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Stefano Boeri, Manfredi Catella, Giuseppe Sala: se i colpevoli fossero altri?

Milano ha incarnato l’idea che l’urbanistica sia un atto politico capace di rigenerare interi quartieri grazie all’alleanza tra istituzioni, finanza e architetti. Oggi quell’esperimento virtuoso — il modello Milano — è travolto dal “caso” giudiziario che rischia di arrestare investimenti e cantiere. Indagare cause e norme, non soltanto colpevoli, diventa urgente.

La forma della polis

Progettare non è un esercizio neutrale: è prendere parte, assumere responsabilità, incidere sul destino condiviso.

Ogni allineamento di facciata, ogni sezione di strada, ogni norma edilizia è una scelta politica che traduce valori in pietra e regola i movimenti del quotidiano.

L’ho già scritto su queste pagine con chiarezza: «l’architettura è un atto politico e culturale… progettare significa schierarsi, generare relazioni, trasformare gli spazi in simboli di appartenenza».

   


L’architettura è un atto politico e culturale

Presa da:  https://www.ingenio-web.it/articoli/architettura-e-appartenenza-ripensare-il-costruito-tra-alienazione-sradicamento-ed-estraneita/


    

Ecco perché le decisioni urbanistiche non possono prescindere dalla guida politica della città.

Senza una bussola civica capace di orientare il progetto – una visione di lungo periodo, condivisa e trasparente – la costruzione urbana si riduce a sommatoria di lotti privati, a palinsesto di deroghe, a figura senza volto.

Soltanto la volontà politica può tenere insieme le scale: dal singolo mattone al quartiere, dal quartiere al territorio, dal territorio alla memoria collettiva. L’urbanista, l'architetto, porta strumenti e immaginazione, ma è la comunità – attraverso le sue istituzioni – che decide in che direzione far avanzare la città, quali conflitti sanare, quali identità coltivare.

In questo senso, il disegno urbano è un contratto sociale in cui forma e governo si specchiano.

Dove manca la regia politica, la bellezza resta embrione; dove la regia è miope, la bellezza diventa facciata; dove la regia è lungimirante, la bellezza si fa infrastruttura di democrazia: un sistema di spazi che tutela la diversità, promuove l’incontro, riconosce la storia e apre al futuro.

L’architettura, dunque, è scrittura di polis: la sua grammatica – materiali, proporzioni, tipologie – prende senso solo se guidata da una sintassi politica che sappia chiedersi per chi, perché, con quali risorse e con quali visioni costruiamo la città che verrà.

Ascolto della città: la materia narrante

La cultura urbanistica italiana – uscita dall’adolescenza delle cronache stilistiche e delle genealogie di movimenti – ha cominciato a interrogare i problemi disciplinari con un respiro nuovo.

Non più una “storia progressiva delle forme”, né la semplice registrazione di avanguardie e retroguardie, ma lo sguardo posato sul rapporto, mutevole e tenace, fra architettura edilizia e morfologia urbana.

Al centro sta l’idea che lo spazio costruito è una fibra del corpo-città: cambiano economie, funzioni, generazioni, eppure quel legame resta la chiave che consente di leggere – e di scrivere – la trasformazione urbana.

Da qui la necessità di un metodo: ascoltare la città per comprenderne la sintassi, decifrare il dialogo fra tipo edilizio (la logica interna dell’edificio) e figura urbana (la logica collettiva dello spazio pubblico).

La città è un testo denso di stratificazioni:
chi progetta deve leggerlo con cura filologica
prima di osare riscriverlo.

Ascoltare alla città, però, non significa delegare al cittadino la scelta di progettare la città. Per il progetto richiede conoscenza, esperienza, professione. E' populistico affermare quindi che le scelte urbanistiche e architettoniche della città possono compiersi attraverso un atto pubblico dettato dall'abitante. Come evidenziavo è un atto politico, ma la politica si nutre di scelte di rappresentanza, non di azione diretta.

   

Architettura e città non sono fenomeni disgiunti

C'è intende architettura e urbanistica due atti disgiunti. A mio parere non è così. Ne ho scritto ampiamente su questa testata.

Ma intendere l’architettura come fenomeno urbano per eccellenza impone di rifondare i nostri strumenti: dall’analisi al disegno normativo, dal lessico costruttivo ai criteri di rappresentazione, fino ai dispositivi di prefigurazione del paesaggio. Solo così si oltrepassa la storica cesura fra architettura e urbanistica e si apre la strada – concreta, non retorica – a una città bella perché ben fatta.

