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Comunità Energetiche Rinnovabili: dal dire al fare...

Comunità energetiche rinnovabili, all in: analisi su motivazioni alla base, modalità per la loro attuazione, tipologia di energie rinnovabili alternative possibili, rapporto con i problemi di pianificazione territoriale, destinatari (professionisti e imprese) e loro compiti.

Si parla molto in questo periodo di Comunità Energetiche Rinnovabili sia a livello tecnico-tecnologico che legislativo perché si cerca di incentivarne la realizzazione.

Dalla dichiarazione degli obiettivi (e la loro traduzione in norme) all’attuazione il passo non è poi così breve perché coinvolge molti concomitanti aspetti che comportano una condivisione collettiva e la consapevolezza di dover mutare anche atteggiamenti culturali e assetti normativi maturati nel tempo

Ma “dal dire al fare” …

L’Autore cerca di analizzare un problema così complesso ponendosi alcune domande (anche se apparentemente scontate) le cui risposte aiuteranno ad inquadrarne meglio le criticità realizzative.


Comunità Energetiche Rinnovabili

 

1. Perché?

La risposta appare scontata e tutti sapranno rispondere: per uscire dal pernicioso consumo di risorse finite e inquinanti e, dunque, per la salvaguardia del pianeta.

Un tema di tutela ambientale dunque. Ma non solo.

Che si inquadra certamente nella “transizione energetica” ma non si esaurisce nel contenimento dei consumi, anzi.

Anche se conteniamo i consumi, nella società moderna (cosiddetta evoluta dalla quale “indietro non si torna”) il fabbisogno energetico aumenta in modo esponenziale per cui si tratta piuttosto di trovare fonti alternative non inquinanti e non “finite”.

Il problema dunque non è solo consumare di meno (meglio dovremmo dire è quello di “disperdere di meno”), ma quello di aumentare la produzione.

Cioè: “produrre di più e produrre meglio”.

Vediamo allora che è anche un problema di sicurezza (di garanzia della continuità della produzione energetica) perché è ovvio che differenziando i centri di produzione e distribuendoli sul territorio li rendiamo meno vulnerabili e più flessibili rispetto a produzioni centralizzate (e sostanzialmente delegate ai soli “enti preposti”).

Le fonti rinnovabili (locali) poi dovrebbero aiutare a svincolarci dalla dipendenza dai Paesi detentori delle risorse.

I recenti conflitti hanno drammaticamente posto in evidenza questa esigenza/criticità.

Dunque anche (e neanche tanto indirettamente) quello energetico diventa un problema di sicurezza nazionale e garanzia di continuità: questo è bene chiarire in esordio per cominciare a definire una graduazione degli interessi pubblici e collettivi coinvolti con i quali occorrerà giocoforza trovare un compromesso (o, se si preferisce usando un termine più elegante, una “ottimizzazione”).

 

2. Con cosa?

Quando si parla di Comunità Energetiche Rinnovabili si fa riferimento ad un ampio spettro di fonti, che vanno dal fotovoltaico, all’eolico, al geotermico, all’idrico, …. che sono tutte opzioni alternative al gas, al carbone, al petrolio, … .

Nella comune prassi però parlare di Comunità Energetiche fa quasi automatico riferimento al fotovoltaico; ma non dovrebbe essere così.

Certo è che nell’immaginario collettivo il fotovoltaico si presenta come l’alternativa più accattivante:

  • più facile da installare;
  • meno impattante dal punto di vista estetico-ambientale (specie se posato sui tetti – un discorso a parte va fatto per il posizionamento al suolo e per l’agrivoltaico);
  • più frazionabile e quindi più alla portata di mini-impianti (piccole comunità);
  • più economico (apparentemente) e …
  • più reperibile sul mercato.

Sì perché il “mercato” gioca un ruolo fondamentale nella proposta alla potenziale clientela e non v’è dubbio che l’industria si sia molto esposta su questa tecnologia … e ha necessità di ammortizzare gli investimenti. Anche se – a dire il vero – tra le rinnovabili il fotovoltaico è la fonte che non garantisce “impatto zero” visti i costi ambientali (alias inquinamento) dell’estrazione dei materiali, della produzione, della costanza del rendimento e (soprattutto) del successivo smaltimento (ancora potenziale inquinamento).

Già questa disanima di massima mette in evidenza la concorrenza di vari aspetti (quale quello estetico-paesaggistico e tutela di altri connessi fattori ambientali) che ci riporta alla necessità di valutare un contemperamento dei valori in gioco per definirne la prevalenza e compatibilità contestuale.

 

3. Come?

Come realizzare le comunità porta in campo il “sistema delle regole” che coinvolge necessariamente varie discipline:

  • Tecnico-tecnologiche – quelle proprie della tecnologia adottata,

non solo, ma anche

  • Attuative che devono costituire la traduzione in norme della volontà politica. Volontà politica che trae origine e impulso dalla disciplina europea (che si esprime in “direttive”) fino a materializzarsi nella normativa nazionale nel cui ordinamento devono collocarsi e tradursi.

E’ proprio nella traduzione giuridica locale che le cose si complicano e si differenziano nazione per nazione perché gli ordinamenti degli stati membri sono assai differenziati tra loro e nonostante le direttive europee possano indurne il cambiamento, prevalentemente vi si devono adeguare.

A livello nazionale poi le componenti del puzzle si articolano quanto meno in tre rami:

  • quello civilistico, in quanto regola rapporti tra soggetti di diritto privato;
  • quello fiscale, se è vero, com’è vero, che la “transizione” ha necessità di essere indotta con sostegno pubblico che si esplica in premialità fiscali (soprattutto se si tratta di interventi diffusi come quello che si vuole ottenere con la creazione delle Comunità Energetiche);
  • quello amministrativo, che investe, ad un tempo, sia il sistema autorizzatorio singolo e diffuso, che i sistemi regolamentari sovraordinati (e tra questi quello localizzativo).

