La macchina mondiale
In sei riflessioni poetiche e critiche, Marcello Balzani intreccia letteratura, filosofia e architettura per esplorare il concetto di 'progetto totale' e per indagare il senso profondo del tempo, della forma e del desiderio. Dai versi di Cortázar e Farrokhzad fino all’utopia concreta di Volponi, ogni pensiero diventa sosta simbolica e spinta visionaria. Un viaggio tra parole e immagini per ridisegnare il nostro modo di abitare il mondo.
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Da questo lato del tempo come vivi?
Julio Cortázar è uno scrittore argentino che rende possibile un percorso di scoperta della poesia e del racconto attraverso la profondità quotidiana del reale. Esiste un mondo fantastico attorno e dentro di noi che va assolutamente rintracciato e accolto. Il reale appartiene a più dimensioni e nulla come l’immaginazione può traguardare l’universo con un microscopio o la superficie di una stanza con un telescopio, direbbe ironicamente Cortázar.
Mi passi le dita sulla pelle e mi disegni nello spazio, in bilico, finché il bacio si posa curvo e ricorrente così che a fuoco lento abbia inizio la danza cadenzata dell’incendio. Con liscia dolcezza mi hai sollevato dal letto in cui sognavo. Dove l’odore dell’erba trema sulla pelle dell’aria. Il mio corpo ha amato il vento (e il mare su cui inalbera il futuro) e alcune belle giornate. Il mio corpo ha amato il suo sangue, come fosse una fonte. Le carene insaziabili della mia passione su ogni onda di nuove rotte. Animale metafisico e spontaneo, colto e anticolto.
La notte onirica è la mia vera notte. Lì il cielo è sempre blu e tu sempre più bella. Quando la tua mano percorre i miei capelli, so che cerca quelli bianchi, vagamente sbalordita. Hai sentito? Ogni poro della tua pelle ha sentito... Fa freddo, ma la nostra voce è il gomitolo per la tua maglia. Ci copre, avvolge l’anima col punto croce punto catena punto legaccio. Mi sommergi tra le tue palpebre. Cerco la tua bocca, nuotando fino alla sponda del sopore.
Sono miei estratti dai lirici “tanghi” di Julio Cortázar di “Salvo il crepuscolo” nell’immedesimata traduzione di Marco Cassini per Edizioni SUR. Bellissimi!
Da questo lato del tempo come vivi? Quanta nafta ti resta per il viaggio? È tempo di allacciare la cintura: zona di turbolenza. Nuvole sottosopra. A sbirciare invidiosi l’abisso. Il dente del ciclone.
Non posso fare a meno di Julio Cortázar, ho imparato che esisteva nelle mie sabbie del sogno fin da quando, adolescente, conobbi il lento ruggito del suo scrivere. Dorme con me, come un gatto sulle coperte, da sempre.
Cosa migliore: non iniziare, accostare dove capita. Cortázar scrive che la vita è chiedere un passaggio (hitchhiking): o la va o la spacca, nei libri come nella vita.
In fondo lo so (dentro di me) che è così e ovunque nel mondo “sento ancora nelle scarpe la fedele carezza della mia terra”.

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La sosta e l’impronta
Non è semplice recuperare la semplicità per comprendere quanto conti il pensiero simbolico che scorre nelle cose attorno a noi. Rileggo Lévi-Strauss e Yona Friedman e mi vengono in mente Bergson e Durkheim. In questi giorni dove la straordinaria impronta del Colosseo, finalmente presentato nella sua memoria digitale dopo due anni di intenso e collettivo lavoro, riempie la mia vita ricordo le forme nate dalla sabbia che circondano il nostro vivere.
E se le cose e gli esseri fossero le “forme irrigidite della continuità creatrice”? Come un uccello che si ferma per fare il nido o noi in cammino che ci fermiamo (nomadi) in un luogo, così dio si è fermato, dicono i Dakota. “Il sole è un luogo dove si è fermato. La luna, le stelle, i venti è lì che lui è stato.” Gli alberi, gli animali sono punti di sosta. Bergson lo materializza con un’immagine potente. La sosta è un atto semplice che a volte il nostro sguardo (analitico e sintetico) ha difficoltà a comprendere nella sua corrente di energia.