Parlare di architettura, dunque, non è evocare l’immagine scintillante di un oggetto; è parlare della costruzione della città nel tempo.

   


Le smart city non hanno grattacieli scintillanti

Presa da: https://www.ingenio-web.it/articoli/le-smart-city-non-hanno-grattacieli-scintillanti/


    

Parlare di architettura significa occuparsi di ciò che resta dopo la cerimonia dell’inaugurazione: le soglie consumate, le ombre che mutano, i desideri che abitano interstizi inaspettati.

È questo il “dato ultimo” del nostro mestiere: la città della quotidianità, l’ambiente vivo in cui la comunità riconosce se stessa.

Ecco perché l’insegnamento dell’architettura – e il progetto che ne scaturisce – deve misurarsi con la casualità delle occasioni concrete: il lotto irregolare, il vincolo infrastrutturale, la memoria affettiva di un rione. Solo un’architettura consapevole del proprio ruolo urbano può, col passare delle stagioni, trasmettere esperienze di senso oltre la propria pelle; governare, quasi per gravità, la trama delle relazioni che la circondano; diventare, infine, un atto politico che dà forma e destino alla polis.

   

Scrivere la città: Il triangolo critico e le sue forze vive

Le riflessioni dell'ultimo capitolo precedente nascono dalla lettura del libro di Stefano Boeri La città scritta. Un libro nei libri perchè parte dall'analisi di  tre libri coevi – Origini e sviluppo della città moderna di *Carlo Aymonino (1965), Il territorio dell’architettura di *Vittorio Gregotti (1966) e L’architettura della città di *Aldo Rossi (1966) – come vertici di un triangolo dialettico che ancora oggi orienta il progetto urbano.

Tre libri diversi un tema comune, che oggigiorno possono concederci di riflettere intorno al tema del progetto della città.

  • Rossi offre la bussola della permanenza: i fatti urbani, i monumenti, le tracce lunghe che danno identità e ordine al mutamento.
  • Gregotti allarga la scena al territorio: infrastrutture, paesaggi produttivi, ecologie sociali che fondano la dimensione politica dell’architettura.
  • Aymonino porta in primo piano la realtà socio-economica: conflitti di classe, funzioni industriali, contraddizioni che l’azione progettuale deve rendere visibili e trasformare.

Boeri mostra come, intrecciando queste tre prospettive, l’idea di città trascenda l’oggetto architettonico e diventi processo corale: la pagina che noi aggiungiamo con un edificio sarà letta, commentata e forse riscritta da molte altre mani.

È qui che entra in gioco chi governa la città – amministratori, tecnici comunali, legislatori urbanistici.

Se l’architettura fornisce i segni, è la politica regolativa che dispone la sintassi.

Un nuovo piano di governo del territorio, un indice fondiario, un bonus fiscale orientano la crescita urbana con la stessa forza di un boulevard o di un grattacielo.

Dentro questa regia si agitano quattro forze imprescindibili come correnti che scorrono contemporanee:

  • La finanza è la linfa che decide quando un’idea rimane bozzolo e quando invece fiorisce in cantiere. Non basta progettare: occorre comprendere catene di investimento, dinamiche creditizie, fiscalità urbana.
  • L’attrattività internazionale dona respiro cosmopolita: università, poli innovativi, eventi culturali sono magneti che ridefiniscono la mappa degli usi e spingono la città a misurarsi con standard globali senza perdere il proprio carattere.
  • La vitalità dei quartieri è il metabolismo diffuso: reti di prossimità, artigianato, spazi ibridi che sanno autorigenerarsi; quando un rione cambia, la trasformazione si propaga come un’onda lungo il sistema urbano.
  • La semantica degli spazi – insegne, materiali, skyline, persino l’odore dei mercati – compone il vocabolario con cui la città si racconta al mondo. Progettare significa anche decidere quali parole nuove introdurre e quali conservarne l’accento originario.

Accogliere questo intreccio senza timore di osare, rinnovare, sperimentare è il compito che consegniamo a chi scrive le regole e a chi le applica sul terreno.

Solo così – fondendo la profondità di Rossi, l’ampiezza di Gregotti e il realismo di Aymonino – il progetto urbano resterà atto politico capace di accompagnare la città lungo le rotte imprevedibili del suo futuro.

     

Milano, la città che ha imparato a respirare come un organismo unico

Milano ha colto prima di altre questo senso del dialogo fra progetto urbano, finanza e visione civile: dalla giunta di Letizia Moratti alla stagione arancione di Giuliano Pisapia, fino alla continuità cosmopolita di Giuseppe Sala, la politica ha tessuto una trama senza interruzioni di colore.

