.

Guarda nel buio l’occhio di Tiberio e sfila il suo anello dal dito.

Il mare attende e il ponte attraversa il tempo.

 

È un mio scatto del ponte di Augusto e Tiberio a Rimini .
È un mio scatto del ponte di Augusto e Tiberio a Rimini durante le fasi di scansione tridimensionale per la realizzazione di un saggio di ricerca de “Il ponte perfetto”, una pubblicazione (a cura di A. Fontemaggi, O. Piolanti e F. Minak) voluta dal Comune di Rimini per celebrare la sua storia millenaria. Ho ribaltato di novanta gradi e virato cromaticamente il ponte e il suo riflesso. Dove è il ponte? Sott’acqua? Forse sono occhi o forse anelli o forse la freccia di una bussola... (Marcello Balzani)

 

 


Dalla rubrica «Marcello Balzani: tra Parola e Immagine»

C’è un numero che, più di altri, incarna l’idea di equilibrio e compiutezza: sei. È il primo numero perfetto, perché somma dei suoi divisori (1, 2, 3), ma è anche la metrica dell’esametro omerico, che ha guidato per secoli il racconto del viaggio, del mito, dell’umano.

A questo numero si ispira la struttura di “Perfetto Sei”, una rubrica che raccoglie i testi di Marcello Balzani come pensieri in cammino, intrecciati a immagini e citazioni che non illustrano, ma evocano, non spiegano, ma interrogano.

Il titolo è anche un gioco di specchi: si può leggere come “Sei perfetto”, allusione alla somiglianza divina dell’essere umano, fatto — secondo la tradizione — a immagine di Dio. Un invito, forse, a riscoprire nel frammento la traccia di un’armonia nascosta.

Ogni articolo della rubrica ospita progressivamente sei pensieri. Sei come unità compiuta, come sequenza che diventa ciclo. Quando l’articolo si completa, ne nasce uno nuovo. E ogni nuovo inizio si pone in cima alla serie, come il primo passo di un nuovo viaggio. L’intero progetto si dispiega così in una serie aperta di cerchi perfetti, ognuno con il proprio tema originario e la propria traiettoria di senso.

PERFETTO SEI

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