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L'abuso edilizio negli immobili sottoposti a vincolo di tutela

L’abuso edilizio su immobili vincolati è regolato da un doppio binario normativo, tra edilizia ordinaria (T.U. Edilizia) e tutela culturale/paesaggistica (D.Lgs. 42/2004). Tuttavia, senza autorizzazione preventiva della Soprintendenza ogni intervento è illecito. Cosa dire sul Salva Casa? Riapre il dibattito.

Abusi edilizi sugli immobili vincolati: le norme da conoscere

«Qualunque intervento su un bene vincolato deve essere preceduto da un'autorizzazione specifica», spiega il prof. Federico Gualandi, avvocato e professore a contratto all'Università Iuav di Venezia, , dove insegna diritto amministrativo e svolge anche il ruolo di docente presso il Master Diritto e tecnica per il Patrimonio culturale.

In questi casi, il quadro normativo è duplice: si applica la disciplina edilizia contenuta nel Testo Unico dell’Edilizia (DPR 380/2001) e quella specialistica contenuta nel Codice dei Beni Culturali e del Paesaggio (D.Lgs. 42/2004).

Secondo la Corte Costituzionale (sentenza n. 219/2021), la tutela dei beni culturali prevale (in termini più esatti: precede e costituisce un limite rispetto a) su altri interessi, come quelli urbanistici o edilizi Questo principio era già stato sancito nel 1986, in occasione del primo condono edilizio, e da allora è stato ribadito più volte.

È importante sottolineare che nell'ambito dei beni architettonici non esiste una soglia minima di intervento: qualsiasi modifica, anche apparentemente marginale, deve essere preventivamente autorizzata.

«Le situazioni di difformità da un'autorizzazione lavori ai sensi dell'art. 21 del Codice dei Beni Culturali e del paesaggio devono essere equiparate all’abuso edilizio, perché per abuso si intende, in senso ampio, sia l’assenza di titolo abilitativo, sia la realizzazione difforme rispetto a quanto autorizzato» chiarisce il prof. Francesco Trovò, già architetto funzionario della Soprintendenza ABAP per il Comune di Venezia e Laguna, attualmente professore associato di restauro architettonico presso l'Università Iuav di Venezia, dove svolge anche il ruolo di responsabile scientifico del Master Diritto e tecnica per il Patrimonio culturale insieme alla prof.ssa Micol Roversi Monaco.

 

L’autorizzazione della Soprintendenza: obbligo e contenuti

Nel caso di immobili vincolati per interesse culturale, «qualunque tipologia di intervento deve aver ottenuto un’autorizzazione a procedere rilasciato dalla Soprintendenza territorialmente competente», come previsto dall’articolo 21 del D.Lgs. 42/2004, spiega il prof. Federico Gualandi. L’autorizzazione rappresenta infatti l’atto amministrativo attraverso cui la Soprintendenza autorizza l’esecuzione di opere e lavori di qualsiasi natura su beni culturali tutelati. Ai sensi del comma 4 dello stesso articolo, è sempre la Soprintendenza a rilasciare il nulla osta, che costituisce una condizione necessaria e inderogabile per la legittimità dell’intervento.

Anche il mutamento di destinazione d’uso dei beni culturali deve essere comunicato al Soprintendente, in conformità a quanto previsto dall’articolo 20, comma 1 del D.Lgs. 42/2004. La norma stabilisce infatti che sono vietati tutti gli interventi «che possono distruggere, deteriorare, danneggiare o adibire [i beni] ad usi non compatibili con il loro carattere storico o artistico, oppure tali da recare pregiudizio alla loro conservazione».

L’autorizzazione agli interventi è rilasciata dalla Soprintendenza entro 120 giorni, sulla base della documentazione idonea a descrivere compiutamente le opere da eseguire. La Soprintendenza può impartire prescrizioni da osservare durante l’esecuzione dei lavori, le quali assumono carattere vincolante.

