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Tolleranza e sanatoria: non confondiamo

Da quando il Legislatore - dapprima con l’aggiunta del comma 2-ter all’articolo 34 del DPR 380-01 e poi con la sua sostituzione con l’articolo 34-bis ex legge 120/2020 - ha introdotto la definizione giuridica dei “tolleranza” si sono poste (neanche a dirlo) le questioni interpretative della norma.

Anche perché se ne è fatta una lettura equivoca, assimilandola ad una sorta di sanatoria impropria. Ma così non è, e l’Autore ne affronta una disamina che la riconduca ad una corretta applicazione anche se – a fronte dell’introduzione delle tolleranze qualitative - restano alcuni spazi di interpretazione soggettiva.

Si sente dire a volte, anche da autorevoli fonti, che la tolleranza è una forma di sanatoria (di sanatoria implicita), ma l’affermazione è concettualmente sbagliata e vale la pena rettificarla perché la terminologia sottende una sostanza e non si possono confondere termini diversi se sono rappresentativi di sostanze diverse.

Come dicevano i latini: “Nomina sunt substantia rerum”.

Concettualmente

La sanatoria presuppone un abuso - ovvero l’esecuzione consapevole o meno di un manufatto in violazione delle norme (difformità o assenza di titolo) – ed è il rimedio che ne consegue per riportarlo a legittimità.

La tolleranza invece è il riconoscimento di una impossibilità intrinseca di una migliore precisione nell’esecuzione di un manufatto il quale (essendo opera dell’uomo) è necessariamente affetto da un’approssimazione passando dall’astratto (il progetto) al reale (l’oggetto). Le tolleranze sono le difformità “di cantiere”.

O, anche, conseguenti alle ineliminabili imprecisioni degli strumenti di misurazione del reale.

Dunque la tolleranza e la sanatoria appartengono a due universi distinti e comportano un diverso atteggiamento con cui guardare e trattare un fatto involontario (la tolleranza) o volontario (la sanatoria).

Proprio qui sta la differenza concettuale: la volontarietà (o la responsabilità) del fatto.

Per cui non è lecito pensare (come a volte si sente dire): “faccio l’edificio un po’ più grande purché rientri nelle tolleranze”, perché in quel caso l’applicazione della tolleranza sarebbe a dir poco impropria.

La variazione dimensionale deve essere la conseguenza di una impossibilità tecnico-esecutiva di una maggiore precisione per un operatore di media competenza.

Al riconoscimento della tolleranza consegue la necessaria “accettazione” del prodotto.

Se così è la sanatoria ha bisogno di una procedura, il riconoscimento della tolleranza no.

La “quantificazione” della tolleranza

Ed è evidente che l’”entità” della tolleranza dipende dal tipo di manufatto: la tolleranza di un prodotto di oreficeria sarà diversa da quella di un prodotto edilizio.

Per anni in edilizia la tolleranza è stata affidata alla prassi (in base al principio generale della buona “regola d’arte” ripresa dall’articolo 2224 Codice Civile e desunta dal “buon senso”).

Una prima citazione legislativa risale all’articolo 15 della legge n. 765/67 (recepito come articolo 41-ter nella legge n. 1150/42) ma riferito all’epoca alle condizioni di godimento di benefici fiscali e inserito al Titolo IV-“Disposizioni generali e transitorie”.

Neppure il Testo Unico dell’Edilizia se ne è occupato nella sua prima stesura e solo nel 2011 lo ha trattato in modo esplicito aggiungendo il comma 2-ter all’articolo 34 (con l'articolo 5, comma 2, lettera a), numero 5), del D.L. 13 maggio 2011, n. 70, convertito con modificazioni dalla Legge 12 luglio 2011, n. 106).

L’articolo 34 trattava (e tuttora tratta) degli “Interventi eseguiti in parziale difformità dal permesso di costruire” per cui appariva abbastanza improprio che il Legislatore avesse inserito qui la definizione delle “tolleranze” per dire poi che non erano interventi in parziale difformità.

Tanto che con la legge n. 120 del 2020 (conversione del d.l. semplificazioni 1) il Legislatore ha rettificato il tiro espungendo la definizione della tolleranza dal comma 2-ter dell’articolo 34 e creando un articolo specifico (il 34-bis) nel quale meglio dettagliarne i contorni.

E questo conferma – se ancora ce ne fosse bisogno – la differenza concettuale di cui abbiamo detto in esordio di questa trattazione, specificata ora apertis verbis al comma uno in cui si afferma che le tolleranze non costituiscono “violazione edilizia” : dunque non accedono neppure da lontano al concetto di “difformità”, né, tantomeno, accedono alla sanatoria.

Ciò detto dal punto di vista concettuale, la norma quantifica la tolleranza sia dal punto di vista metrico che (per così dire) qualitativo.

