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Percezione della Gestione Informativa Digitale nella stazione appaltante: stato dell’arte e implicazioni operative

L’articolo analizza la Gestione Informativa Digitale nelle stazioni appaltanti, evidenziando la scarsa comprensione del BIM come strumento per la trasformazione digitale e non solo come modellazione tridimensionale. Il testo propone una svolta: dalle logiche formali e documentali imposte dal Codice Appalti verso una visione strategica e patrimoniale dei dati e dei processi, con modelli informativi integrati nel ciclo di vita dell’opera. Cruciale è il ruolo della dirigenza pubblica nel governare ecosistemi digitali evoluti.

Percezione del BIM e della GID nella committenza pubblica: stato dell’arte e implicazioni operative

La presenza del tema della Gestione Informativa Digitale nei due ultimi disposti legislativi relativi ai contratti pubblici (del 2016 e del 2023) testimonia la preoccupazione del legislatore nel sensibilizzare il mercato e il versante della domanda pubblica sul fenomeno della digitalizzazione che, a livello internazionale, sovranazionale e nazionale, ha raggiunto un, sia pure provvisorio, per un universo in dilatazione, elevato grado di formalizzazione.

Tale livello, con la pubblicazione in revisione delle prime tre norme della serie UNI EN ISO 19650, prevista per il 2016, implicherà un nuovo grado di avanzamento.

Al contempo, la percezione diffusa sul tema da parte degli attori delle stazioni appaltanti e degli enti concedenti evidenzia un problematico grado di comprensione della questione e una difficile valutazione dei benefici che si possano conseguire nel breve periodo rispetto alle prassi consolidate.

Conseguentemente, a fronte della preoccupazione di conseguire una conformità formale ai precetti legislativi, sarebbe necessario provare a indagare sulle modalità per insistere sul piano sostanziale all’interno del vissuto quotidiano.

La tesi di questo contributo è che, in luogo di procedere unicamente nell’alveo della contrattualistica pubblica, sotto i profili amministrativi, procedurali e tecnici, la chiave di accesso da proporre debba vertere sulla riorganizzazione della amministrazione pubblica e sulla gestione dell’investimento pubblico relativamente alla gestione e alla valorizzazione del patrimonio immobiliare e infrastrutturale.

In principio era una committenza pubblica che, in ossequio a una legislazione molto puntuale nella prescrizione degli atti propedeutici all’investimento pubblico nonché dei contenuti dei documenti progettuali, consentiva alle stazioni appaltanti e agli enti concedenti di ottenere una documentazione statica da parte dei progettisti incaricati, idonea a veicolare su un supporto cartaceo e, successivamente, dematerializzabile, contenuti informativi utili ai soggetti imprenditoriali firmatari di contratti di realizzazione e a consegnare a fine lavori opere conformi agli impegni negoziati.

Sostanzialmente, una esigenza individuata dal committente e formalizzata sinteticamente consentiva a diversi progettisti di concepire i contenuti di un bene sotto ogni aspetto geometrico dimensionale ovvero alfa numerico, trasmettendoli a costruttori in grado di tradurre le ipotesi e le potenzialità in realtà fisiche.

L’approccio sintetico comportava, nei fatti, alcuni sottintesi e talora una circoscritta delega da parte delle stazioni appaltanti e, più raramente, degli enti concedenti: ancora oggi ben presenti in molte circostanze, nonostante la verifica del progetto o la direzione dei lavori.

Talvolta, però, testi redatti in linguaggio naturale, calcoli numerici ed elaborati grafici bidimensionali e discreti mostravano lacune e incoerenze tali da pregiudicare l’esito previsto e di sovvertire tempi e costi per la realizzazione, alimentando il conflitto e la controversia tra parti contrattuali.

Parallelamente, dalla metà del Novecento, alla evoluzione del Computer Aided Design (CAD), con denominazioni e progressioni differenti, progrediva il Building Information Modelling (BIM), come tecnologia capace di visualizzare basi e strutture di dati riferite a spazi e a componenti in maniera relazionale e parametrica, ma, in particolare, non ambigua.