La violazione di tali prescrizioni, o le difformità rispetto al progetto presentato, si configurano come un abuso: «mi sto occupando, in questi giorni, proprio di un caso in cui c’è stata una modifica nei materiali. Era stato previsto un rivestimento in rame, invece è stato fatto in alluminio di color anticato: questo è sicuramente una violazione delle prescrizioni contenute nell’autorizzazione».

Lo stesso Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. 380/2001) riconosce una maggiore gravità agli abusi commessi su immobili vincolati. In particolare, l’articolo 32 stabilisce che, in tali casi, le variazioni essenziali sono equiparate a difformità totali, con conseguenze sanzionatorie più severe.

Come sottolinea il prof. Federico Gualandi, è interessante osservare che, a differenza di quanto previsto per i beni paesaggistici — per i quali l’articolo 149 del Codice dei beni culturali introduce una soglia di rilevanza al di sotto della quale alcuni interventi non sono soggetti ad autorizzazione — nel caso dei beni di interesse culturale non esiste né una procedura semplificata, né categorie di intervento escluse dall’obbligo di autorizzazione preventiva.

L’autorizzazione della Soprintendenza non è solo un passaggio formale: rappresenta un atto sostanziale di tutela.

Anche la repressione degli abusi compete in via prioritaria alla Soprintendenza, che valuta «se disporre la reintegrazione, la demolizione o applicare una sanzione pecuniaria», in base alla compatibilità dell’intervento con il valore storico-artistico del bene. Ciò, tuttavia, non esclude i Comuni dall’attività di vigilanza e di accertamento degli illeciti (TAR Toscana, sent. n. 57 del 14 gennaio 2021 e Consiglio di Stato, sez. II n. 826 del 2024).

 

Presentazione degli interventi su immobili soggetti a vincolo: Comune, Soprintendenza o Sportello Unico?

«Il canale di presentazione varia a seconda della tipologia di vincolo» osserva il prof. Francesco Trovò.

«Per quanto riguarda la Parte Terza del Codice dei beni culturali, cioè la tutela del paesaggio – parliamo dell’articolo 146 per l’autorizzazione paesaggistica, e dell’articolo 167 per l’accertamento di compatibilità, recentemente modificato dal cosiddetto "Salva Casa" – l’istanza deve essere presentata al Comune, o, in alcuni casi, a soggetti delegati dalla Regione, come gli Enti Parco. Sono infatti questi i soggetti competenti in materia paesaggistica», chiarisce Trovò.

«Se invece ci troviamo nell’ambito della Parte Seconda del Codice, e dunque parliamo di beni culturali vincolati da provvedimenti di tutela monumentale, la competenza ricade generalmente sulla Soprintendenza. Naturalmente – aggiunge – ci sono anche i casi complessi regolati dagli strumenti della conferenza di servizi o dagli accordi tra enti pubblici, disciplinati dalla legge 241/1990 e dal Codice stesso».

La richiesta di autorizzazione per la parte seconda si presenta direttamente alla Soprintendenza, in genere tramite PEC, anche se è in fase di implementazione una piattaforma informativa che dovrebbe presto consentire una migliore interfaccia tra utenza e personale del MiC preposto all'esame delle istanze.

«Le cose cambiano – prosegue – quando l’intervento ha una componente sia monumentale sia paesaggistica. Con l’istituzione degli sportelli unici – penso al D.P.R. 160/2010, che disciplina lo Sportello Unico per le Attività Produttive – il Comune diventa il soggetto cui presentare l’istanza. Non solo un immobile vincolato, infatti, può essere oggetto di un’attività produttiva, ma tale modalità tendenzialmente può essere riferita ad edifici anche di altra natura.».