La sosta è un atto semplice “come quello di affondare un piede che determina immediatamente che migliaia di granelli di sabbia possano intendersi per offrire un disegno”, per generare una forma. Continuità e discontinuità cercano, più nella “durata” che nel “tempo”, di conciliarsi: rappresentazione immaginativa e forma.
Sai vero che poi quel “disegno sommario”, come dice Lévi-Strauss, a un certo punto divenne “figura” (di animale o altro), poi “raffigurazione sacra” e successivamente scatenò il “contagio” a tutto ciò che era “vicino” estendendo il suo potere e nutrendosi di queste relazioni? Durkheim lo intuì comprendendo come la “somiglianza” rese possibile il nutrimento di tante diversità, continuamente in rapporto fra loro, riuscendo a descrivere il mondo e le relazioni sociali.
Possiamo non crederlo ma la “nostra logica” è nata da “questa logica”. Tutte le volte che uniamo, con un legame interno, dei termini eterogenei creiamo anche dei contrari, che forse sono troppo distinti e intemperanti nella loro capacità rappresentativa.
Adesso volgi lo sguardo e cerca in te stesso quel luogo in cui i “luoghi di sosta” rendono manifesta questa energia. Forse basterebbe accompagnare il nostro desiderio a riconoscerlo.
L’impronta nella sabbia è un evento, è solo un momento di durata, un “interstizio del non-spazio” nel “granulato dello spazio” direbbe Yona Friedman: un luogo in cui il discontinuo si allea alla continuità. Ma quante alleanze sono necessarie per “irrigidire”quella forma durante il nostro passaggio!
Respira. Qualcuno respirò in te e tu adesso respiri.
Ho mescolato con i miei pensieri quelli di “Totemismo oggi” di Lévi-Strauss edito da Feltrinelli assieme ad alcuni lampi geniali di “L’ordine complicato” di Yona Friedman edito da Quodlibet.
Pochi mesi fa cercavo le tue labbra nella penombra del mattino che si addensa, sempre più in luce, sgorgando dalla finestra socchiusa sulla città d’oro di Jaisalmer. Stava albeggiando quando incredibilmente piovigginava per offrire come sollievo al deserto. Cercavo le tue labbra, perché sentivo che la mia bocca sulla tua poteva disegnare una forma della “durata del desiderio”.

4
Il delicato disegno
La traduzione può essere sempre un po’ un tradimento. Ma in fondo ci sono dimensioni nascoste che appaiono (come per l’architettura) proprio nell’attimo in cui le distanze si definiscono. Solo il dolce può far apparire veramente il gusto del salato. Sfumature e soprapposizioni. Stratificazioni e incantesimi di “cose senza gravità”. Due grandi poeti, Mandel’štam e Celan, ci aiutano a percepire la ricchezza della “varietas” di cui è composto il nostro saper vivere la vita.
Mi fu dato un corpo – chi mi dice per cosa?
Per poter respirare, vivere.
È unico, solo mio.
Sarò il giardiniere, sarò il fiore. Il mio fiato, il mio calore. Lei (anima) nuota, giovane delfino, tra i baratri del mondo. Tu cielo, bianco più di una camicia. In ascolto la vela, sottilmente tesa. Resta, Afrodite, questa schiuma, parola, tu, torna musica. E poi il gioco incantevole lesto di esilissime dita. Mentre io cerco di addormentarmi accudito nella sensazione bella, cullato, le stelle svoltano e l’aria è umida e sonora. Permettimi che sia (a volte) nebbioso e anche di non amarti. Tremo e sto qui incantato, in un Eden di legno grezzo e lieve, di cose senza gravità!
Recentemente Crocetti ha pubblicato un vero dono poetico. Le poesie di Osip Mandel’štam tradotte da Paul Celan, in un’edizione stupendamente curata da Dario Borso in cui compaiono i testi in russo e in tedesco e anche altre versioni di traduzioni in lingua italiana, proposte per “misurare la distanza della -ricreazione- di Celan da una traduzione -normale- e soprattutto del testo-base”.