La norma risponde all’esigenza di dare certezze di applicazione ad un principio e ad una prassi, ma certo è che quando si passa dalla prassi (che come tale è elastica e tiene conto anche della "tradizione") e la si parametrizza alla ricerca dell’oggettività in una norma (che per sua natura è più rigida) è fatale che si creino situazioni di potenziale incongruenza.

Vediamo in dettaglio.

La tolleranza metrica

Il legislatore ha deciso di fissare la tolleranza metrica nel 2% in termini assoluti per “ogni parametro edilizio”, indipendentemente dalla dimensione.

Sul punto non vi è differenza tra il previgente comma 2-ter dell’articolo 34 e il nuovo articolo 34-bis, se non la precisazione che le tolleranze si riferiscono oggi alle misure dell’“atto abilitativo” e non a quelle di “progetto” (il che però poco cambia) e quella che espressamente esclude le tolleranze dalle “violazioni edilizie” mentre la previgente norma asseriva (come abbiamo detto) che non costituivano “parziale difformità” (espressioni simili, ma non esattamente sovrapponibili).

Certamente la tolleranza metrica risponde al requisito di nascere “in cantiere”.

La tolleranza “qualitativa”

Più innovativa (e anche un po’ fuori dagli schemi) è l’aggiunta che l’articolo 34-bis ha introdotto al comma 2.

Qui, più che di vera e propria “tolleranza” esecutiva (ovvero il riconoscimento di imperfezioni esecutive), si tratta di una miscellanea di problematiche che vanno:

  • dalle “modifiche delle finiture degli edifici” di minima entità e diversa collocazione degli impianti (ma quando mai in un progetto edilizio scala 1:100 o anche 1:50 si definiscono le “finiture” e il posizionamento degli impianti elettrici, termici, idrici, telefonici, TV, …. ? e poi perché le modifiche alle finiture degli edifici è ripetuto due volte nel testo? quale differenza nasconde ?)
  • alla diversa collocazione delle “opere interne
  • alle “irregolarità geometriche

il tutto a condizione che:

  • siano frutto dell’esecuzione di “lavori in attuazione di titoli abilitativi edilizi” e cioè non esecuzioni a sé stanti (difficile da dimostrare lo sfalsamento temporale)
  • non impediscano l’acquisizione dell’agibilità dell’immobile.

Così collocata, in un comma autonomo che volutamente si discosta dal primo comma, le tolleranze qualitative paiono sottrarsi al limite percentuale del 2% e soggiacere solo al concetto di “minima entità” che però ripropone una valutazione discrezionale.

Valutazione discrezionale che potrebbe essere superata riportando la “tollerabilità” al limite oggettivo di non essere di pregiudizio all’agibilità.

Quel che appare interessante (da un lato, ma ambiguo dall’altro) è il tema della diversa collocazione delle opere interne e delle irregolarità geometriche.

Le opere interne

Quanto alle prime, per chi ha buona memoria, il tema delle opere interne richiama alla mente il mai sufficientemente lodato articolo 26 della legge n. 47/85 (antesignano delle dichiarazioni di parte, poi sviluppatesi per gemmazione nelle d.i.a., s.c.i.a., c.i.l.a., c.l.a.s., c.i.l.) che consentiva l’esecuzione di “opere interne all’edificio” con semplice comunicazione di parte senza neppure una cartografia allegata.

Si tratta allora di un revival di quella norma? Sarebbe interessante accertarlo ma temo che, per una serie di considerazioni correlate, sia difficile poter dedurre una liberalizzazione di questa tipologia di interventi interni ricomprendendola nelle tolleranze; ma se così non è la disposizione ha poco (o nullo) rilevo pratico applicativo.

Le irregolarità geometriche

Quanto alle irregolarità geometriche l’intento del Legislatore appare in sé anche lodevole, ma la formulazione è alquanto generica e aspecifica e vuol dire tutto o nulla a seconda dell’interpretazione più o meno benevola che se ne vuol dare.

Se volessimo restare fedeli alle sole discrepanze esecutive “di cantiere” dovremmo annoverare in questa tipologia solo disallineamenti delle murature rispetto al progetto, ma la portata dell’innovazione sarebbe davvero minima.

Presumibilmente l’intento era quello di “tollerare” anche modalità di rappresentazione oggi non più accettate, ma abituali in passato, soprattutto nel periodo post bellico, quando l’ansia da costruzione consentiva approssimazioni di rappresentazione grafica che oggi vengono catalogate come irregolarità: ergo abusi soggetti a sanatoria.

Si potrebbe citare, ad esempio, la prassi di rappresentare gli spessori dei solai in modo convenzionale/parametrico indipendentemente dalla realtà o altre genericità di riporto grafico nel disegno dei lotti.

Resta però irrisolto il problema della traslazione delle finestre (ricorrente in passato come scostamenti esecutivi dal progetto), ma che sicuramente non è annoverabile né nelle opere interne, né nelle finiture e solo forzosamente riconducibile (forse) alle irregolarità geometriche (anche perché coinvolge i prospetti su cui da un po’ di tempo il Legislatore pone grande attenzione).