«In questi casi – chiarisce – il Comune dovrebbe operare come una sorta di hub logistico: ricevere l’istanza e smistarla agli enti competenti, come la Soprintendenza per la parte di competenza per la valutazione sulle trasformazioni edilizia che riguardano un bene di interesse storico artistico. Ma questo sistema non è senza criticità se riferito in via esclusiva a immobili assoggettati alla parte II del Codice BCP (vincolo monumentale), specie sul piano dell’accesso agli atti e dell’archiviazione da parte delle Soprintendenze. Insomma, non è ancora del tutto a regime, ed è anche per questo che MiC sta lavorando con fondi PNRR a un nuovo Portale dei Procedimenti».

Facciamo un esempio concreto: «Se ho un immobile vincolato e devo intervenire sia all’interno che all’esterno – installare un lucernario, un nuovo poggiolo, un volume tecnico – la pratica può essere presentata al Comune, che esegue l’istruttoria edilizia e quella paesaggistica. Dopodiché trasmette tutto alla Soprintendenza, che si esprimerà sia sulla parte monumentale, sia, in modo endoprocedimentale, sulla parte paesaggistica».

Infine, sottolinea: «In questi casi, la Soprintendenza può rilasciare un parere plurimo, come previsto dall’articolo 16 del D.P.R. 31/2017: può cioè esprimersi con un unico atto sulla conformità sia paesaggistica sia monumentale, a condizione che gli interventi siano tra quelli semplificati ai sensi dell'allegato B del decreto. Diversamente, se si tratta di paesaggistica ordinaria, il procedimento seguirà il suo percorso autonomo».

«L’articolo 146 del D.lgs. 42/2004 prevede, tra l’altro, che, per garantire l’imparzialità e la correttezza delle valutazioni in materia paesaggistica, i settori dell’amministrazione comunale che si occupano di autorizzazioni paesaggistiche dovrebbero essere distinti da quelli che curano le pratiche edilizie ordinarie. Questo principio mira a evitare conflitti di interesse interni e a garantire una valutazione autonoma e tecnica del profilo paesaggistico dell’intervento. Tuttavia – va detto – nella prassi questo spesso non avviene, e ciò può costituire un vizio procedurale rilevante» conclude il prof. Gualandi.

 

Le competenze professionali: architetti, ingegneri e restauratori

La progettazione e direzione lavori sui beni vincolati è prerogativa degli architetti, in base al R.D. 2537/1925. «Questa indicazione è stata ribadita anche a livello europeo. Tuttavia, gli ingegneri intervengono per le parti strutturali e impiantistiche», precisa Francesco Trovò.

In ambito di interventi privati, nel caso di apparati decorativi (ad esempio affreschi o stucchi), devono essere coinvolti anche restauratori qualificati, ai sensi dell'art. 29 del Codice dei Beni Culturali. Questi ultimi non solo eseguono gli interventi, ma devono allegare anche un progetto specifico alla richiesta di autorizzazione.

Nel caso di interventi pubblici la materia è regolamentale dal D.lgs. 36/2023, con riferimento particolare all''allegato II.18.

 

L’accertamento di compatibilità postumo: una sanatoria possibile?

«Si tratta di un tema molto dibattuto», osserva il prof. Federico Gualandi. «Faccio spesso un parallelo con l’ambito della tutela paesaggistica, dove l’articolo 167 del Codice dei beni culturali – recentemente modificato dal cosiddetto Salva Casa – ha ampliato le possibilità di accertamento di compatibilità paesaggistica. Un’evoluzione importante, anche alla luce dell’introduzione dell’articolo 36-bis del Testo Unico dell’edilizia, che ha aperto nuovi scenari proprio su questo fronte».

«Se guardiamo però alla tutela dei beni culturali vincolati, e quindi alla Parte Seconda del Codice – prosegue – la situazione è diversa. In prima battuta, l’articolo 160 del Codice prevede che la reazione ordinaria dell’ordinamento in caso di interventi abusivi sia l’ordine di remissione in pristino, cioè il ripristino dello stato originario del bene».

