Città | Biodiversità
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La città è un prodotto o un luogo pensato per l’uomo?

La città del futuro non può limitarsi a sommare tecnologie e lusso: deve ricucire le relazioni umane. In questo articolo analizziamo, in cinque passaggi chiave, come passare dalla logica delle community digitali a quella della comunità fisica, restituendo alla parola sicurezza il suo senso di fiducia condivisa, per progettisti urbanisti e decisori che cercano strategie concrete e visione etica insieme.

Dalla città‐prodotto alla città‐patto: community, comunità, sicurezza

La città come vetrina di bit e specchi

Nelle brochure - ormai non più progetti - dei nuovi masterplan urbani ricorrono sempre le stesse promesse: digital twin, hospitality di lusso, privacy controllata, living experience.

Sembra di sfogliare il catalogo di un resort globale dove la residenza è un servizio, il quartiere un brand e il cittadino un cliente in abbonamento.

La progettazione moderna — nutrita di dashboard e capitali immobiliari — produce isole scintillanti: terrazze pensili, facciate che dialogano con il metaverso, lobby sorvegliate da concierge algoritmici.

Ma sotto l’intonaco high-tech, il tessuto urbano si strappa: funzioni monouso, strade senza fronte abitato, piazze ridotte a filtro di sicurezza.

Non più mattoni consumati come tele di narratori antagonisti illegali ma architetture dinamiche, che riflettono il desiderio di perfezione, panchine che sono oggetti d’arte, scomode, fontane che imprimono ritmo, e uno schermo che da il dato sulla produzione di energia fotovoltaica.

 

Agorà degli studenti, Politecnico di Milano.
Agorà degli studenti, Politecnico di Milano. (Foto di Andrea Dari)

Ma è la piazzetta davanti alla biblioteca del Politecnico di Milano la piazza che preferisco di Milano, con la disposizione incasinata, i crocchi, i computer portatili aperti, i vecchi professori contornati dagli studenti come in immagine dell’antica Grecia dove la cultura era narrazione, contatto, mescolanza.

E’ una piazza che fa comunità.

What Was I Made For?
I used to float, now I just fall down
I used to know but I'm not sure now
What I was made for
What was I made for?
Takin' a drive, I was an ideal
Looked so alive, turns out I'm not real
Just something you paid for
What was I made for?
'Cause I, I
I don't know how to feel
But I wanna try
I don't know how to feel
But someday, I might
Someday, I might
When did it end? All the enjoyment
I'm sad again, don't tell my boyfriend
It's not what he's made for
What was I made for?
'Cause I, 'cause I
I don't know how to feel
But I wanna try
I don't know how to feel
But someday I might
Someday I might
Think I forgot how to be happy
Something I'm not, but something I can be
Something I wait for
Something I'm made for
Something I'm made for

 

2. Community: l’abitare ridotto a infoma

In questo contesto, il termine community diventa il totem relazionale del progetto urbano.

Una community si costruisce attorno a un interesse, un servizio, una destinazione. È il gruppo dei residenti di un complesso residenziale chiuso, quello degli utenti di una piattaforma, quello dei clienti fidelizzati di un brand urbano. È un aggregato senza radici, un’appartenenza contrattuale.

L’uomo è ridotto a infoma, nodo transitorio di una rete, non più abitante ma utente, non più cittadino ma target.

La community è il cluster di utenti che condividono un Wi-Fi, un coworking, un hashtag.

Relazioni rapide, programmabili, pronte a essere monetizzate. Qui la densità umana non nasce dall’incontro, ma dall’aggregazione statistica: grafi di prossimità più che vicinati, eventi calendarizzati più che quotidianità.

L’urbanistica delle platform city è abile nel renderizzare coesione: orti sociali all’ottavo piano, murales certificati ESG, badge di resident engagement.

Tuttavia, quando la connessione si interrompe, resta un vuoto di senso che né l’AI concierge né la sensoristica possono colmare.

Perchè l’informazione non lascia traccia, ma non soddisfa, non sfama, crea ansia, lascia il vuoto.

Non abbiamo bisogno di community, abbiamo bisogno di comunità.

    

3. Comunità: il ritorno al communis

La parola comunità chiede invece terra, tempo, contesto.

Communis è ciò che si mette in comune: il rischio e il pane, il gioco e la cura. Non si costruisce a tavolino; si coltiva lungo le soglie — l’androne, il portico, la panchina condivisa — dove il caso può ancora accadere.