Tra l’altro, una vulgata ha diffuso la convinzione che il CAD rappresentasse unicamente una diversa interpretazione del disegno al tecnigrafo: in realtà, esso divideva col BIM gli stessi intenti ultimi e, al contempo, il manuale di riferimento internazionale conteneva una esplicitazione delle sue ragioni molto più esplicite di quelle presenti nell’analogo testo sul BIM.

Del BIM sono, in effetti, disponibili solo definizioni che ne spiegano più il fine, o l’ambizione, anziché l’essenza.

Da ciò deriva una sostanziale e grave indefinitezza e indeterminatezza dell’acronimo.
L’impiego di questi strumenti, di produzione di entità informative compiute, Product Data Model, oggetti non materiali inclusivi del bagaglio informativo, non per nulla, di appannaggio all’avvio, dei progettisti poneva l’esigenza di coordinare il modo di procedere tra i vari specialisti e di concordare criteri di formalizzazione omogenea del risultato.

Il Product Data Model potrebbe, in effetti, ora essere tradotto col Digital Product Passport.

L’innovazione tecnologica era spesso adoperata dai progettisti per migliorare il grado di rappresentazione e e di visualizzazione, tridimensionale e operante nel continuo, anziché nel discreto, accompagnata da una diffusione del parametricismo, senza, invece, riflettere adeguatamente sull’accezione di Data Model.

Che significa, infatti, letteralmente modellare l’informazione, se non aggregare dati, più o meno strutturati, per interpretare e per simulare le parti dell’opera come fenomeno?

Quanto ciò è stato compreso dagli utenti?

In che misura l’analisi dei conflitti tra entità geometrico dimensionali si è tradotta unicamente nell’identificazione di criticità relative ai procedimenti tradizionali, anche nel senso dell’anticipazione delle scelte di dettaglio?

In ogni caso, durante la progettazione, gli attori dell’offerta hanno preceduto temporalmente quelli della domanda, per fornire indicazioni sui criteri di modellazione informativa, vale a dire, per configurare le strutture di dati.

Paradossalmente, ciò ha fatto sì, che fosse il versante dell’offerta professionale a preoccuparsi di immaginare processi di integrazione tra i soggetti coinvolti, attraverso il piano di gestione informativa, senza, però, ricevere dati di ingresso dalla domanda, che solo assai tardivamente, avvertiva l’esigenza di determinare propri requisiti informativi per mezzo del capitolato informativo.

È possibile, perciò, affermare che il processo di produzione di dati e di informazioni attinenti alla progettazione sia nato in maniera autoreferenziale, per essere in seguito contestualizzato sia dalle strutture di committenza sia dalle loro controparti professionali.

Ovviamente, questa produzione informativa, per la più parte, è avanzata senza indirizzo precisi da parte dei committenti quanto a esigenze, obiettivi, finalità, risultati: sino ai primi Anni Dieci, almeno sotto il profilo di strategie governative.

Il modello informativo è, peraltro, quasi sempre stato considerato come rappresentazione di un oggetto e non come interpretazione di un fenomeno.

Nei casi migliori si è ottenuta una interoperabilità, vale a dire un trasferimento di dati, dall’ambito della progettazione architettonica o ingegneristica a quella della concezione strutturale o di altra natura in modi operativi, senza, invece, riuscire a ottenere una piena correlazione tra i dati e le informazioni presenti in tutti i contenitori informativi (compresi quelli legati a esiti redatti in linguaggio naturale), senza poter mettere in relazione e interrogare i contenuti veicolati.

In Italia, a seguito del recepimento di una Direttiva emanata a livello unionista, già nel 2016 e nel 2017 si era stabilito un programma attuativo, ripetutamente modificato e trasposto temporalmente, sinché con il 2025, esso parzialmente ha visto una adozione irrevocabile.

L’atteggiamento dilatorio della maggior parte delle stazioni appaltanti ha fatto sì che ora compaia, prima di tutto, la necessità di comprendere il tema, del tutto estraneo alla mentalità e alla pratica consolidate.

Non per niente, il ricorso ossessivo al BIM, come elemento rassicurante, a fronte della Gestione Informativa Digitale, testimonia questa riluttanza ad approfondire la tematica: magari in attesa che qualche modello linguistico, tramite imbeccate testuali conversazionali, operi nei dispositivi al posto dei soggetti umani.