«Tuttavia, l’orientamento giurisprudenziale non è univoco. Ci sono sentenze che negano la possibilità di sanare interventi su beni vincolati. Ad esempio, una pronuncia del TAR Lazio, Roma, n. 7811 del 2021 afferma chiaramente che, siccome per la tutela paesaggistica esiste un meccanismo specifico previsto dalla legge, mentre per i beni culturali non vi è una disciplina analoga, l’autorizzazione postuma – o "in sanatoria" – sarebbe inammissibile».

«Eppure – continua Gualandi – nella prassi amministrativa e secondo una parte autorevole della dottrina, questa possibilità è invece ammessa. Penso, ad esempio, agli studi del prof. Sciullo, al dott. Carpentieri, ma anche a numerose sentenze che, pur sempre facendo riferimento all’articolo 160, riconoscono la possibilità di una valutazione postuma di compatibilità dell’intervento con le esigenze di tutela del bene. Una posizione, tra l’altro, già avallata da un parere del MiBAC del 2016».

«In questi casi – precisa – si ritiene che, qualora l’intervento non abbia arrecato un pregiudizio concreto ai valori tutelati dal vincolo, possa essere valutato come compatibile con le esigenze conservative del bene, e quindi non necessariamente rimosso. Ma è chiaro che si parla di interventi minori, di portata limitata, e che non compromettono l’integrità o il significato storico-artistico dell’immobile».

«Ovviamente – sottolinea – questa valutazione è rimessa esclusivamente alla Soprintendenza. È un passaggio che do per scontato, ma è bene ribadirlo: ogni eventuale compatibilità deve essere espressamente accertata dall’autorità preposta alla tutela».

 

Sulla repressione degli abusi

Infine, Gualandi richiama l’attenzione su un aspetto ulteriore: «Anche la repressione dell’abuso – cioè la scelta tra demolizione, ripristino o applicazione di sanzioni pecuniarie – è oggetto di un orientamento giurisprudenziale ormai consolidato. Ci sono sentenze significative, come una del TAR Toscana del 2021 e un’ulteriore del Consiglio di Stato del 2024, che attribuiscono alla Soprintendenza un ruolo centrale, in particolare nelle zone di interesse storico, come le cosiddette "zone A" e cioè gli interventi nei “Centri storici”. In questi casi, spetta in via prioritaria alla Soprintendenza valutare la misura repressiva più adeguata: che si tratti di ripristino, demolizione o sanzione economica».

 

Conseguenze amministrative e penali in caso di interventi eseguiti in assenza autorizzazione

«Sul piano penale, la norma di riferimento è l’articolo 169 del Codice dei beni culturali, che configura il reato per gli interventi eseguiti in assenza di autorizzazione, o in difformità da essa, su beni tutelati. La sanzione prevista è l’arresto da sei mesi a un anno, oppure l’ammenda, a seconda della gravità del fatto. Ma non si tratta dell’unica fattispecie rilevante: esistono anche ipotesi specifiche di reato, come il distacco non autorizzato di parti decorative, la rimozione di affreschi o ornamenti, l’omessa comunicazione di lavori urgenti, o l’inosservanza di un ordine di sospensione impartito dalla Soprintendenza».

«Va però ricordato – sottolinea Gualandi – che la responsabilità penale è personale: richiede un comportamento imputabile a una persona fisica, e deve essere accertata caso per caso. Diversa è invece la responsabilità amministrativa, che riguarda la repressione dell’abuso edilizio o culturale indipendentemente dal soggetto che lo ha commesso. Si dice, impropriamente ma efficacemente, che l’abuso “segue la cosa”: ed è per questo che anche un acquirente successivo o un erede può ritrovarsi a dover sanare, o subire le conseguenze amministrative di, un intervento abusivo compiuto molti anni prima».