Come scrive Celan, Mandel’štam è “ipersensibile, impulsivo, imprevedibile, s’inoltra nel tempo e la poesia rimane con tutti i suoi orizzonti”. Tradurlo è complesso perché le parole (come le cose) sembrano accostarsi semplicemente l’una all’altra, ma “in tale contiguità si fa sentire anche la domanda sul loro da dove e verso dove”.
Una domanda che rimane aperta e a cui il tempo “partecipa”. Come per tutto ciò che incontriamo (che proviamo ad amare) e che (tra assonanze, rime, “aloni” e interpunzioni) tentiamo di riconoscere nella vibrazione del vivere, necessita una “disponibilità”, che troppo spesso si scorda.
Una disponibilità che la poesia (quando è tale) può aiutarci ad accogliere.
Il mio fiato, il mio calore. Il disegno sul vetro, appannato, la scrittura: non la leggi, non la riconosci.
Il vapore tra poco svanirà, rimarrà il delicato disegno.

3
Intimità e dignità
Intimità e dignità sembrano due parole così distanti. Invece possono (devono) convergere. La sottomissione, l’oggettificazione di consumo, l’annullamento dell’emozioni e del linguaggio del cuore devono essere sconfitte (a Tehran come scrive Forugh Farrokhzad) esattamente come in ogni parte del mondo.
Il dilatarsi della mente condivisa dell’amore. Perché fermarmi? Attraverso i capillari della vita e il sussulto continuo delle mie palpebre. Sono nuda, e nuda, e nuda, come i silenzi tra le parole d’affetto sono nuda e di tutte le ferite sono mie le ferite d’amore, d’amore, d’amore. Fiamma di sospiro sulle labbra. Tu premevi le guance contro l’ansia dei miei seni e ascoltavi il mio sangue che fluiva nel suo gemito e il mio amore che moriva nel suo pianto.
Dormi con me sul petalo di un fiore rosso, piantato nei miei capelli agitati. È l’intimità dei nostri corpi, serrata, e la nostra nudità che luccica come scaglie di pesci nell’acqua, la vita d’argento di una voce che all’alba mormora un lieve zampillare. Sentivo pulsare le vertebre sottili della mia schiena… Proteggetemi voi, amori voraci! Magari potessi guizzare nel tuo cuore in ansia come il ricordo prorompente di una donna… Magari le mie membra accendessero candele di peccato nel letto della tua solitudine… Magari a mezzanotte la luna contemplasse la danza del mio corpo fatto foglia d’autunno … Magari dal ramo verde della vita tu cogliessi il fiore della mia tristezza... Perché sei dentro me, eppure da me diviso?
È la potenza assoluta di Forugh Farrokhzad, la più straordinaria poetessa iraniana del Novecento, finalmente tradotta integralmente in tutta la sua opera lirica, con testo a fronte in persiano, da Domenico Ingenito, che cura questa bellissima e recente edizione per Bompiani: “Io parlo dai confini della notte. Tutte le poesie” è un dono che vi dovete assolutamente fare! Forugh Farrokhzad morirà a soli 32 anni in un incidente d’auto lasciando una vita di parole. La vita, scriveva Forugh Farrokhzad, forse è l’accendersi una sigaretta nella pausa languida fra due amplessi”, e il bisogno di “affermazione del valore e della dignità della voce del corpo e dell’espressione erotica femminile” determina una “frizione costante tra il suo corpo e la complessità del mondo che la circonda”, facendo scaturire, attraverso questi “confini labili” le sue creazioni letterarie. Ecco perché celebrare la potenza del desiderio. Una donna che desidera versare nella forma delle sue poesie tutta l’eccitazione e l’entusiasmo che sente nella vita.