Si pone attualmente, dunque, l’interrogativo inerente alla comprensione, da parte di stazioni appaltanti e di enti concedenti, relativamente alla Gestione Informativa Digitale, contemplata nel Codice dedicato al Contratto Pubblico, per le eventualità in cui essa sia prevista, specie in termini di cogenza.

Sul piano formale è sufficiente affermare che si tratti di redigere un documento denominato atto organizzativo (possibilmente comprendente un piano di formazione delle risorse umane e un piano di investimenti strumentali), altri documenti chiamati capitolati informativi, di disporre di un ambiente di condivisione dei dati e di altri dispositivi finalizzati alla produzione e alla verifica della modellazione informativa e di avvalersi, più o meno stabilmente di profili professionali quali i gestori degli ambienti di condivisione dei dati e dei flussi informativi oltreché dei coordinatori dei flussi informativi, non per forza certificati da organismi terzi secondo la normativa UNI 11337-7.

Si tratta di uno sforzo certamente oneroso, proprio perché non interiorizzato, anche se, almeno economicamente, l’emulazione di casi pubblici e l’offerta consulenziale ribassista permettono di contenere i costi.

Maggiore attenzione deve essere riservata all’acquisizione strumentale, in virtù dei diversi piani tariffari, al cospetto di un dialogo problematico tra unità organizzative all’interno della stazione appaltante, e una certa difficoltà può rinvenirsi nel reperire risorse umane effettivamente qualificate.

Ovviamente, gli obblighi in questo modo sono pienamente soddisfatti, senza, almeno in apparenza, modificare la natura del proprio vissuto quotidiano, semmai accantonando il fastidio.

Al centro di questo investimento, dai contorni ancora oscuri per molte stazioni appaltanti e per molti enti concedenti, sta, perciò, il BIM, acronimo ormai familiare a chiunque, per cui, tuttavia, esiste una sterminata pubblicistica, una vasta letteratura e una notorietà non accompagnata da definizioni davvero non del tutto condivisibili e credibili.

In senso proprio, si dovrebbe, perciò, procedere, sin dall’affidamento dei contratti pubblici relativi ai servizi di ingegneria e di architettura a richiedere al ceto professionale, interno ed esterno al committente, di configurare i modelli informativi, nei fatti ridotti spesso a rappresentazioni parametriche tridimensionali dei contenuti di un progetto, in cui la dimensione geometrica prevalga nettamente.

Il beneficio principale atteso dai modelli informativi è di estrarre da essi elaborati grafici che presentino minori incoerenze rispetto a quelli convenzionali, migliorare i computi metrici e, infine, utilizzare gli stessi modelli per simulazioni di ordine energetico, strutturale, impiantistico, costruttivo.

La possibilità, poi, di disporre di un rilievo digitale quanto a ciò che sia osservabile, può offrire ulteriore soddisfazione e permettere di avere confidenza nei dati di ingresso.

È evidente che tutto ciò possa assicurare qualche miglioramento nelle prassi analogiche, per un verso rassicurando gli attori, per un altro, sollecitandoli a uno sforzo i cui ritorni possono certo essere misurati quanto a forometrie non improvvisate e a maggiore coerenza nei rapporti tra gli elementi costruttivi.

Si può, invece, proporre una narrazione assai differente, per cui l’argomento cambia in modo radicale e riguarda la trasformazione digitale delle organizzazioni pubbliche, vertendo sulla centralità della gestione patrimoniale e sulla integrazione dei processi decisionali tramite la continuità di flussi informativi.

Che cosa diremmo se proponessimo il famigerato BIM come strumento per far convergere le culture disciplinari e per ripensare le strutture organizzative, in vece che enfatizzare liturgicamente una concezione di collaborazione più da catechismo, ideologica?

Che cosa sarebbe se stessimo riflettendo sulla riforma dell’amministrazione pubblica nell’impiego delle provviste finanziarie per valorizzare la dotazione in patrimoni e per ottimizzare investimenti con riguardo alla spesa corrente?

O preferiamo pensare al BIM come pareti che includono serramenti, messi a sistema?

Il tema è, dunque, tutt’altro: non già solo rappresentazioni tridimensionali di un edificio, di una infrastruttura ovvero di una rete, bensì la rivisitazione di processi decisionali agiti da risorse umane specificamente qualificate e supportati da strutture e da basi di dati.

 

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