«Questo porta a uno “snodo” molto delicato: mentre il reato penale può prescriversi – anche se in questi casi si parla spesso di reati permanenti – la repressione dell’abuso amministrativo è tendenzialmente imprescrittibile. Un orientamento che è stato ribadito anche dal Consiglio di Stato in un’importante Adunanza Plenaria del 2017, in cui si discuteva degli “abusi storicizzati”. In quella sede, il Consiglio ha affermato un principio molto rigoroso che può sintetizzarsi così: l’abuso più è vecchio, più è grave, perché rappresenta uno sfregio persistente al patrimonio culturale e al territorio».

«Tuttavia – aggiunge Gualandi – il quadro normativo e giurisprudenziale si sta evolvendo. Il recente decreto “Salva Casa” sembra infatti riaprire il tema della tutela dell’affidamento del cittadino e della certezza dei rapporti giuridici. È un segnale che potrebbe orientare la giurisprudenza futura verso una maggiore attenzione all’interesse del privato, soprattutto in casi di interventi risalenti o di modesta entità».

«In questa direzione si inserisce anche l’evoluzione del potere di autotutela da parte delle amministrazioni: un tempo ritenuto illimitato, oggi è stato progressivamente ristretto a 18 mesi per poi essere ulteriormente ridotto a 12 mesi, entro i quali un’amministrazione può annullare un titolo edilizio o dichiarare inefficace una SCIA. È interessante, ad esempio, una recentissima sentenza del Consiglio di Stato (Cons. di Stato, sez. 6, n. 1702/2025) che affronta proprio il caso di un intervento autorizzato con il rilascio del titolo edilizio, ma privo dell’autorizzazione paesaggistica. In quel caso, il Consiglio ha stabilito che, se l’amministrazione interviene oltre il termine di un anno, il titolo edilizio non può essere annullato.

 

Le tempistiche delle Soprintendenze: tra efficienza e criticità

Non facciamo di tutta l’erba un fascio”: in molte Soprintendenze le autorizzazioni lavori previste dal D.Lgs. 42/2004 vengono rilasciate entro i 120 giorni previsti. Tuttavia, in altre regioni i tempi sono spesso fuori legge, anche di anni, a causa di richieste ripetute di integrazione documentale (in violazione di quanto dispone l’ art. 2, comma 7 della Legge n. 241/1990).

Per l’accertamento del danno (quando non è previsto l’accertamento di compatibilità), il Codice prevede un termine di 180 giorni, entro cui la Soprintendenza deve valutare il danno e proporre una soluzione (ripristino o corresponsione di un beneficio economico equivalente).

 

Legge Salva Casa: impatti su beni monumentali e paesaggio

Il Salva Casa non incide sulla parte seconda del Codice dei beni culturali (beni monumentali), ma interviene significativamente sulla parte terza (paesaggio). Pur conservando formalmente l’autonomia della valutazione delle Soprintendenze, apre una fase di instabilità interpretativa, dove il confine tra semplificazione procedurale e indebolimento della tutela appare ancora da definire.

In sintesi, proponiamo questa schematizzazione su pro e contro del cd. Salva Casa.

 

Pro del Salva Casa

1. Riapertura del tema della tutela dell’affidamento

  • Il decreto introduce una maggiore attenzione alla certezza e stabilità dei rapporti giuridici.
  • In tal senso, alcuni strumenti repressivi (come l’autotutela) sono oggi limitati nel tempo (12 mesi), a tutela del cittadino.

2. Introduzione del silenzio-assenso per l’accertamento di compatibilità paesaggistica

  • Nelle sanatorie ex art. 36 bis del TU Edilizia, anche nelle ipotesi di violazioni paesaggistiche, in caso di inerzia dell’amministrazione, può scattare un meccanismo di silenzio-assenso.
  • Questo può accelerare le pratiche nei casi in cui il danno paesaggistico sia lieve o assente (ipotesi di abusi consistenti in “parziali difformità” o in “variazioni essenziali”; non nelle ipotesi mancanza di titolo o di difformità totali).