Si tratterebbe di imprecise modalità di rappresentazione abituali in epoche passate ed oggi non più ammissibili e dunque tollerabili solo in quanto riconoscimento di una “prassi”: non scostamento esecutivo “dal” progetto, ma sommarietà di rappresentazione “del” progetto.

Dunque non vere e proprie imprecisioni esecutive ex post, ma di disegno ex ante.

In questo la norma vorrebbe innovare, ma si tratta di “irregolarità” difficili da codificare per il cui apprezzamento sarà quanto mai opportuno riconoscere legittimità alle “prassi” e, perché no?, applicare il buon senso che sono entrambi (la prassi e il buon senso) legittimi criteri interpretativi della norma.

Possiamo dunque dire che, complessivamente, la norma ha inteso perseguire un fine condivisibile, anche se la formulazione letterale è criptica e poteva essere più accurata.

Il che la espone all’inevitabile “interpretazione” locale.

Tanto che sono fiorite interpretazioni regionali (o comunali) tra loro difformi che, se da un lato attestano la non inequivoca lettura della norma, dall’altro inducono un’ingiusta incertezza del diritto e disparità di trattamento territoriale.

Difficile allora per un tecnico “asseverare” – come si dirà tra poco – senza tema di poter essere smentito.

L’asseverazione della tolleranza e l’applicazione retroattiva

Il comma 3 appare come una norma di chiusura in parte implicita e in parte un po’equivoca.

Dato atto (al comma 1) che le tolleranze non sono violazioni edilizie appare implicito che un tecnico abilitato ne debba dare atto nelle richieste di nuovi interventi edilizi per i quali è richiesta la dichiarazione dello “stato legittimo”: se le difformità rientrano nelle tolleranze lo stato di fatto è “per sua natura e definizione” legittimo, ma qualcuno lo deve pur asserire in sede tecnica.

E questo è quanto richiede la prima parte del comma 3.

Equivoca è invece la seconda parte del comma, laddove afferma che analoga certificazione di “tollerabilità” andrebbe formulata con “dichiarazione asseverata” (e come sennò?) “allegata” agli atti di trasferimento (e simili) di diritti reali (negli atti notarili insomma).

Qui l’asseverazione va fatta su opere già da tempo ultimate, il che ci induce a ritenere che la norma ha effetto retroattivo.

Ma in tal caso l’ammissibilità di variazioni qualitative devono essere “non pregiudizievoli” di quale agibilità ?: di quella dell’epoca di realizzazione o di quella attuale (che pone certamente condizioni ben più gravose?). Cioè: tollerabilità con le norme di allora o di adesso? Che non è poco per dedurre l’ammissibilità dell’effetto retroattivo.

Così formulata la norma parrebbe anche dare per scontato che tale “dichiarazione asseverata da allegare agli atti notarili” sia già imposta da qualche disposizione di legge; il che non è, come non è neppure vero che l’eventuale “non legittimità” sia impeditiva del trasferimento e, men che meno, causa di nullità dell’atto di trasferimento. (v. InGenio 01.12.2022 - Certificazioni tecniche e nullità dei rogiti).

L’unico obbligo di certificazione dello stato legittimo (impeditivo del prosieguo procedimentale) è soltanto quello richiesto in occasione di atto abilitativo di un nuovo intervento edilizio (art. 20, co. 1, DPR 380/01).

Questo passaggio incidentale in chiusura del comma 3 non pare proprio poter essere vincolante per imporre tale formalità (perché solo di formalità si tratterebbe); pare piuttosto frutto di un retropensiero del Legislatore frettoloso che vuol suggerire senza dire, auspicare senza imporre. Più indotto da un sotteso senso di colpa per il ben noto e irrisolto tema dell’abusivismo.

L’esclusione gli edifici soggetti al Codice Urbani

Naturalmente (ça va sans dire direbbero i francesi) le tolleranze non metriche non si applicano agli immobili con vincolo del d.lgs. n. 42/2004.

E poiché soggetti a questo vincolo non sono solo quelli dalla Parte II (vincolo specifico), ma anche quelli della Parte III (vincolo paesaggistico generico di legge) forse il Legislatore avrebbe fatto bene a distinguere per non generalizzare limitazioni poco comprensibili a quest’ultima tipologia di manufatti e per non riproporre le (fondate) lagnanze che hanno accompagnato un lungo e defatigante dibattito in merito alla ristrutturazione. (v. InGenio: - 03.09.2021 “Ristrutturazione degli immobili tutelati: una storia infinita non priva di contraddizioni” - 22.10.2021 - Immobili di pregio paesaggistico: tutela o conservazione? - 03.05.2022 Decreto Energia: la nuova ristrutturazione edilizia dei beni vincolati paesaggisticamente” ).

Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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