Mentre i developer — COIMA di Manfredi Catella, Hines, Generali Real Estate, Allianz — innestavano capitali e idee, gli architetti scrivevano simboli: il Bosco Verticale di Stefano Boeri che ha fatto scuola nel mondo, le torri di Zaha Hadid, Arata Isozaki e Daniel Libeskind a CityLife, il campus MIND di BIG, la Fondazione Feltrinelli di Herzog & de Meuron, i rigenerati scali ferroviari guidati da Renzo Piano.

Il risultato è stato un ciclo virtuoso: aree dismesse tornate a pulsare, flussi di investimento internazionale, occupazione che travalica il cantiere, un turismo d’architettura che sorseggia skyline come opere d’arte.

Il Politecnico di Milano ha fornito ricerca e talenti, l’industria ha sperimentato tecnologie verdi, la finanza ha trasformato il rischio in opportunità: così è nato il “Modello Milano”, laboratorio europeo d’innovazione urbana, capace di coniugare profitto e bellezza, memoria e futuro.

Tutti — e davvero tutti — ne hanno parlano come di una partitura da esportare, a patto che altre città sappiano accordare la stessa sintonia fra politica lungimirante, capitale paziente e coraggio progettuale.

E invece — proprio quando il “Modello Milano” sembrava una sinfonia senza crepe — il pentagramma s’è incrinato.

Da due anni la Procura ha di fatto avviato un blocco edilizio/urbanistico dello sviluppo della città.

Il 29 febbraio 2024 la Procura di Milano apre il primo fascicolo dopo l’esposto di un comitato di residenti di via Fauchè: nel cortile era comparso un nuovo corpo di sei piani presentato come “ristrutturazione”, grazie a una semplice SCIA. L’anomalia (nuova costruzione camuffata da recupero) diventa l’«atto di nascita» dell’indagine.

Il 16 luglio 2025 la Procura ha alzato  i toni: 74 nomi iscritti nel registro degli indagati, sei misure cautelari chieste, cantieri sotto sequestro per oltre dodici miliardi di euro. Tra i destinatari dei provvedimenti spiccano Manfredi Catella (COIMA), l’assessore alla Rigenerazione urbana Giancarlo Tancredi, il presidente e il vice della disciolta Commissione Paesaggio Giuseppe Marinoni e Alessandro Scandurra; indagato, insieme ad altri amministratori, anche il sindaco Giuseppe Sala

I magistrati parlano di un “sistema Milano” fondato su favori, scorciatoie istruttorie, presunte mazzette per oliare iter autorizzativi e varianti. La maxi‑inchiesta, che qualcuno ha già ribattezzato Palazzopoli, tocca residenze di lusso a Porta Nuova, rigenerazioni di scalo Farini, permessi di costruire sprintati nei distretti più ambiti.

Il colpo è duro.

In un lampo, la narrativa di successo — capitale globale, archistar, finanza coraggiosa — si ritrova mescolata alle parole più cupe della cronaca giudiziaria. Gli investitori internazionali trattengono il fiato, i cantieri si fermano, la cittadinanza si interroga su trasparenza e redistribuzione dei benefici di tanta crescita. La politica, da Palazzo Marino a Montecitorio, annaspa tra richieste di dimissioni e proclami di garantismo.

Eppure il nodo è chiaro: senza norme adeguate e senza controlli terzi, perfino il modello più virtuoso può deragliare.

    

Norme logore, città in mutazione: Il tempo della riforma (e dei responsabili che l’hanno elusa)

L’inchiesta milanese – sottolineo settantaquattro indagati, permessi lampo, presunti favori a cerchie ristrette – non è soltanto la fenditura di un “modello”: è il sintomo di un sistema normativo ormai inadeguato a governare la complessità che, nel frattempo, ha trasformato la società e la città.

La cornice normativa che non regge più

  • Legge urbanistica 17 agosto 1942, n. 1150 – concepita per un Paese agricolo, aggiornata a colpi di rattoppi (1967, 1971, 1978), ancora oggi è lo scheletro della pianificazione italiana. 
  • D.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 – Testo unico dell’edilizia – nato per “semplificare”, è divenuto una giungla di deroghe, sanatorie, bonus e decreti‑legge che si accavallano ogni stagione.
  • Legge per l’architettura – mai promulgata: i disegni di legge sulla qualità progettuale si sono arenati in Parlamento (da quello del 2006 alla proposta del 2012, fino ai tentativi del 2018).

Nel frattempo il contesto si è ribaltato: tele‑lavoro, piattaforme logistiche, turismo d’architettura, crisi climatica, transizione energetica, nuova longevità, migrazioni di rientro dei “cervelli”, intelligenza artificiale nei servizi urbani.