3. Procedibilità anche in caso di aumenti volumetrici

  • Il Salva Casa ammette la trasmissione al parere della Soprintendenza anche di pratiche che includono aumenti di volume, in precedenza escluse tout court (ovviamente con i limiti sopra indicati).
  • Questo non obbliga le Soprintendenze ad approvare, ma amplia le possibilità di valutazione caso per caso.

 

Contro del Salva Casa

1. Indebolimento dei presìdi di tutela

  • La possibilità di silenzio-assenso nel paesaggio, seppur limitata, rappresenta una frattura di principio: gli interessi sensibili (paesaggio, ambiente, beni culturali) erano finora ritenuti incompatibili con logiche di semplificazione del procedimento.
  • Si teme un effetto domino: se si cede sul paesaggio, in futuro anche i beni culturali monumentali (parte seconda del Codice) potrebbero essere messi in discussione.

2. Ambiguità tra semplificazione e sanatoria

  • La riammissione di casi con aumento di volume è percepita come una forma indiretta di sanatoria per abusi anche consistenti, soprattutto in contesti costieri.
  • Questo può generare disallineamento tra tutela ambientale e semplificazione edilizia.

3. Rischio di svuotamento del ruolo delle Soprintendenze

  • Se i pareri diventano solo obbligatori ma non vincolanti, come da più parti auspicato.

 

“Doppio binario, stesso treno”: la fatica dei tecnici tra edilizia e tutela

Come osservano il prof. Trovò e il Prof. Gualandi, uno dei nodi più critici per chi opera nel settore del recupero edilizio e della conservazione del patrimonio culturale è rappresentato dalla necessità di semplificare la disciplina degli interventi sugli immobili vincolati, riducendo la confusione generata dal cosiddetto “doppio binario normativo”. Si fa riferimento, in particolare, alla coesistenza - spesso poco armonizzata - tra la disciplina dell’edilizia ordinaria (D.P.R. 380/2001) e quella della tutela dei beni culturali e paesaggistici (D.Lgs. 42/2004).

   

Il problema del doppio binario

Questi due sistemi normativi operano in parallelo ma secondo logiche e classificazioni differenti.

  • Il Testo Unico dell’Edilizia (D.P.R. 380/2001, art. 3 e seguenti) distingue tra categorie di intervento come manutenzione ordinaria e straordinaria, restauro, risanamento conservativo, ristrutturazione edilizia, nuova costruzione, ciascuna con titoli abilitativi diversi (CILA, SCIA, permesso di costruire, ecc.).
  • Il Codice dei beni culturali e del paesaggio (D.Lgs. 42/2004, art. 21 e 29), invece, richiede autorizzazione preventiva della Soprintendenza anche per interventi apparentemente minimi, come la tinteggiatura o la sostituzione di infissi, senza soglie quantitative o procedimenti semplificati.

Il risultato è che progettisti e funzionari si trovano spesso in difficoltà, costretti a muoversi in un quadro normativo incerto e frammentato, che rende complesso:

  • classificare in modo corretto l’intervento (difficoltà nel distinguere le diverse categorie di intervento);
  • individuare il titolo edilizio necessario;
  • determinare a quale autorità inoltrare la richiesta;
  • gestire correttamente i tempi e le sequenze delle autorizzazioni.

Questa sovrapposizione può genare sovrapposizioni di competenze tra diversi Enti e Istituzioni della PA, in primis il Ministero della Cultura, le Regioni e i Comuni, e anche difficoltà interpretative. Di conseguenza favorisce ritardi, contenziosi e disorientamento operativo, soprattutto nel settore privato, dove il margine di errore – anche inconsapevole – è più elevato.

 


Questo articolo nasce da un confronto con il prof. Francesco Trovò – architetto, docente associato di restauro architettonico allo IUAV di Venezia ed ex funzionario della Soprintendenza ABAP di Venezia e Laguna – e con il prof. Federico Gualandi, avvocato e docente a contratto di diritto amministrativo presso lo stesso ateneo.

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