Perché “una donna ha il diritto di essere una donna anche nella sua poesia”: e la vita di Forugh Farrokhzad è lì a dimostrarlo, in ogni attimo e in ogni verso, mentre è di fronte ad un torrente di accuse e di critiche che scorre incessantemente contro di lei da ogni lato. La sottomissione, l’oggettificazione di consumo, l’annullamento dell’emozioni e del linguaggio del cuore devono essere sconfitte a Tehran come in ogni parte del mondo. Pianterò le mie mani in giardino e crescerò orgogliosa, lo so, lo so lo so, e le rondini deporranno le uova nelle pieghe delle mie dita sporche d’inchiostro…
Tu, presenza che germoglia, riponi le tue mani come ricordo rovente fra i palmi appassionati e le tue labbra, senso caldo dell’esserci, abbandonale alle carezze di queste labbra innamorate.
Il vento ci poterà via, sì.
Il vento ci porterà via.

2
Nomi del divino
Nei giorni in cui il divino sembrava in attesa di annunciare qualcosa attraverso l’intersecarsi dei pensieri di pochi uomini racchiusi in uno splendore di immagini che attraversa i secoli, mi è venuto in mente un piccolissimo libretto che tutti dovrebbero tenere accanto al proprio cuore. Un testo che restituisce un senso concreto e simbolico a quel diario già scritto che, probabilmente, ciascuno di noi va traducendo con la propria vita.
1 Mare al mattino
17 La pelle – tutta la superficie del corpo
18 Lo sguardo e quello che guarda
25 Sonno in un letto
33 Il silenzio fra due amici
23 Pane
11 L’erba. L’odore dell’erba
Sono solo alcuni dei meravigliosi 33 di Marguerite Yourcenar. Non vi so dire cosa traccino o caso possano delineare nella struttura di un ricordo o di un presente. Nel loro susseguirsi, numerati uno dopo l’altro, possono assomigliare a note o frasi musicali di un canto. Possono rimanere tessere di un mosaico di luce dove le parole sono stelle o soli di qualche sistema. Disegni, tracce, condensati divini di un linguaggio poetico. Sono baci e carezze. Possono rendere più bella la vita.
Sono “I trentatré nomi di Dio. Tentativo di un diario senza data e senza pronome personale” della grandissima Marguerite Yourcenar, pubblicati con testo in francese in un libricino minuscolo da Nottetempo per la traduzione di Ginevra Bompiani. La nota finale racconta come andò nell’estate di circa quarant’anni fa che Silva Baron Supervielle, incontrando Marguerite Yourcenar, riuscì ad innescare in lei un pensiero che condusse anni dopo, al ritorno di un viaggio in India, a ritrovarsi per le mani un manoscritto con i 33 corti e cortissimi bellissimi testi (con disegni). E da lì a noi. Una magia anche questa.
A volte si cercano le parole e non si trovano. Altre volte l’immersione nei significati è così torbida e densa che si perde ogni cosa si stesse cercando. Marguerite Yourcenar restituisce un senso concreto e simbolico a quel diario già scritto che ciascuno di noi va traducendo con la propria vita.
Non potete non leggerlo! E tenerlo vicino al cuore.
16 La mano che entra in contatto con le cose
24 I fiori che spuntano dalla terra a primavera

1
La macchina mondiale
Le utopie eversive sembrano morte e sepolte, anche se tutto (conflitti, cambiamento climatico , crisi della democrazia, disequilibri incessanti di sviluppo economico) fa a gara perché tornino ad attecchire. Nessuno le innesta? Nessuno le concima? Dove sono queste speranze? Rileggendo Paolo Volponi si possono riannodare alcuni fili del telaio, forse ridare senso ad intrecci di immagini e sogni in cui il territorio (e la vita che lo possiede) ha il sopravvento.
Ci stiamo avvicinando ai giorni della grande alluvione di due anni fa . Sembra che un’immensa incomprensione costituita da sordità ed egoismo abbia (ancora e sempre) il sopravvento.