La città reale viaggia a un ordine di grandezza più veloce delle sue regole.

Dai tempi di Lunardi – quando Lavori Pubblici e Trasporti furono fusi nel Ministero delle Infrastrutture e dei Trasportinove titolari di dicastero hanno sfilato senza consegnare la riforma organica annunciata:

  • Antonio Di Pietro · 17 maggio 2006 – 8 maggio 2008
  • Altero Matteoli · 8 maggio 2008 – 16 novembre 2011
  • Corrado Passera · 16 novembre 2011 – 28 aprile 2013
  • Maurizio Lupi · 28 aprile 2013 – 20 marzo 2015
  • Graziano Delrio · 2 aprile 2015 – 1 giugno 2018
  • Danilo Toninelli · 1 giugno 2018 – 5 settembre 2019
  • Paola De Micheli · 5 settembre 2019 – 13 febbraio 2021
  • Enrico Giovannini · 13 febbraio 2021 – 22 ottobre 2022
  • Matteo Salvini · 22 ottobre 2022 – in carica (luglio 2025)

A ognuno di loro – oltre ogni appartenenza cromatica – rivolgo l’accusa esplicita di avere rinviato la rigenerazione del quadro normativo, limitandosi a decretare incentivi spot o “salva‑casa” temporanei mentre la città cambiava pelle.

Sono loro ad avere la principale colpa di aver trascurato un aspetto così importante, quello dello sviluppo della normativa riguardante le costruzioni, l'edilizia, le città, l'architettura.

E' dalla loro assenza che nasce un sistema ogni giorno più indecifrabile, complicato, burocratico, inadeguato, che porta a bloccare la logica del fare, gli investimenti, le riqualificazioni, gli interventi di miglioramento ... e favorisce la cultura della corruzione e concussione.

Perchè, la domanda che pongo a tutti questi ministri passati e presenti è perchè? perchè non vi siete curati di questo aggiornamento necessario, che oggi consegna oltre al problema giudiziario di Milano un patrimonio immobiliare non sicuro, non efficiente, non adeguato alle esigenze sociali di un mondo che corre alla velocità dell'intelligenza artificiale.

Perchè avete creato commissioni, gruppi, ... fatto annunci che non hanno portato ad alcun cambiamento importante ?

Se quindi ad oggi non possiamo ancora affermare se Sala, Boeri, Catella ... siano colpevoli oppure no possiamo con certezza dire che c'è però una responsabilità politica sulla situazione generale che l'edilizia e la progettazione urbana sta vivendo, ed è quella di questi signori.

Ma se per otto di questi possiamo parlare solo al passato, per uno, essendo ancora in carica, il Ministro Matteo Salvini, chiediamo uno stop agli annunci. Avevo scritto una lettera aperta su questa testata due anni fa: "Ministro Salvini, siamo molto preoccupati: un’agenda per le costruzioni per il nuovo titolare del MIMS". E successivamente il Ministro mi aveva risposto.

Nel medio periodo, invece, intendiamo giungere a una riforma organica del Testo Unico dell’edilizia, finalmente semplificando e sburocratizzando, con l’intento di fare chiarezza e semplificare le regole. Il prossimo passo sarà rappresentato dalla presentazione di un disegno di legge, a cui stiamo lavorando, per il riordino e la semplificazione della disciplina in materia di edilizia e costruzioni

Il caso del Ponte sul Polcevera, così come l'attuazione del PNRR, hanno dimostrato che con questa normativa non si va da nessuna parte. E lo Stato con i provvedimenti presi in questi ambiti lo ha dimostrato.

Quindi sig. Ministro Salvini è giunta l'ora di passare a cose concrete.

Senza un nuovo Codice delle costruzioni che:

  1. Unifichi urbanistica, edilizia, paesaggio e transizione ecologica in un testo chiaro e digitale‑by‑design;
  2. Riconosca la qualità progettuale come interesse pubblico, estendendo concorsi obbligatori e linee guida nazionali;
  3. Sostituisca la cultura della deroga con indicatori prestazionali flessibili ma trasparenti;
  4. Tuteli l’innovazione urbana – dal co‑housing energetico alla micro‑logistica di quartiere – anziché ingabbiarla in cavilli,

ogni scandalo rischia di ripetersi, ogni virtù di soccombere.

Le leggi non devono solo punire il vecchio malaffare: devono spalancare le porte a una città che, nel presente, chiede di nascere di nuovo.