Questa elencazione ben ci fa comprendere che se si vuol effettivamente incentivare la realizzazione delle CER:

  • a livello nazionale non si tratta di adottare una singola normativa, ma un sistema normativo che tocchi tutti gli aspetti attuativi del problema e li renda coerenti. Ben si comprende allora come il sistema localizzativo (ovvero la pianificazione territoriale) entra prepotentemente e prioritariamente nell’adeguamento della disciplina;
  • a livello individuale questo comporta la creazione di professionalità trasversali e integrate che sappiano declinare la complessità e l’articolazione dei vari aspetti di cui abbiamo appena detto.

Qui il sistema si impatta perché:

  • la flessibilità pianificatoria in ambito pubblico è di là da venire e tende ad affermarsi al massimo tramite “deroghe” (che non sono la migliore espressione della consapevolezza delle scelte e delle ricadute che esse provocano)
  • l’interprofessionalità (in ambito privato, ma anche pubblico) è inversamente proporzionale alla dimensione del soggetto operante;
  • difficile che piccole amministrazioni (della cui carenza di personale ci si è finalmente accorti mettendo in campo tardive campagne di arruolamento che comunque non daranno frutti a breve) siano attrezzate adeguatamente per attivare le Comunità locali. E pensare che a quelle si rivolge prioritariamante il nostro Legislatore;
  • difficile anche che lo siano i privati di piccole e diffuse Comunità.

 

4. Dove?

Sul territorio.

Come abbiamo appena detto le Comunità devono installarsi sul territorio e qui il “sistema” amministrativo pianificatorio (preventivo) e autorizzatorio (successivo) paiono assolutamente impreparati e rigidi; resistenti al cambiamento.

Il nostro sistema pianificatorio ha sviluppato nel tempo – segnatamente in quest’ultimo periodo – una prevalente cultura di tutela.

Tutela del paesaggio. Tutela dell’ambiente. Tutela del consumo di suolo.

Tutele sacrosante intendiamoci, ma tutte interpretate in modalità autonome e in senso conservativo e non dinamico. Che poi è quello più semplice e condivisibile.

Non sarà possibile continuare nelle tutele autonome ed autoreferenziali cui sono preposti enti autonomi e autoreferenziali.

Le eventuali parziali liberalizzazioni e incentivazioni (esse pure settoriali) si scontreranno (così come già oggi si scontrano) in tanti veti diffusi e impedienti che ne determineranno il fallimento.

Il fallimento dell’obiettivo di cui abbiamo riconosciuto la strategicità.

Occorre allora fare un processo di integrazione e perseguire quel “compromesso” (rectius: “ottimizzazione”) di cui abbiamo detto in esordio se è vero (e se riconosciamo che sia vero) che l’obiettivo è strategico e … comunitario (alias Europeo) per l’autonomia energetica e la sicurezza nazionale,.

Non è facile.

Non lo è per un trend culturale pregresso, ma ancor più perché andrà ad incidere su posizioni consolidate.

Non lo è perché la cultura del compromesso e dell’interprofessionalità è più complessa di quella monotematica e settoriale, ma sarà inevitabile; allora meglio imparare a gestire le complessità piuttosto che semplificarla (artificiosamente).

Fin qui, a livello legislativo, abbiamo visto un proliferare di direttive europee, di norme tecnologiche, finanziarie e qualche incidentale norma edilizia intesa a semplificare l’attuazione degli interventi semplicisticamente derubricandoli a manutenzione ordinaria.

L’intenzione forse era anche apprezzabile, il metodo no (v. InGenio: 20.05.2022 -“Fotovoltaico ed edilizia libera: l'illogica formulazione della norma” - 25.08.2023 “Qualche riflessione sulla normativa del Testo Unico dell’Edilizia e l’incongruenza di alcune recenti modifiche”); in ogni caso saranno inefficaci perché impatteranno sui veti incrociati di altri controllori.

Il tema è pianificatorio e qui il richiamo all’operatività si deve spostare alle regioni per competenza costituzionale.

Il tema energetico (e anche delle Comunità Energetiche) è un tema di politica del territorio.

 

5. Chi?

Chi sono dunque i destinatari dell’obiettivo strategico europeo e nazionale?

Tutti i cittadini in genere (è ovvio).

Ma un compito particolare – istituzionale – ce l’hanno i professionisti e gli enti pubblici.

E cosa possono/devono (dovrebbero) fare?

I professionisti: prepararsi all’interprofessionalità almeno nelle discipline di cui si è detto. E qui gli Ordini ben possono/debbono avere ruolo (ma non settoriale).

Gli enti pubblici: attivarsi per:

  • dare formazione culturale di quelle professionalità (con corsi di formazione ad hoc). L’attuazione sarà necessariamente scaturente da un dialogo pubblico/privato e per intendersi occorre parlare la stessa lingua;
  • dare attuazione in primis a delle Comunità Energetiche Pubbliche per stimolare spirito emulativo nei privati e verificare (come pionieri sulla propria pelle) le effettive difficoltà ad operare sul campo;
  • revisionare gli strumenti di pianificazione territoriale (e non solo agli atti abilitativi specifici) per consentire (fuor di metafora) l’effettiva “messa a terra” degli impianti delle Comunità Energetiche che si dichiara in astratto di voler incentivare.

Articolo integrale in PDF

L’articolo nella sua forma integrale è disponibile attraverso il LINK riportato di seguito.
Il file PDF è salvabile e stampabile.

Ermete Dalprato

Professore a c. di “Laboratorio di Pianificazione territoriale e urbanistica” all’Università degli Studi della Repubblica di San Marino

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