“Il mio pensiero e la mia materia, le lacerazioni che si producono all’interno, nel tracciato della mia macchina e nell’accensione dei diversi commutatori, mi tengono anche vicino alle cose e ai fatti che camminano intorno a me, nella mia casa e nella mia campagna e in questo pezzo di terra marchigiana dalla parte dell’Appennino… Spesso abbandonavo il compasso e disegnavo con la matita. Copiavo le figure delle scienze naturali, dai sassi fino alle membra animali ed umane e insieme studiavo le parole e le ordinavo secondo il suono: colto, coltivo, coltura, coltivare, continuare, confortare… e capivo… in che modo era già una costruzione autonoma, che non aveva bisogno di essere sostenuta dal mio pensiero e che invece per la sua forza ed anche per il suo disegno e per le sue strutture componeva un pensiero proprio, diventava una cosa sensata e nuova al di fuori del senso che ogni parola aveva prima per suo conto.”
Anteo è il protagonista di “La macchina mondiale”, il secondo romanzo di Paolo Volponi edito da Einaudi. Nel centenario della nascita, sempre Einaudi, ha ripubblicato la sua straordinaria opera poetica per intero in un solo volume. Me lo ero chiesto un anno fa se la cosa sarebbe potuta avvenire cammin facendo durante i mesi… ed è accaduta!
Nel suo romanzo il sapiente contadino marchigiano (come l’urbinate Volponi) realizza un “Trattato”, combinazione rinascimentale di tutto l’osservabile, disegnabile, percepibile, leggibile… Un’utopia eversiva (in una società già in lotta con l’ambiente prima dell’avvento degli effetti climatici), che lo porterà ad essere incompreso e abbandonato fino ad arrivare di fronte ai giudici, che valuteranno (Friedrich Dürrenmat docet) il suo “pensiero autistico, organizzato con onomatopee, assonanze, stereotipie, bizzarrie” fino al finale clastico. Volponi compone il suo “telaio stellare”, come di quelli che si vedono la sera o come di quelli che le membrature di mattoni e cornici bianche di marmo intessono la sua Urbino in ogni scorcio con “mille facce delle prospettive”.
A Urbino in quei giorni ho visitato “Volponi Novel (1924-2024)” a cura di Tiziana Mattioli con 15 bellissimi disegni (a scala di superposter) di Gianluca Costantini.
Nel Palazzo Battifferri, dove l’intervento di Giancarlo De Carlo insinua percorsi verticali a torre, che hanno il sapore della sperimentazione linguistica (e stilistica) di Volponi, appaiono (come in un racconto simbolico tra le parole a fumetto) i volti e le labbra di chi visse con lui: Olivetti, Pasolini, Guttuso, Pertini, Enriquez, Agnelli, Berlinguer, Anna Magnani.. “Allora il pensiero deve essere ripreso, avvoltolato e stretto come una cintura e la bocca assaporata come una foglia dell’albero della vita. Intanto fuori la luce dilaga e si stende, ed ogni cosa lentamente si riconosce nel suo canovaccio, finché entrano anche le ombre sospettose. Allora ogni cosa si scuote e comincia…”

Dalla rubrica «Marcello Balzani: tra Parola e Immagine»
C’è un numero che, più di altri, incarna l’idea di equilibrio e compiutezza: sei. È il primo numero perfetto, perché somma dei suoi divisori (1, 2, 3), ma è anche la metrica dell’esametro omerico, che ha guidato per secoli il racconto del viaggio, del mito, dell’umano.
A questo numero si ispira la struttura di “Perfetto Sei”, una rubrica che raccoglie i testi di Marcello Balzani come pensieri in cammino, intrecciati a immagini e citazioni che non illustrano, ma evocano, non spiegano, ma interrogano.
Il titolo è anche un gioco di specchi: si può leggere come “Sei perfetto”, allusione alla somiglianza divina dell’essere umano, fatto — secondo la tradizione — a immagine di Dio. Un invito, forse, a riscoprire nel frammento la traccia di un’armonia nascosta.
Ogni articolo della rubrica ospita progressivamente sei pensieri. Sei come unità compiuta, come sequenza che diventa ciclo. Quando l’articolo si completa, ne nasce uno nuovo. E ogni nuovo inizio si pone in cima alla serie, come il primo passo di un nuovo viaggio. L’intero progetto si dispiega così in una serie aperta di cerchi perfetti, ognuno con il proprio tema originario e la propria traiettoria di senso.

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