Un invito a definire un Codice nuovo, non scritto nelle stanze del Legislativo del Ministero, troppo lontane dall'esperienza quotidiana di chi vive il mondo delle costruzioni, ma insieme ai rappresentanti delle professioni e degli uffici pubblici locali, che ne sono oggi costanti protagonisti e vittime.

Il BIM e la digitalizzazione hanno e stanno cambiando il mondo delle costruzioni. La cultura dell'uso ha sostituito quella della proprietà. Siamo passati dal valore dell'oggetto a quello dell'esperienza. Il posto fisso è visto dai giovani come un vincolo, non come una risorsa. Non facciamo più figli e la maggiorparte dei bambini delle nostre scuole hanno origine diverse. L'unica cosa rimasta immutata è la normativa tecnica. E' ora di cambiare.

   

Milano con la peste

Non spetta a chi scrive sostituirsi alla giustizia: le indagini facciano il loro corso, le responsabilità individuali si accertino nelle aule di tribunale. E tuttavia, alla luce di ciò che trapela dalle cronache, è lecito domandarsi se non si stia varcando una soglia.
L’impressione — sempre più nitida — è che una parte della magistratura stia tentando di dettare l’agenda urbanistica di Milano, spostando il fuoco dal reato puntuale alla legittimità stessa di un modello di trasformazione che, fino a ieri, il mondo intero additava come caso di scuola.

Molti dei fatti oggi sotto i riflettori sembrano, più che episodi di corruttela conclamata, trattative politiche (talvolta probabilmente opache, è vero, talvolta semplicemente complesse) fra amministrazione, investitori e progettisti. Il problema, però, è che nell’arena pubblica si sta accendendo uno spirito giustizialista degno dei talk‑show pandemici: come allora eravamo tutti virologi, oggi ci scopriamo all’improvviso urbanisti, architetti, geometri con la toga.

Molti dei fatti oggi sotto i riflettori sembrano, più che episodi di corruttela conclamata, trattative politiche (talvolta opache, talvolta semplicemente complesse) fra amministrazione, investitori e progettisti. Eppure il dibattito pubblico s’incendia con una virulenza che ricorda gli “untori” manzoniani: come nei Promessi sposi bastava un sospetto per additare il colpevole della peste, così oggi basta un titolo di prima pagina per marchiare intere categorie — architetti, developer, assessori — come propagatori di chissà quali malefatte urbane.

Il problema è che nell’arena pubblica si sta accendendo uno spirito giustizialista degno dei talk‑show pandemici: come allora eravamo tutti virologi, oggi ci scopriamo all’improvviso urbanisti, architetti, geometri con la toga.

La conseguenza è un rischio doppio:

  1. Sputtanare il “modello Milano” prima che un giudice si esprima, gettando ombre su figure che hanno fatto da ambassador culturali dell’Italia nel mondo;
  2. Congelare investimenti e cantieri, proprio nel momento in cui la città potrebbe consolidare la leadership green & tech conquistata negli ultimi quindici anni.

Abbiamo già visto come va a finire quando il cortocircuito tra inchiesta mediatica e dibattimento infinito travolge interi settori: la chimica nazionale, che a metà anni Ottanta primeggiava in bio‑carburanti e bio‑plastiche, fu smantellata più dai faldoni giudiziari e dall’opinione pubblica che da sentenze definitive. E oggi la chimica italiana non esiste più.

Oggi, a fronte di troppi verbali filtrati, troppe intercettazioni in prima pagina, la sostanza penale pare ancora esile; di contro, l’ignoranza tecnica rischia di diventare sentenza morale. Che Milano, e con essa il Paese, non debba un giorno rimpiangere quest’onda di fango preventivo è responsabilità di tutti: magistrati, amministratori, stampa, cittadini.

Lasciamo, dunque, che i giudici giudichino. Intanto, curiamo il dibattito pubblico: fondiamolo su competenza, dati, trasparenza. Solo così — con regole finalmente chiare e controlli terzi, non con tribunali mediatici — potremo salvare la credibilità del “modello Milano” e preservare quell’energia di progetto che ha reso la nostra città il laboratorio urbano più vivace d’Europa.

Non fissiamoci sul dito che indica la luna — se, ossessionati dai colpevoli, dimentichiamo di indagare le cause, consegneremo le nostre città a immobilismo, arretratezza e irrimediabile inadeguatezza.

Nel frattempo per Milano serve una risposta politica/normativa: in attesa  che i Giudici facciano (davvero) il loro mestiere, occorre sbloccare la città: per i 15.000 che aspettano una casa, per lo sviluppo della città, per il nome del nostro Paese.

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