Progettare comunità significa ridare porosità alla città: mescolare cicli di vita, economie, culture; accettare che il conflitto non è un bug ma il motore della forma urbana. Significa passare dal controllo dei flussi alla fiducia nei corpi che li attraversano.

La comunità non si progetta, si coltiva.

Serve il vuoto che permette l’incontro, serve la soglia, il margine, la panchina che attende, l’ombra che accoglie.

Serve lo spazio della cura — non quello medicalizzato, ma quello poetico, dove cura è presenza, attenzione, continuità.

Serve la contaminazione, la biodiversità, non gli studentati  e i centri per anziani.

Serve perché oggi tutto è efficienza, tutto è competizione. 

Oggi anche lo sport è competizione: abbiamo la scuola di calcio, di tennis, di pallavolo, di baseball. Da piccolo avevo il campetto in cui le porte erano fatte di mucchi di maglioni, la strada con una corda in mezzo a fare da rete bassa o alta, la palla fatta con la carta e lo scotch e un bastone. Non erano solo i più bravi a scendere in campo. Ognuno di noi giocava. Il vero pericolo era quando la palla andava al di là della rete, sull’insalata dell’orto della Rosina, che minacciava prima di bucarla per poi lasciarci tornare con un pugno di ciliegie.

I genitori ci lasciavano giocare a nascondino nel parco, nessuno si chiedeva se era sicuro.  

 

Biblioteca degli Alberi, ragazzi che giocano a pallone.
Biblioteca degli Alberi, ragazzi che giocano a pallone. (Foto di Andrea Dari)

   

4.  Sicuro, non è blindato

Dal latino se-curus — “senza preoccupazione” — sicuro indica prima di tutto uno stato dell’animo, non una barriera.

Nello spazio urbano, la sicurezza autentica nasce quando nessuno è costretto a difendersi.

La città è davvero sicura quando riduce le disuguaglianze che alimentano la paura, quando le differenze possono sostare nello stesso luogo senza temersi. Blindare una piazza crea tranquillità fisica ma genera inquietudine simbolica: proclama che lo spazio è fragile, che l’altro è minaccia.

La sicurezza vera è quella che nasce dal riconoscersi parte di un tutto, e non dal separarsene.

La sfida è quanto mai dentro la progettazione della città che non è solo definizione di spazi, non è solo illuminazione degli angoli.

Serve un patto, che metta la comunità al centro. E’ la comunità che ci rende liberi, non i recinti e i visti di ingresso.

   

5. Progettare il patto urbano

Tra la città-prodotto delle community e la città-patto delle comunità si gioca la qualità dell’abitare futuro.

Non è un confronto tra nostalgia e innovazione, ma tra modelli di relazione:

  • Community = efficientamento del vivere, abitante-dato, comfort transazionale.
  • Comunità = riconoscimento reciproco, abitante-persona, cura condivisa.

Rimettere al centro comunità e sicuro significa ridefinire il brief progettuale: non più “quante giga-connessioni?”, ma “quanta superficie di incontro spontaneo?”, non “quanti livelli di accesso?”, ma “quanta permeabilità sociale?”.

Solo così la smart city potrà diventare sapiente, e il lusso più ambito sarà sentirsi parte di un luogo che non teme la propria umanità.

L’evoluzione digitale non deve quindi essere vista come obiettivo, ma come strumento, integrato.

Cito spesso l’esempio di Singapore, la città che oggi è forse più avanti nel processo di smartificazione dei servizi. Tra i quartieri spazi verdi con punti di incontro in cui gli anziani parlano ai bambini. Noi li mettiamo con un gilet fosforescente fuori dalle scuole a gestire il traffico, loro su una sedia dentro la scuola a costruire futuro.

Eh sì, perchè il futuro ha bisogno di passato, la nostra cultura ha bisogno di irreversibilità, punti appoggio, esperienza, narrazione.

L’errore più grossolano che si può fare è quello di contrapporre umanesimo e tecnologia, il problema non è nell’evoluzione digitale, ma nella visione che si vuole dare alla città del futuro.

Quando la città smette di essere un servizio e torna ad essere un racconto collettivo, la sicurezza cessa di essere un codice d’allarme e diventa, di nuovo, semplice fiducia.

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